CAMPANA
Strumento di metallo, generalmente in bronzo ma anche in lamina di ferro battuto, a forma di tazza rovesciata, che emette suono in seguito alla percussione mediante un batacchio o un martello esterno.Si ritiene che il termine c. (usato anche in lat. accanto a clocca, nola, signum) derivi dalla Campania, regione dell'Italia meridionale conosciuta già al tempo dei Romani per la produzione di vasi in metallo (vasa fusilia); l'abate benedettino della Reichenau Valafrido Strabone (m. nell'849), riprendendo un passo di Isidoro di Siviglia (Etym., XVI, 20, 9; PL, LXXXII, col. 759), la considerava infatti la patria di questo genere di manufatti, dalla quale tuttavia prendevano nome soltanto le c. maggiori, mentre quelle di minori dimensioni erano chiamate nolae, dal nome del centro campano (Liber de rebus ecclesiasticis, 5; PL, CXIV, col. 924).A partire dal sec. 6° l'impiego della c. appare documentato nelle fonti cristiane allo scopo di richiamare i fedeli alla liturgia della messa (Ferrando, Ep., XI, Wölfflin, 1900; Gregorio di Tours, De virtutibus sancti Martini, I, 28, MGH. SS rer. Mer., I, 2, 1885, p. 601). La sua diffusione nell'Alto Medioevo si deve soprattutto all'ambiente ecclesiastico e monastico, malgrado nella Regola benedettina (XXII, 6; XLIII, 1; CSEL, LXXV, 1960, pp. 85, 116) si faccia appena menzione di un suo utilizzo specifico.Fino all'età carolingia non è attestata alcuna correlazione tra le c. e le torri dei complessi religiosi e lo stesso piano del monastero di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), dell'820 ca., non fa riferimento, nella leggenda relativa alle due torri del Westwerk abbaziale, alla presenza di campane. Ancora nella prima metà del sec. 8° d'altronde le c., all'epoca alquanto modeste per dimensioni e fattura, non sembrerebbero destinate a essere collocate in apposite strutture architettoniche. Soltanto con papa Stefano II (752-757) le fonti indicano una prima possibile rispondenza, dal momento che la basilica di S. Pietro in Vaticano venne dotata di una torre e di tre c. (Lib. Pont., I, p. 454).La funzione originaria delle torri di facciata nei complessi carolingi non è stata ancora chiarita univocamente. L'imponenza del Westwerk è stata interpretata come possibile espressione del potere imperiale, ma i piani alti delle torri avrebbero anche potuto ospitare gruppi di c., secondo quanto era stato stabilito al concilio di Aquisgrana dell'816, allorché si era deciso di dotare gli edifici religiosi tenuti dal clero secolare di un numero di c. idoneo al loro grado di importanza. Tuttavia la limitata quantità di manufatti altomedievali sopravvissuti potrebbe spiegarsi, se non come conseguenza di un'applicazione ridotta delle decisioni conciliari, come prova indiretta della non correlazione tra il sistema di torri e la disposizione e l'importanza delle campane.La costruzione di torri campanarie appare quindi attestata con sicurezza in seguito alla diffusione dell'uso delle c. nella liturgia degli Ordini benedettini riformati intorno al Mille. Infatti, soltanto con le riforme cluniacense (secc. 10°-11°) e hirsaucense (seconda metà sec. 11°) si assegnò al sistema di torri di facciata e di incrocio un ruolo di prestigio negli innovativi programmi architettonici, anche in rapporto alla funzione rilevante delle c. nella vita claustrale (McClendon, 1987). Accanto alle nuove fondazioni (Cluny, Saint-Benoît-sur-Loire, abbazia di Polirone a San Benedetto Po, Hirsau, Paulinzella, Alpirsbach), anche dove la riforma fu adottata successivamente si apportarono sostanziali modifiche all'impianto abbaziale, dotandolo di torri campanarie (Subiaco, Farfa, Pomposa).Non si trattò comunque di un fenomeno generalizzato a tutto il mondo monastico europeo. I Cistercensi - e prima ancora movimenti di chiara ascendenza eremitica, come i Camaldolesi in Italia centrale (Pier Damiani, De ordine eremitarum et facultatibus eremi Fontis Avellani; PL, CXLV, coll. 327-336) - vi avevano volutamente rinunciato, almeno inizialmente. A tale riguardo l'Ordine di Cîteaux aveva assunto precise posizioni già nel Capitolo generale del 1157, quando impose a tutte le fondazioni la norma: "turres lapideae ad campanas non fiant" (Statuta capitulorum generalium, I, 1933, p. 61, nr. 16). Lo statuto capitolare non fu però sempre rispettato in tutti i monasteri, come dimostrano sin dal principio del sec. 13°, per es., le abbazie di Chiaravalle della Colomba e