CAMMEO (fr. camée; sp. camafeo; ted. Kamee; ingl. cameo)
Con tal nome, di origine e di radice oscure, e che compare solo col sec. XIII, s'intende generalmente ogni gemma lavorata in rilievo; più propriamente il nome è applicato a quei lavori in cui si utilizzano i diversi strati delle pietre dure per la differenziazione dei colori nei varî piani del rilievo.
L'arte antica. - La pietra più adatta a tale scopo, e quella usata quasi senza eccezione nel periodo più antico, è la sardonice; per le gemme più piccole era preferita la sardonice indiana, di due strati, nel superiore dei quali, di un tono di avorio, erano intagliate le figure, mentre quello inferiore, bruno-chiaro, serviva per sfondo; spesso un terzo strato scuro superiore serviva per l'indicazione di particolari, come i capelli e le vesti delle figure; ma nei pezzi più grandi di sardonice si possono contare fino a otto e nove strati, di cui per il rilievo sono state sfruttate le diverse sfumature fra il bianco, il giallo, il bruno e il rossiccio. Soltanto in epoca romana entrò in favore la sardonice arabica, in cui l'immagine, su uno strato bluastro o bianco-grigiastro nel fondo nero-opaco, ha un effetto più delicato ed eguale, ma anche più freddo, e più consono allo spirito dell'età augustea. Solo in casi eccezionali nelle pietre di due strati la figurazione è nello strato scuro sul fondo bianco. Pietre di un solo colore furono usate specialmente per i cammei in altorilievo e in epoca romana; e fra esse precipuamente il calcedonio e l'agata, la corniola, il cristallo di rocca e l'ametista.
Precedenti del cammeo si possono indicare in certi pendagli di pietre dure lavorate plasticamente, come pure nella lavorazione plastica, talora anche nei differenti strati della sardonice, sul rovescio di scarabei dei periodi ionico arcaico ed etrusco arcaico. Ma veri e proprî cammei compaiono nella storia dell'arte solamente dall'epoca ellenistica; l'origine si deve ricercare con probabilità nelle fastose corti dell'Asia Minore e dell'Egitto, dove lo spirito greco dell'epoca alessandrina pensò di trasformare in espressione artistica il puro splendore materiale delle pietre preziose che ornavano diademi, tazze e bicchieri, utensili e arredi; ugualmente i cammei antichi erano incastonati senza dubbio in vasi, in utensili e in strumenti musicali, erano applicati su oggetti d'ornamento, su stoffe e vesti; esemplari più piccoli erano infilati nel mezzo di collane o servivano per anelli. I più antichi cammei databili sono stati rinvenuti in alcune tombe della Crimea, contenenti monete di Lisimaco e dei suoi successori, e suppellettili che non possono risalire oltre l'inizio del sec. III a. C.
I caratteri che distinguono i cammei di epoca ellenistica, oltre al colore e alle tonalità stesse preferite nel materiale, sono la maggiore maestria nel rendimento dei diversi strati della pietra e nella lavorazione del rilievo, a contorni tondeggianti, e a piani sfumati, come altresì la vita e il pathos che dominano, conformemente all'arte dell'epoca, anche queste piccole composizioni. La fabbrica principale dei cammei doveva essere, accanto forse ad Antiochia, la medesima Alessandria; anzi un gran numero di soggetti è trattato in stile egizio, ma sono tutte opere di epoca tolemaica, calcate esse stesse su modelli ellenici; proviene da Alessandria con tutta probabilità l'opera più bella di quest'arte, e nel medesimo tempo il capolavoro a noi rimasto di tutta l'arte alessandrina, la Tazza Farnese (v. tav. CX), già di Lorenzo il Magnifico e posseduta attualmente dal Museo di Napoli; tale opera è anche una delle maggiori per dimensioni, misurando 20 cm. di diametro, e rappresenta esternamente una testa gorgonica, mentre nell'interno è un'allegoria del Nilo e degli elementi, con Iside seduta su di una sfinge, con Horus, le Stagioni, e i venti Etesî librati nell'aria. Se non così possente per spirito d'arte, assai leggiadra e fine è la grande "coppa dei Tolomei" di Parigi, che su entrambi i lati ha rappresentata la preparazione di una festa dionisiaca, con vasi, maschere, fiaccole, erme, posati sulla trapeza e sparsi nel campo. Altri cammei più piccoli appartengono indubbiamente a questo periodo per la delicatezza del lavoro e per l'analogia con altre opere ellenistiche; alcuni rappresentano scene mitologiche: un artista che lavorò probabilmente nel sec. II a. C. è Protarco, che ha firmato il cammeo di Firenze con Eros che cavalca un leone. Ma sin da principio prende possesso del campo la ritrattistica, che ci ha lasciato due capolavori nei due grandi cammei detti dei Tolomei, uno di Leningrado e l'altro di Vienna, nel quale ultimo sono state riconosciute le effigie idealizzate di Alessandro il Grande e della madre Olimpia.
