CAMPANI, Niccolò, detto lo Strascino
Nacque a Siena nel 1478. Figlio di artigiani, fonditori di campane (da cui il nome Campani, o Campana, alla famiglia), autodidatta e autore di brevi commediole, il C. fu anche interprete fortunato e faceto di farse, nelle quali si travestiva spesso da contadino, allietando le brigate di corte. Ricercato occasionalmente, per la sua abilità di recitatore e di improvvisatore, anche dai Gonzaga di Mantova, è però a Roma che operò più a lungo, soprattutto sotto Leone X. Originariamente povero, il C. riuscì durante la sua vita a raggiungere un certo grado di benessere, sì da potersi comperare il titolo di "scutifero apostolico". A Roma si ammalò, intorno al 1503, di sifilide, da cui non guarì che nel 1511; e proprio la malattia volle cantare nelle ottave del Lamento sopra il male incognito, celebre ai suoi tempi.
La prima parte, composta durante l'infezione, presenta accenti sostanzialmente tristi, desolati, senza più speranza nei medici e nelle medicine; per l'inverso la seconda parte del poemetto, scritta a guarigione avvenuta, offre note più divertite, fra lo scherzoso e il burlesco.
Il C. fu anche autore di capitoli e di altre rime di contenuto giocoso, ma la sua fama - notevole nel Cinquecento e non spenta del tutto nemmeno oggi - resta legata essenzialmente alle sue doti di teatrante, sia come attore sia come autore di testi (fra i quali è la sua prima, più celebre opera, Strascino, da cui gli venne il soprannome). In questa ultima prospettiva il C. è indubbiamente il più rappresentativo degli autori popolari senesi che nel primo Cinquecento gettano le basi di una tradizione municipale sulla quale si innesterà nel 1531 la Congrega dei Rozzi. La sua opera drammatica, costituita in tutto di tre lavori in terza rima, si caratterizza - al pari di quella degli altri cosiddetti "prerozzi" - per uno spiccato gusto di sperimentazione, per una aperta disponibilità verso i più diversi organismi scenici, dalla commedia cittadina alla pastorale, alla farsa villanesca.
Alla commedia cittadina tipica del Rinascimento fa pensare l'"Argumento" del Magrino (1514), presentandoci i soliti due amanti, incerti fra gioia e dolore; il servo non meno tradizionalmente "costante fidele e secreto / fin che 'l padrone al suo desio pervegna e una madre, "più ch'altra astuta e di malizia pregna", che si preoccupa di porre riparo alla gravidanza prematrimoniale della figlia. Questi caratteri così allettevolmente declinati dall'argomento restano però pure enunciazioni, non si inverano nel corso della vicenda. Il servo Magrino non ha nulla del dinamico servo di tante commedie rinascimentali; si limita ad aggirarsi davanti alla casa dell'amata del padrone per vedere se c'è da temere dai fratelli di lei, essendo la giovane incinta, e consegna da ultimo una lettera alla ragazza: tutto qui. Ancora meno convincente la madre, la cui "malizia" si cercherebbe invano; la donna appare piuttosto come una povera vecchia balordamente compiacente verso la relazione della figlia. In quanto all'innamorato, Lattanzio, lo vediamo dapprima sul punto di partire per la campagna per via dei fratelli della giovane Emilia, diviso fra vergogna di fuggire così, senza neanche salutare l'amata, e timore dei parenti della giovane. Raggiunto in campagna da una lettera di Emilia, Lattanzio ritorna in città, reso però sempre cauto dalla paura dei fratelli, i quali tuttavia neanche questa volta compaiono in scena, né compariranno alla fine nella letizia dell'imminente matrimonio. Si direbbe che vivano unicamente nella fantasia atterrita di Lattanzio. O meglio: sono un banalissimo espediente teatrale per determinare l'allontanamento del giovane, creando quel ritmo di separazione-riunione che dovrebbe essere patetico, ma che è soltanto e semplicemente goffo. In questo quadro psicologicamente inerte, così rozzamente delineato nelle situazioni, si inserisce la figura del villano Scorteccia. La sua presenza in città è ingiustificata, né ha una propria azione personale; entra in scena quando il dialogo tende a finire, e con una funzione di coro, di commento a quanto è stato agito. Anche per lui le indicazioni del prologo (che lo qualificava come innamorato di Emilia) si rivelano fallaci: egli non ha affatto una sua vicenda amorosa nei confronti della giovane, quasi grottesco rivale del cittadino; solo molto avanti, quando Lattanzio avrà abbandonato la ragazza, farà le sue profferte. Inizialmente è presentato come un accattone che ha male interpretato le parole del giovane sul lasciare o non lasciare l'amata, sostituendo al termine "Emilia" l'oggetto "cappa", che si ripromette naturalmente di prendere per sé. A voler trarre dal testo tutto quello che si può ricavare, si potrebbe vedere qui il ritratto del parassita romano (la commedia è ambientata a Roma), del contadino, che viene a vivere di espedienti nella città. È chiaro tuttavia come tutto ciò sia più suggerito che detto, più intuito dal lettore che esplicitato dall'autore. Il che non deriva soltanto da un disinteresse del C. per il mondo contadino, ma è la spia di una più profonda carenza, di una schietta povertà di scrittura. Non si può infatti dire che i personaggi "borghesi" siano meno vaghi e imprecisati del villano Scorteccia. Pochezza culturale e mancanza di fantasia inventiva impediscono al C. - e in generale a tutti i "prerozzi" - la costruzione di quella commedia cittadina, di impianto classicistico, cui pure fermamente aspirano, mettendo così a nudo il dislivello fra le aspirazioni e i risultati.