di Fossanova. Diversa fu la posizione degli Ordini mendicanti nel Duecento, pronti ad accogliere l'impiego liturgico della c. e ad attribuirle un prestigio artistico nelle committenze di maggior riguardo, come per il gruppo di c. fuso da Bartolomeo e Loteringio da Pisa per la basilica assisiate nel 1239 (Angeli, 1704). Unica eccezione costituirono gli Agostiniani, che soltanto nel pieno Trecento ammisero nelle loro fabbriche la costruzione di apposite torri campanarie, erette spesso sopra una cappella laterale del coro (così a Padova, Rimini, Tolentino, Gubbio).La grande riforma cluniacense in Borgogna e nella Francia settentrionale si riflesse - attraverso l'azione politica della Chiesa romana, che nel corso del sec. 11° l'aveva fatta propria - nei cantieri episcopali sorti in Europa occidentale dopo il Mille (in particolare in Germania, Italia e Inghilterra), dove la produzione di c. subì un improvviso incremento. Ne sono testimonianza sia la quantità e qualità dei manufatti, anche in regioni di recente cristianizzazione come l'Ungheria (Patay, 1989-1990), sia i documenti architettonici appositamente costruiti (Westbau e campanili isolati), presenti nelle fondazioni saliche della Germania (Augusta, Basilea, Ratisbona) e in quelle normanne dell'Inghilterra e dell'Italia meridionale (Canterbury, Ely, Durham, Norwich, Saint Albans, Capua e Salerno). Il fenomeno è confermato inoltre da esplicite raffigurazioni: nel litostroto un tempo al centro della campata del duomo di Reggio Emilia (Reggio Emilia, Mus. Civ. e Gall. d'Arte; Quintavalle, 1991) un campanarius Milio viene rappresentato in atto di suonare la c., attestando in tal modo il prestigio riconosciuto a questa carica dalla committenza vescovile in un territorio di recente penetrazione cluniacense. Il frammento musivo appare comunque sommario nella descrizione del personaggio - che non presenta specifici attributi, con l'eccezione di un secchio - e nella collocazione della c., che è alloggiata all'interno di una struttura turriforme. Una raffigurazione di uguale tenore è miniata in un codice del sec. 12° conservato a Milano (Bibl. Ambrosiana, 128, c. 25v).Anche Roma, benché in leggero ritardo rispetto al resto della penisola, risulta interessata dal fenomeno di diffusione dei campanili. La ripresa della produzione artistica successivamente alle devastazioni normanne e la presenza nell'Urbe di committenze legate a un clero spesso forestiero si esplicarono soprattutto nella corsa all'aggiornamento edilizio, che investì molte diaconie e titoli cardinalizi a partire dal pontificato di Pasquale II (1099-1118); frequente fu l'innalzamento di imponenti torri campanarie (Serafini, 1927; Priester, 1990), anche accanto a basiliche di più antica data (Ss. Giovanni e Paolo, Santa Croce in Gerusalemme).Le c. dalla forma allungata di S. Angelo in Pescheria e di S. Cosimato costituiscono la tipologia comune delle c. romane nel pieno sec. 12° e agli inizi del 13° (per es. la c. già in S. Adriano), prodotte sicuramente da maestranze itineranti e probabilmente estranee al contesto artistico locale. L'assenza a Roma di una scuola di fonditori appare del resto comprovata, ancora sul finire del sec. 12°, dalle porte bronzee di Uberto e Pietro da Piacenza nei lavori promossi dal cardinale Cencio Savelli per il complesso lateranense (Iacobini, 1990).Resta difficile comunque dimostrare che, almeno fino al sec. 12°, maestri fonditori, monaci o laici, si venissero specializzando soltanto in un particolare settore della toreutica. Il nome Rogerius campanarum nell'iscrizione degli inizi del sec. 12° sul battente di destra del mausoleo di Boemondo a Canosa, benché di interpretazione non univoca, indica una verosimile formazione o una precedente notorietà del maestro in qualità di fonditore di campane.Accanto all'uso prettamente liturgico, la c. era utilizzata - a partire dalla fine del sec. 12° - anche in funzione civile e scandiva con i suoi rintocchi l'attività politica e di giustizia dei liberi comuni italiani e delle città mercantili dell'Europa centrale (Norimberga, Germanisches Nationalmus., c. proveniente dal Rathaus di Norimberga, sec. 14°). In Italia centrosettentrionale le sedi del potere civile si dotarono di torri campanarie nel corso del Duecento e nei primi decenni del secolo successivo, spesso in voluta contrapposizione con gli edifici che ospitavano l'autorità vescovile (Brescia, Como, Bergamo, Cremona, Siena, Firenze, Assisi). Al