L'arte romana dei cammei, mentre raggiunge un'estrema perfezione tecnica e la più accurata finitezza ed eleganza di esecuzione, si distingue d'altra parte per una certa freddezza di espressione. e spesso anche per la maggiore piattezza della superficie; per soggetti e per maniera essa si ricollega immediatamente all'arte alessandrina ed ellenistica, ed evita quasi assolutamente la maniera neo-classica o arcaistica, che talora invece è seguita nell'arte degli intagli. Soggetti allegorici, mitologici e greco-egizî continuano ad essere in voga, e il trapasso dall'arte ellenistica talora è quasi insensibile. Sono preferite le rappresentazioni di motivi della cerchia bacchica, dei miti di Afrodite e di Eros, di Ercole e di Eos; si ripetono figure di tritoni, di centauri, di satiri, più rare sono le scene naturalistiche, gli animali in lotta.
Ma l'arte del cammeo trovò il suo più fertile campo e il suo naturale appoggio alla corte degl'imperatori romani, e si esercitò soprattutto nel riprodurre le effigie imperiali e la glorificazione delle loro gesta; Augusto portò con sé dall'Oriente l'artista che divenne il sommo in tale arte aulica, Dioscuride (v.), che ebbe come coadiutori e successori i suoi due figli, Illo ed Erofilo. A Dioscuride si possono attribuire una buona parte dei ritratti di Augusto, che ci rappresentano il grande imperatore, in vita e dopo morte, per lo più idealizzato, talora divinizzato. Egualmente a Dioscuride risalgono verisimilmente diverse delle grandi composizioni di glorificazione imperiale, fra cui la superba Gemma Augustea di Vienna (v. tav. CIX), a due soli strati ma di ben m. 0,223 di larghezza: rappresenta Augusto seduto vicino a Roma, incoronato da Oikumene, la Terra abitata; di fronte a lui è Tiberio che scende dal cocchio. Dobbiamo anche ricordare il "Grande cammeo di Francia", il più grande cammeo antico esistente, dell'altezza di ben metri 0,31 e largo metri 0,265, databile verisimilmente al 17 d. C.: vi sono rappresentati nel centro Tiberio con Livia sul trono, che ricevono il giovane Germanico, mentre nel cielo appare Augusto deificato; l'opera però, in cui la sottigliezza degli strati ha fatto alternare violentemente ombre e luci, è artisticamente inferiore alla gemma di Vienna. Abbiamo poi altri magnifici ritratti di molti membri della casa Giulio-Claudia. Di minor lusso sono i cammei di pasta vitrea, in gran parte probabilmente fusi su forme dai cammei di pietre dure; non è escluso però che qualche cammeo fosse eseguito direttamente in pasta vitrea: tale è il caso d'un ritratto di Tiberio giovane (v. fig.), del museo di Vienna, eseguito con estrema finezza, e firmato dal figlio di Dioscuride, Erofilo.