Al genere teatrale della pastorale, pur entro uno schema da farsa villanesca, sembra invece mirare il C. nel Coltellino (1520). Il villano Berna, innamorato respinto, ha deciso di uccidersi seguendo l'esempio di un pastore rifiutato da una ninfa, secondo il racconto fattone dal compagno Tafano. L'autore tende a ricreare in apertura di commedia il tipico dramma pastorale affinché su quello si modelli la villanesca storia amorosa di Berna. Ma la favola del pastore, passando attraverso il filtro del linguaggio contadinesco, lievemente deformante, mette capo a effetti gustosamente popolareschi, autonomamente saporosi, di cui sembrano usufruire in ultima istanza gli stessi protagonisti pastorali. Il suicidio non visto ma soltanto raccontato del pastore innamorato ha una verità e una patetica spontaneità che non è sempre dato trovare negli esempi offerti dalle innumerevoli e stucchevoli pastorali del tempo. Rimasto solo, dopo un ultimo vano incontro con l'amata Togna, Berna si riconferma nella sua decisione di uccidersi, attraverso la puntigliosa presa di coscienza di modellare il proprio destino sulle linee maestre della vicenda tragica del pastore. Tutta una fitta serie di rimandi si istituisce fra pastore e villano: come quello anche Berna fa testamento; alla "cornamusa" del pastore corrisponde il "cetarino" appeso pateticamente a un albero; e all'epitaffio del pastore fa eco il gustoso "potaffio" del villano. Al di là del calco per fini comici finisce per determinarsi una ventata di vera grazia narrativa. Se quindi il "pugnaletto" con cui il pastore si è ammazzato ha il suo correlativo nel "coltellino" di Berna (donde il titolo alla commediola), il discorso del villano è fragrante di originale letizia: "Tu, coltellin, che se' uso a far guerra / al pane, al cacio, alla carne, a' poponi / ammazza me, contenta chella sgherra". Ma la decisione finale di Berna di non uccidersi, mentre toglie la possibilità di continuare il gioco dei rinvii con il modello pastorale, fa precipitare improvvisamente la commedia che si esaurisce nel facile cliché delle bastonate: Berna è battuto dai fratelli di Togna che ha tentato di possedere con la forza - esortato da Tafano - e batte a sua volta Tafano per l'infelice suggerimento. Il villano sembra vivere il suo breve momento espressivo soltanto entro l'arca offertagli dall'esemplare pastorale, nella misura in cui rielabora popolarescamente un certo topos letterario. Al di fuori di questa corta possibilità non c'è per il villano un autonomo interesse da parte dell'autore, che pare preoccupato soltanto di giungere rapidamente allo scontato applauso per i lazzi a base di bastonate.