tempo stesso, c. di piccole dimensioni venivano impiegate anche nel campo musicale, come testimoniano alcune miniature (Piacenza, Bibl. Capitolare, 65, c. 262r) e il rilievo di Nicola e Giovanni Pisano illustrante, tra le Arti liberali, la Musica, sulla fontana Maggiore di Perugia (1278).Nei secc. 6°-7° sono documentate soltanto c. costituite da una lamina in rame (Stival, Saint-Mériadec, c. di s. Meriadoco, sec. 7°) o in ferro battuto. Durante la lavorazione a freddo si dava al manufatto una forma alquanto piatta, non lontana da quella dei c.d. campanacci. I più antichi esemplari, sempre di modeste dimensioni - non superano infatti mai in altezza i cm. 40 -, sembrano risalire agli inizi del sec. 7°, ma la loro produzione si protrasse fino al sec. 9°, soprattutto nell'Europa centrosettentrionale (Colonia, Mus. der Stadt, c.d. Saufang, 613; San Gallo, sacrestia, c.d. Gallusglocke, sec. 7°; Noyon, mus. della cattedrale, c. di s. Godeberta, sec. 7°; c. della chiesa di La Villedieu nel Perigord, sec. 8°-9°) e insulare (Dublino, Nat. Mus. of Ireland, c. di s. Patrizio, sec. 6°-8°; Edimburgo, Nat. Mus. of Antiquities of Scotland, c. di s. Fillano, sec. 8°-9°). La stessa forma ricorre nei reliquiari 'a c.' di produzione altomedievale e romanica (Dublino, Nat. Mus. of Ireland, reliquiario di s. Senán, sec. 10°-11°; Elbern, 1989) e, nelle Isole Britanniche, nell'iconografia del monaco pellegrino (rilievo nell'isola di White, sec. 9°).La comparsa di c. in bronzo forgiate con la tecnica a fusione piena, forse in un'epoca di poco precedente al periodo carolingio, determinò la fine del primo tipo, che peraltro sembra rimanere pressoché sconosciuto in Italia. Il rinvenimento nelle campagne di Canino, nella Tuscia romana, di una c. in bronzo (Roma, BAV, Mus. Sacro) databile in base alla sua iscrizione al sec. 8°-9° (De Rossi, 1890) attesta comunque, per la penisola, l'attività di officine cui era noto anche questo genere di lavorazione. Lo sviluppo della bronzistica sotto la dinastia carolingia induce d'altronde a ipotizzare una produzione di c. anche nella regione tedesco-renana, specie alla luce di quanto deciso al concilio di Aquisgrana dell'816.Purtroppo pochi sono gli esemplari sicuramente databili tra il 9° e gli inizi dell'11° secolo. La forma ovoide della c. di Canino si ripete in questi manufatti, di modeste dimensioni e di forma semisferica ma con il sistema per la sospensione (collum) ridotto anche a un unico anello o staffa (Cór dova, Mus. Arqueológico Prov., c. dell'abate Samson, 955; Liegi, Coll. Luesemans, c. del sec. 9°; Schleswig, Wikinger Mus. Haithabu, c. del sec. 10°-11°).Il passaggio dalla c. a forma cilindrica, che si diffuse dopo il Mille (Magonza, coll. privata, forme di fusione di c. della prima metà del sec. 11°; Bad Hersfeld, abbaziale, c.d. Lallusglocke, ante 1059; Augusta, duomo, c. del 1070-1075; Norimberga, Germanisches Nationalmus., c. da Graitschen, presso Jena, seconda metà del sec. 11°), alla c. di tipo più allungato e svasato avvenne nel corso del sec. 12° in gran parte d'Europa (Germania, Italia, Francia). Tra gli esempi più precoci si devono menzionare la c. di S. Benedetto in piscinula a Roma (Serafini, 1927) e quella della parrocchiale di Theissen in Germania (Drescher, 1992), datata alla metà del secolo. L'evoluzione verso un manufatto di dimensioni ragguardevoli e di proporzioni più classiche si ebbe nel Duecento, quando la superficie esterna della c. veniva inoltre utilizzata per ricevere eleganti iscrizioni e rilievi di carattere religioso e profano (Pisa, campanile, c. detta 'pasquareccia', 1262). L'evoluzione delle c. tra il sec. 11° e il 14° è evidente anche a un'analisi della profilatura dei manufatti, che assunsero forme progressivamente più slanciate e fortemente svasate alla base (Kramer, Reinle, Zumbroich, 1989; Drescher, 1992).Sulla spinta delle numerose fabbriche religiose avviate tra i secc. 11° e 12°, in alcuni tra i maggiori centri si vennero lentamente costituendo dinastie di maestri fonditori; ancor di più che in altri campi della produzione artistica, la trasmissione dell'arte di padre in figlio doveva essere un fenomeno piuttosto frequente, al quale si accompagnò, nel tempo, una significativa tendenza alla specializzazione in un preciso settore. A Pisa è presente al principio del Duecento la più importante famiglia di fonditori di c. attiva nella penisola italiana nei secc. 13° e 14°, il