La grande ritrattistica aulica declina rapidamente dopo la fine della casa Giulio-Claudia; gli artisti, che ci hanno lasciato i loro nomi, appartengono quasi tutti alla stretta cerchia di Dioscuride e dei suoi prosecutori; per rendere sensibile questo irrigidimento, si raffronti con le gemme precedenti uno dei migliori ritratti più tardi, quello di Tito del Museo di Firenze. Egualmente si fanno più rare e più misere le rappresentazioni mitologiche, mentre la produzione stessa si fa sempre più scarsa. Alcune poche gemme di età costantiniana, o anche più tarda, ci mostrano come pure nell'arte del cammeo prevalgono ora la frontalità, l'irrigidimento dei tratti, l'aria quasi sbalordita dagli occhi sbarrati, che imperano ormai nel ritratto e nella scultura in genere. La medesima maniera è adottata naturalmente nei cammei, egualmente scarsi, con soggetti cristiani; a poco a poco prevalgono le semplici scritte con formule di saluto e di buon augurio.
Epoca medievale in Oriente. - Col trasferimento della capitale dell'Impero romano molti dei tesori glittici di Roma e dei varî centri dello stato dovettero essere portati a Costantinopoli, dove poi nel Medioevo così le persistenti tradizioni classiche come il lusso della corte mantennero anche la glittica. Cammei bizantini come quelli della Biblioteca nazionale di Parigi congiungono all'antichità classica il Medioevo, sebbene di fattura assai diversa dalla classica: notevole fra tutti una sardonice a tre strati, coi Ss. Giorgio e Demetrio sotto il Cristo benedicente, e un'Annunciazione, (v. fig.), forse già appartenuta ad Anna Comnena (morta nel 1108). Rispetto all'intaglio in pietre dure, nel tesoro di S. Marco a Venezia si conservano preziosi esemplari di arte bizantina, fra cui un reliquiario in agata, a forma di calice, col nome di Basilio il Bastardo, partigiano di Niceforo Foca, e un grande calice di sardonice.
In Mesopotamia e in Persia, dal sec. III al VII, nel periodo sassanide, i prodotti dei laboratorî di Susa e Ctesifonte non hanno nulla da invidiare a quelli romani e bizantini. Capolavori di quest'arte sono il cammeo della Biblioteca nazionale di Parigi, che rappresenta la lotta tra un cavaliere romano e un sassanide - che si vogliono identificare con l'imperatore Valeriano e con Sapore I (242-272) - in una composizione simile alle sculture rupestri sassanidi dei dintorni di Persepoli (sec. III), e la coppa di Cosroe, detta di Salomone (v. fig.) durante il Medioevo, costituita da un reticolo aureo, in cui sono incastrati medaglioni di cristallo e vetro colorato, dei quali il maggiore e centrale è un cristallo di rocca intagliato a rilievo con la figura di Cosroe II (590-628) in trono. Numerosi inoltre si contano, nelle varie collezioni di gemme incise, gl'intagli sassanidi, che servirono da sigilli, in diaspro, sardonice e soprattutto cornalina, con effigie regali, simboli alati del dio Ormuz, leoni, zebù, simboli planetarî; ma essi denotano piuttosto una pratica di mestiere che d'arte.
Eredi dei Bizantini e dei Sassanidi si possono considerare i glittici musulmani, per quanto concerne l'incisione delle coppe di agata e di cristallo e i sigilli, da cui sono escluse le immagini di uomini e d'animali, limitandosi la loro opera a lettere più o meno adorne, con nomi di persona, versetti del Corano e sentenze morali. In esse si conferma, ad ogni modo, la grande estetica calligrafica degli Arabi e dei Persiani. Codesti sigilli possedevano carattere di talismano, variabile a seconda della qualità delle gemme e delle formule incise, ed avevano talvolta foggia di cuore; in parecchie v'è l'immagine di Salomone. L'ultima tappa della glittica, nell'Asia musulmana, è rappresentata da un magnifico cammeo (v. fig.), persiano o indù, col nome e la figura del gran mogol Shāh Giahān, che regnò nella prima metà del sec. XVII. L'artista vi incise il proprio nome: Kan Atem.