In verità è tipico dei "prerozzi", a differenza dei Rozzi della Congrega, un certo atteggiamento di impaziente indifferenza nei confronti del personaggio contadino. Nel teatro dei precursori dei Rozzi il villano sembra restare una figura puramente comica, incapace di imporre una propria realtà autentica, seria, umana e sociale. Soltanto nello Strascino (1511) - proprio del C. - sembra uscire almeno apparentemente dai confini angusti della satira antivillanesca. Quattro fratelli contadini non vogliono pagare il loro debito al padrone e vanno dal giudice. Tutta l'azione dei villani è intessuta di minacce sottintese o esplicite fino alla scena culminante in cui Strascino, il fratello che ha un po' funzioni dirigenti, "parla con le man", come commenta spaventato il giudice al quale non resta che persuadere il padrone Lodovico, a non seguitare la lite. La vicenda dei quattro villani si configura così inequivocabilmente come prepotenza, come violenza che non può essere scusata dalle poche, fuggevoli battute sulla loro situazione economica. Gli stessi contadini sono consapevoli di aver commesso un sopruso. D'altra parte il possidente Lodovico è colto con tratti idilliaci in cui il paternalismo verso i propri mezzadri si salda a un domestico senso della famiglia, e a una patetica sollecitudine per il patrimonio privato. La vittoria del villano non sottintende quindi affatto una comprensione del mondo contadino da parte del C.; essa sembra configurarsi piuttosto come l'antidoto, il contravveleno per le inquietudini della società cittadina. E ad ogni buon conto compare già subito sullo sfondo l'immagine rassicurante degli sbirri che costringono i contadini a scappare. Il successo dei villani, a ben vedere, non ha prospettive di duratura consistenza, non costruisce un futuro, risolvendosi piuttosto in unn fuga anarchica che li pone al bando della società, pena la prigione. Se dunque nello Strascino, a differenza del Coltellino, e, più in generale, a differenza di tanti altri testi rusticali dei "prerozzi" pare affiorare una problematica meno disimpegnata, più direttamente rispecchiante i temi del mondo villanesco, questa non si apre su una indagine delle cause storiche che lo condizionano, ma si consuma in una rappresentazione rasserenante per gli interessi costituiti. La vittoria dei quattro contadini, con il suo valore estemporaneo, con il suo pesante condizionamento degli sbirri sul fondo, finisce per avere una funzione tranquillizzante: è una invenzione teatrale che nasconde una assai diversa realtà. Il villano vincitore è l'esorcismo che annulla il problema, che rende inutile un'inchiesta più approfondita della realtà contadina, delle sue miserie morali, sociali, economiche.
Il C. morì a Roma nel 1523.
Bibl.: Le tre commediole del C. e le altre rime sono state raccolte da C. Mazzi in un volumetto dal titolo Le rime di N. C. detto lo Strascino da Siena, Siena 1878. Per la redazione dello Strascino e del Magrino il Mazzi si è servito di due stampe, rispettivamente del 1519 e del 1524 (Siena), che considerava ediz. principes, ma il Rossi ha segnalato, di entrambe le opere, un'ediz. venez. del 1516 (cfr. V. Rossi, Le lettere di messer Andrea Calmo, Torino 1888, p. 373 n. 1 con l'aggiunta a p. 491). Lo stesso Rossi ha dato notizia di un'ediz. senese del 1511dello Strascino (cfr. V. Rossi, rec. in Giorn. st. d. lett. ital., XII [1888], pp. 246 s. n. 7); del Magrino l'antiquario Chiesa possedeva invece un'ediz. senese del 1514 (cfr. il suo catal. Teatro ital. del Cinquecento, Milano s. d. [1953], n. 203, pp. 104-106). Per il Coltellino il Mazzi segue la stampa del 1543 (Siena), ma la princeps accertata è del 1520 (Siena) e reca il diverso titolo Il Berna.
Del C. tratta ancora il Mazzi nella sua opera La Congrega dei Rozzi di Siena nel secolo XVI, II, Firenze 1882, pp. 75-82, 207, 245-249. Sulla scia del successo che ebbe ai suoi tempi, il C. è l'unico dei "prerozzi" (e degli stessi Rozzi) ad aver attirato l'attenzione massiccia degli studiosi moderni. Alcuni accenni sono in A. Ademollo, Alessandro VI, Giulio II e Leone X nel carnevale di Roma, Firenze 1886, pp. 78 s. Ma fu soprattutto l'équipe del Giornale storico a interessarsi variamente al Campani. Del celebre Lamento si occuparono A. Luzio-R. Renier, Contributo alla storia del malfrancese ne' costumi e nella letteratura italiana del sec. XVI, in Giorn. st. d. lett. ital., V (1885), pp. 420-425; utili notizie sulla sua attività di attore sono poi in un altro lavoro composto ancora unitariamente dai due studiosi, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga, ibid., XXXIX (1902), pp. 204-207. Una nota dedicò al C. V. Cian nell'edizione del Cortegiano da lui curata (Firenze 1894, p. 188 n. 16) e un'altra nel suo Pietro Bembo e Isabella d'Este Gonzaga, in Giorn. st. d. lett. ital., IX (1887), pp. 132 s. n. 1. La data di morte del C. e il suo ufficio di "scutifero apostolico" furono rivelati da Carletta [A. Valeri] in una nota di una sua recensione in Rivista d'Italia, III (1900), 3, p. 537 n. 1. Sulle orme del Valeri si veda infine A. Mercati, Come N. C., lo Strascino da Siena, diventò scutifero apostolico, in Bull. senese di st. patria, n.s., X (1939), pp. 29-33. Fra gli studi più recenti si veda R. Alonge, Il teatro dei Rozzi di Siena, Firenze 1967, pp. 11-14, 25-29, 43-46.