CAMPIONI BIOLOGICI.
– Diritto civile. Definizione. Lo statuto giuridico. Il consenso informato. La gratuità. Il problema delle indagini genetiche. Conservazione dei campioni e biobanche. Identificazione dei campioni. Profili di responsabilità civile. Bibliografia
Diritto civile. – È sempre più frequente il prelievo e l’impiego di c. b. umani a scopo preventivo, diagnostico, terapeutico, statistico e di ricerca. Per avere un’idea dell’importanza che rivestono i c. b., è sufficiente citare il considerando nr. 4 della raccomandazione nr. 4/2006 adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 15 marzo 2006: «Il progresso della scienza biomedica e della pratica dipende dalla conoscenza e dalla scoperta che richiede la ricerca sugli esseri umani e la ricerca che implica l’uso di materiali biologici di origine umana».
Il prelievo, il trattamento e la conservazione dei c. b. pongono oggi un’ampia serie di problemi all’interprete del diritto, e in particolare al civilista, soprattutto per quanto riguarda i profili della titolarità, della disponibilità e della responsabilità. Problemi aggravati dal fatto che, a disciplinare la complessa materia, vi è una congerie di norme statali, europee e internazionali, il cui rango e la cui sfera di applicazione sono assai variegati. Di conseguenza, parrebbe quanto mai utile, per non dire necessaria, l’emanazione di un testo unico che raccolga e coordini le norme esistenti, integrando opportunamente le lacune attualmente presenti. Nella consapevolezza di quanta delicatezza e di quanta sapienza occorrano al legislatore quando si accinge a dettare regole che coinvolgono l’identità personale, il corpo umano, le sue singole parti.
Definizione. – Occorre innanzitutto precisare che, a oggi, non esiste una definizione legislativa generale di campione biologico. In base all’art. 6, l. 30 giugno 2009 nr. 85 – con la quale l’Italia ha aderito al Trattato di Prüm per contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e la migrazione illegale e ha istituito la banca dati nazionale del DNA – per c. b. si intende, «ai fini della presente legge», una «quantità di sostanza biologica prelevata sulla persona sottoposta a tipizzazione del profilo del DNA» (lett. c). In negativo, lo stesso articolo definisce alla lett. d) il reperto biologico come «materiale biologico acquisito sulla scena di un delitto o comunque su cose pertinenti al reato». Poi, l’ultima autorizzazione generale al trattamento dei dati genetici emessa dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali (la nr. 8/2014, dell’11 dic. 2014, che rimarrà in vigore fino al 31 dic. 2016) definisce c. b., sia pure soltanto «ai fini della presente autorizzazione», «ogni campione di materiale biologico da cui possono essere estratti dati genetici caratteristici di un individuo». Giova menzionare, infine, la circolare del ministero della Salute 8 maggio 2003 nr. 3, Raccomandazioni per la sicurezza del trasporto di materiali infettivi e di campioni diagnostici, che per campioni diagnostici intende tutti i materiali di origine umana o animale, inclusi escreti, sangue e suoi componenti, tessuti e fluidi tessutali, raccolti a scopo diagnostico.
Il quadro normativo appena delineato appare scarno e frammentario. Per definire il c. b. parrebbero venire in rilievo due elementi costitutivi. Il primo è oggettivo, e riguarda la natura del campione, che consiste in materiale biologico di origine umana. Il secondo è finalistico, e attiene allo scopo per il quale è prelevato il campione: il materiale biologico deve essere raccolto per eseguire trattamenti di carattere diagnostico, clinico/terapeutico o di ricerca, in senso ampio. Pertanto, si deve concordare con quanto afferma la scienza medica (per tutti, cfr. Novelli, Pietrangeli 2011), che ricomprende nella categoria dei c. b. un complesso piuttosto eterogeneo di materiali, da componenti subcellulari (come DNA, RNA o proteine), a cellule o tessuti (come sangue, linfociti o cellule staminali), a interi organi (come fegato, placenta o rene), a sostanze escrete o secrete (come aria esalata, lacrime o urina).
Dal c. b. è ricavabile un’ampia serie di dati e informazioni, che possono riguardare sia proprietà generali della sostanza, sia informazioni specifiche sull’individuo. Tali dati e informazioni non coincidono con il c. b., di cui innanzitutto non condividono l’oggetto (sono immateriali e quindi non costituiscono materiale biologico) e poi hanno già, in tutto o in parte, attuato lo scopo (la loro raccolta, indipendentemente dall’impiego che ne verrà poi fatto).
Lo statuto giuridico. – La disciplina giuridica dei c. b. non è unica e indifferenziata per tutti. Si può tuttavia evidenziare uno statuto giuridico minimo, comune ma non esaustivo.
Innanzitutto, fino al momento in cui non è prelevato o emesso dal soggetto, ogni c. b. è parte del corpo umano e non ha una sua autonomia.
Inoltre, dopo il prelievo o l’emissione, il materiale biologico umano, essendo contemplato da varie fattispecie normative, si configura come bene giuridico (art. 810 c.p.c.: «sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti»), soggetto a una particolare disciplina stabilita da fonti nazionali e sovranazionali (europee e internazionali).
Giova ricordare che il genoma umano è considerato, sia pure in senso simbolico, quale patrimonio dell’umanità (art. 1 Universal Declaration on the human genome and humanrights del 1997).