cui capostipite è Bartolomeo. Questi e i suoi diretti discendenti imposero un modello di c. che fu accolto, senza particolari rielaborazioni, da molti fonditori di area italiana (Di Fabio, 1989), soprattutto toscani. La notorietà raggiunta dalla dinastia fece sì che ricevesse ordini anche dalla Sicilia: nel 1263 un figlio di Bartolomeo, Loteringio, iscrisse il proprio nome su una c. destinata alla cattedrale di Cefalù (Bresc-Bautier, 1979). L'arte della fusione raggiunse forse la vetta più alta con l'ultimogenito Guidotto, stabilitosi a Roma nel penultimo decennio del Duecento, che entrò a far parte, insieme ai figli Andreotto e Bartolomeo, della cerchia di artisti al servizio dei pontefici Niccolò IV e Bonifacio VIII.Benché da un punto di vista tecnico si potessero produrre c. anche in officine lontane dai luoghi di committenza - per l'insorgere di difficoltà nel reperimento delle materie prime sul posto e grazie comunque alla facilità di trasporto del prodotto finito -, normalmente la fusione avveniva nei pressi delle fabbriche alle quali erano destinate, come documentano diverse testimonianze archeologiche, tra cui una fornace a pozzetto per c. scoperta ai piedi della torre Civica di Pavia (Ward-Perkins, 1978).Le botteghe potevano dunque essere itineranti e di frequente operavano all'interno del cantiere, dove allestivano la propria officina. Gli strumenti adoperati per la forgiatura erano pressoché gli stessi usati dai fonditori di porte, come mostrano con dovizia di particolari le immagini degli artefici sui battenti bronzei della cattedrale di Novgorod (1160 ca.), opera di provenienza sassone.Riguardo alle operazioni di fabbricazione delle c., non sempre le maestranze seguivano il procedimento documentato nel De diversis artibus (III, 85) del monaco Teofilo, compilato nel corso del 12° secolo. La descrizione che ne offre Teofilo corrisponde alla realtà emersa dallo scavo della fornace presso la torre Civica pavese ed è confermata da molti esempi dell'Europa centrosettentrionale; l'esecuzione dell'esemplare rinvenuto in S. Andrea a Sarzana, tuttavia, ne differisce sostanzialmente e attesta l'esistenza di metodi diversi (Bonora, 1975). Nonostante la difficoltà di ricondurre per il pieno Medioevo la fusione delle c. a un unico sistema, il procedimento indicato da Teofilo rimane comunque una testimonianza attendibile di un'arte che presumibilmente affonda le proprie radici nella tradizione monastica.Le operazioni di fusione della c. prendevano avvio con la costruzione di un tornio in legno con asse verticale, di forma piramidale o troncoconica, sul quale si applicava un primo strato di argilla. Questa veniva sagomata sul lato verso lo stampo, quindi si faceva aderire l'anima in cera equivalente allo spessore del manufatto. Durante la modellazione, almeno fino al sec. 13°, si praticavano fori triangolari nei pressi del sistema di sospensione per migliorare il suono e si potevano incidere sulla c. motivi decorativi o iscrizioni, in seguito sostituiti da elementi a rilievo. Dopo la solidificazione della cera, se ne modellava la superficie esterna, ricoprendola poi con un secondo strato di argilla e con un'ulteriore incamiciatura, rinforzata da cinghiature in ferro; nel doppio mantello esterno si realizzavano due canali per consentire la colata del bronzo in una lega composta, di norma, da quattro parti di rame e una di stagno. A parte si lavorava il collum, che - insieme al gancio di ferro per il batacchio - veniva applicato sul modello prima della sua cottura nella fornace. Con quest'ultima operazione si otteneva il consolidamento dello stampo e la fuoriuscita dell'anima di cera. Prima della gettata si allargava il pozzetto dove era avvenuta la cottura e si copriva di terra ben pressata il modello in argilla, per dare poi inizio alla fusione. Dopo l'eliminazione dell'incamiciatura d'argilla, il manufatto veniva rifinito a freddo, riducendone le irregolarità e infine lisciandone la superficie esterna. Dopo il Duecento si interveniva assai raramente con decorazioni figurate a graffito, come si riscontra per es. ancora nella c. del St. Lorenz a Norimberga, della prima metà del sec. 14°, oppure nella c. veronese proveniente dalla torre del Gardello (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d'Arte) - opera del 1370 di maestro Iacopo - dove campeggia la figura di S. Zeno in atto di pescare.
Bibl.:
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