Epoca medievale in Occidente. In Italia, dal sec. V fino al XIII, mancò quasi del tutto la glittica, adoperandosi per ornamento personale e degli oggetti di culto le gemme classiche, anche ristampate in paste vitree, come nella grande croce del Museo cristiano di Brescia. Anche nell'età carolingia si seguitarono ad adoperare per sigilli soprattutto gemme classiche, benché l'arte dell'intagliare il cristallo rifiorisse, come dimostra il tipo di cristallo con la storia della casta Susanna, inscritto col nome di Lotario II (855-869), che ora si trova a Londra nel British Museum. Intorno al 1000 si utilizzarono, con i medesimi accorgimenti, i cammei imperiali, ed è tipico, a questo proposito, l'esempio del Caracalla inciso in acquamarina, che fu trasformato in S. Pietro e incastrato nella coperta di un evangeliario del sec. XI (v. fig.); il re Carlo V di Francia (sec. XIV) ne fece dono alla Sainte-Chapelle di Parigi ed ora si conserva in quella Biblioteca nazionale. Le crociate, e principalmente quella del 1204, valsero ad arricchire di gemme e cammei preziosi i tesori delle chiese occidentali. A Parigi, nel sec. XIII, viene registrata una corporazione di glittici, i quali tenevano ad essere distinti dai semplici vetrai, fabbricatori di pietre artificiali, e trattavano in prevalenza soggetti religiosi e ritratti di sovrani. Ma un unico nome d'artefice ci è stato tramandato: quello di Pierre Cloet, negl'inventarî del re Giovanni (1352; cfr. J. Labarte, Histoire des arts industriels, I, p. 216). Fra gl'Italiani si ricorda un Benedetto Peruzzi, fiorentino, che nel 1379 contraffece il sigillo di Carlo di Durazzo.
Rinascimento. - Il rifiorire dell'arte glittica in Italia è connesso al mecenatismo e al fervore collezionistico dei pontefici e principi umanisti, oltre che all'ammirazione e allo studio degli artisti per le gemme antiche. Se Donatello nulla ha lasciato di opere di glittica, la conoscenza e l'amore che egli ebbe per quell'arte sono dimostrati dai medaglioni marmorei, riprodotti da cammei antichi nel cortile del Palazzo mediceo.
A Foligno, verso il 1460, fioriva Antonio Pisano; a Firenze, nel 1477, Piero di Neri dei Razzanti, nato nel 1425; alla corte di Paolo II (1461-71) il romano Giuliano di Scipione Amici e Gaspare dei Tozoli. In un periodo posteriore troviamo, alla corte napoletana di Ferdinando d'Aragona, Andrea di Masnago (1487) e Battista Taglia, genovese, incaricato nel 1488 d'incidere il sigillo del re, in qualità di "maestro di fare cammei"; alla corte di Lodovico il Moro, troviamo il milanese Domenico Compagni, detto da Cammei, del quale furono allievi Giovanni Antonio De Rossi, e Iacopo e Cosimo Nizzola da Trezzo. Ultimi rappresentanti della glittica italiana quattrocentesca si possono ritenere il fiorentino Giovanni delle Opere, denominato anche delle Corniole, che nacque dopo il 1470 e morì verso il 1516, lasciandoci il suo capolavoro con un mirabile ritratto in cornalina del Savonarola, custodito presentemente nel palazzo Pitti, a Firenze, e Pier Maria Serbaldi, detto il Tagliacarne, nato a Pescia verso il 1455, incisore sotto Leone X, noto principalmente per una stupenda cornalina raffigurante un baccanale con una quindicina di figure e conservata nel Gabinetto delle medaglie al Louvre.
Nel sec. XVI inoltrato i glittici italiani raggiunsero i fastigi dell'eleganza e della virtuosità tecnica, allargando la loro sfera d'azione ben oltre i confini della patria, al servizio dei più potenti monarchi europei: su tutti Valerio Belli e Giovanni Bernardi da Castelbolognese. Grande perfezionatore della tecnica e lodatissimo da Michelangelo fu Alessandro Cesati, detto il Grechetto, particolarmente applicato all'imitazione dei cammei antichi. Meritano, inoltre, menzione, nella prima metà del secolo, il veronese Matteo del Nassaro, che dimorò a lungo in Francia, alla corte di Francesco I; Domenico di Polo, a Firenze; Francesco Anichini, coi figli Luigi e Callisto e il nipote Andrea, a Ferrara; e, in un periodo successivo, Giovanni Antonio Masnago e il figlio Alessandro, Francesco Tortorino, Iacopo da Trezzo (1514-1589), Annibale Fontana (1540-1587), a Milano; la famiglia dei Marmitta, a Parma; Antonio Dordonio (morto nel 1584) di Busseto e Gian Giacomo Caraglio (1500-1570), a lungo occupato alla corte dei re di Polonia, mentre a quella d'Austria lavorarono, sullo scorcio del '500 e nei primi decennî del secolo successivo, gli allievi del sopra citato Iacopo da Trezzo: Gaspare, Girolamo ed Ottavio Miseroni.
In Francia, pare che re Renato d'Angiò (morto nel 1480), sia stato incisore di medaglie e miniatore; ma occorre giungere al periodo successivo alla venuta di Matteo del Nassaro in Francia (1515) per avere, con gli allievi locali di lui e particolarmente con l'opera di Guglielmo Hoison, la rinascita di quest'arte, secondo lo spirito della purezza classica; solo sotto i regni di Carlo IX e di Enrico IV, fra il 1560 e il 1610, essa raggiunse, per merito degl'incisori Oliviero Codoré, Giuliano de Fontaney e Guglielmo Dupré, il suo più felice sviluppo.
Barocco e epoca moderna. - Durante il sec. XVII si nota, dovunque, una certa uniformità di caratteri, con sensibile deterioramento del gusto. Le opere più notevoli vengono compiute alla corte d'Austria, dove troviamo, sotto l'imperatore Rodolfo II, il milanese Alessandro Masnago e, sotto Leopoldo I, Ferdinando Eusebio Miseroni, erede degl'italiani Miseroni, già ricordati, mentre fra i Tedeschi si ricordano Luca Kilian, Gaspare Lehmann e Giorgio Schweiger di Norimberga, che incise nel 1643 un bel ritratto di Ferdinando III. In Italia, abbiamo i toscani Perriciuoli, Andrea Borgognoni, Stefano Mochi e Domenico Landi, i modenesi Chiavenna e Vaghi e il ferrarese Flavio Sirletti, domiciliato, coi figli Francesco e Raimondo, a Roma, dove morì nel 1737.
Di gran lunga più significativa fu, in ogni parte d'Europa, la glittica settecentesca, che diede, oltre che imitatori abilissimi dell'antico, ritrattisti egregi, veri e proprî miniatori in rilievo. In Italia il centro massimo fu Roma, dove eccelsero Giovanni Costanzi e il figlio Carlo, Antonio Passaglia genovese, Gerolamo Rossi di Livorno, G. B. Cerbara, Gasparo Della Guardia Capparoni, abruzzese, e soprattutto la dinastia dei Pichler, fondata da Antonio, nativo di Bressanone, il cui figlio Giovanni imitò sapientemente gli esemplari greco-romani, e lasciò ottimi allievi fra cui il romano Alessandro Cades. Merita, inoltre, menzione, in questo periodo, il fiorentino Felice Antonio Maria Bernabè. La glittica francese settecentesca vanta un Giuliano Barier, specializzato in soggetti microscopici; ma il suo maestro maggiore fu Giacomo Guay, marsigliese, cui il Boucher fornì disegni per le composizioni eccellenti del Genio della poesia e del Ratto di Deianira: protetto dalla Pompadour, egli si distinse in soggetti erotici e nei ritratti dei personaggi illustri, fra i quali emerge il busto di Luigi XV, in sardonice a tre strati, della Biblioteca nazionale di Parigi. Parecchi e di gran valore furono anche, in questo periodo, gl'incisori tedeschi: Filippo Cristoforo Becker, Luigi Siriés, Giovanni Lorenzo Natter da ricordare anche per un suo Traité de la méthode antique de graver en pierres fines comparée avec la methode moderne (Londra 1754); Goffredo Kraft, di Danzica, allievo del precedente, che lavorò anche a Roma, verso il 1760, col nome di Tedesco. In Inghilterra ebbero fama Carlo Cristiano Reisen, morto nel 1725; Tomaso Simon, esecutore di ritratti di Cromwell; il Wray; lo scozzese Seaton, e il tedesco Marchant, squisito esecutore di teste mitologiche.
Nei primi decennî del sec. XIX, imperando la scultura e la moda neoclassiche, insieme con le imitazioni e falsificazioni dell'antico si notano soggetti, desunti da statuarî contemporanei famosi, come il Canova e il Thorwaldsen, e perfino da pittori classici, quali il Tiziano e i Carracci: ma i maestri di questa pratica d'arte minacciata dalla decadenza del mecenatismo, dalla concorrenza della produzione industriale e dai progressi scientifici in fatto d'imitazione delle materie preziose, si fecero sempre più rari. Fra gl'Italiani sono da segnalare: Giovanni Antonio Santarelli, abruzzese (1756-1826); Filippo Rega, di Chieti (1761-1842); Giuseppe Girometti (1779-1851); Luigi Pichler, figlio del celebre Antonio, che ritrasse il Canova e fu incisore prima di Francesco I d'Austria, e poi dei pontefici Pio VII e Leone XII; Niccolò Morelli (1779-1836); Antonio Berini, scolaro di Giovanni Pichler; Benedetto Pistrucci (1784-1855), incisore di conî e gemme alla corte di Londra; Giovanni Calandrelli, morto a Berlino nel 1852 e autore, fra l'altro, di un superbo ritratto del re Guglielmo IV di Prussia. In Francia è da segnalare la dinastia di Simone Mayer (1716-1821). Di gran lunga più abile fu Romano Vincenzo Jeuffroy (1749-1826), esecutore di soggetti pagani e di ottimi ritratti. In un'epoca a noi più vicina, sotto Napoleone III, l'orefice Froment-Meurice condusse a termine, per il vecchio Palazzo di città di Parigi, un sontuoso pezzo di acquamarina, diaspro e cristallo di rocca, che andò poi distrutto nel 1871, con l'incendio di quell'edificio; e Adolfo David iniziava, verso il 1860, il più grande cammeo dei tempi modemi: L'apoteosi di Napoleone I, desunta da un soffitto del pittore Ingres: opera in sardonice (0,24×0,22) che richiese quindici anni di lavoro, ma non può certo competere con i capolavori del Rinascimento e dell'antichità.
Oggi la lavorazione artistica delle pietre rare fa parte della gioielleria di lusso; essa non può più considerarsi come un'arte a sé, ma come una delle tante applicazioni del tecnicismo moderno, non priva di sottili eleganze, ma oltremodo eclettica nel gusto.
Bibl.: P. J. Mariette, Traité des pierres gravées, Parigi 1750; C. W. King, The Handbook of engraved Gems, Londra 1866; E. W. Streeter, Precious Stones and Gems, Londra 1877; S. Reinach, Pierres gravées, Parigi 1895; E. Babelon, s. v. Gemmae, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiquités grec. et rom., II, p. 1460 segg.; id., La gravure en pieres fines, camées et intailles, Parigi 1894; id., Catal. des camées antiques et mod. de la Bibl. nat., Parigi 1897; A. Furtwängler, Die antiken Gemmen, voll. 3, Lipsia e Berlino 1900; G. Lippold, Gemmen und Kameen des Altertums und der Neuzeit, Stoccarda s. a.; F. Eichler e E. Kris, Die Kameen im Kunsthistorischen Museum, Vienna 1927; E. Kris, Meister und Meisterwerke der Steinschneidekunst in der italienischen Renaissance, voll. 2, Vienna 1929.