Secondo una ricorrente affermazione, il prelievo, la raccolta e il trattamento del c. b. sono governati da due regole generali: il cd. consenso informato e la gratuità. L’affermazione è condivisibile se si precisa, preliminarmente, che per il corpo umano e le sue parti, inclusi i c. b., la legge prevede una disponibilità giuridica ridotta, al fine di tutelare la dignità e l’integrità della persona e del corpo umano. Il proprio corpo non è un oggetto di cui si possa totalmente disporre, anche per il periodo successivo alla propria morte. In generale, l’art. 5 c.p.c. vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando provochino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. L’art. 3, l. 1° apr. 1999 nr. 91 dispone che il prelievo di organi e tessuti da cadavere è consentito secondo le modalità previste dalla legge stessa e dopo che siano state osservate le specifiche norme su accertamento e certificazione di morte. Al di fuori dei casi previsti, gli atti di disposizione sono nulli.
Ancora più ridotta è la possibilità di disporre del corpo altrui. Secondo l’art. 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile (1° co.), e ogni restrizione a tale libertà può essere disposta solo dalla legge e nei casi e modalità da essa previsti (2° e 3° co.). Giova ricordare che, ai sensi dell’art. 224 bis c.p.p., atti come il prelievo di capelli, di peli o di mucosa dal cavo orale e così via (questo breve elenco è meramente esemplificativo e non tassativo) su persone viventi per determinare il profilo del DNA sono espressamente qualificati «idonei a incidere sulla libertà personale».
Per quanto riguarda i soggetti incapaci di agire, la legge prevede la possibilità di prelievo solo in determinate circostanze: per es., la donazione di sangue, emocomponenti e cellule staminali emopoietiche per i minori di età.
Il consenso informato. – Questa regola trova il suo fondamento nella Costituzione (v. in particolare gli artt. 2, 13 e 32, 2° co.) e in una pluralità di leggi speciali e convenzioni internazionali. Secondo l’art. 32, 2° co. della Costituzione nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Come regola generale, il prelievo e il trattamento dei c. b. devono essere compiuti con il consenso del soggetto da cui sono ottenuti. Per essere valido, tale consenso deve essere volontariamente e consapevolmente reso dopo una completa ed esaustiva informazione fornita al soggetto dal personale competente, che deve spiegare anche le possibili conseguenze del prelievo. Il consenso prestato dal soggetto è revocabile, e la dottrina ne classifica quattro tipi: specifico, che vale per una determinata ricerca o trattamento al cui termine il c. b. dovrà essere distrutto; parzialmente ristretto, che è prestato per una ricerca determinata, ma che comprende anche gli sviluppi della medesima e le indagini che in futuro possano essere di rettamente oppure indirettamente a quella associate; multiopzione, che si estende a più trattamenti e ricerche individuati; ampio, prestato una volta per tutte senza specificare i trattamenti e le ricerche. In quest’ultimo caso, tuttavia, parrebbe sempre necessaria un’indicazione degli scopi o degli impieghi, per evitare di cadere nell’indeterminabilità e, di conseguenza, nell’invalidità per carenza di precisa e puntuale informazione. Il consenso prestato per uno scopo non si estende ad altri (art. 22 Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina, del 4 apr. 1997, ratificata dall’Italia con l. 28 marzo 2001 nr. 145).
L’importanza del consenso informato è tale che l’esecuzione di un trattamento sanitario senza il consenso, o in presenza di un consenso invalidamente prestato, non solo è rilevante in sede penale, ma è considerata, nella nostra giurisprudenza civile, lesiva del diritto all’autodeterminazione e come tale generatrice di un danno non patrimoniale alla persona, variamente liquidato. Giova ricordare che anche la domanda di brevetto relativa a un’invenzione che abbia per oggetto o utilizzi materiale biologico di origine umana deve essere corredata del consenso espresso dal soggetto da cui tale materiale sia stato prelevato.
Per quanto riguarda i soggetti incapaci di agire, il consenso deve essere prestato da altri: per es., la donazione di sangue, emocomponenti e cellule staminali emopoietiche per i minori di età richiede la prestazione del consenso da parte dei genitori o, in mancanza, del tutore, o del giudice tutelare.
La gratuità. – La seconda regola generale è la gratuità, intesa come assenza di un corrispettivo: non è possibile fare commercio del proprio corpo o di parti di esso. La regola generale di gratuità è prevista da una serie di norme nazionali e internazionali. Per tutte, si segnalano l’art. 12, d. legisl. 6 nov. 2007 nr. 191, che dispone la volontarietà e la gratuità della donazione di tessuti e di cellule, nonché l’art. 3, lett. c, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 21 della Convenzione di Oviedo, in base ai quali il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto. Coerentemente, con riferimento a organi, midollo osseo, sangue e così via, la legge parla di donazione, e non di vendita, e commina la nullità degli atti con cui un soggetto trasferisca a titolo oneroso i propri organi, il proprio midollo osseo e così via. Occorre però avvertire che il termine donazione è impiegato più in senso simbolico che in senso proprio (il contratto di donazione di cui agli artt. 769 e segg. c.p.c.).
La regola della gratuità si applica anche ai cd. residui postoperatori: cellule, organi e tessuti che provengano da operazioni chirurgiche a scopo terapeutico possono essere donati, ma non venduti, anche se può ben accadere che gli esiti delle ricerche compiute su tali materiali abbiano un grande valore economico.
È possibile esportare e importare organi e tessuti umani,ma sempre a titolo gratuito. È però vietato esportare organi e tessuti verso gli Stati che ne fanno libero commercio.
Il problema delle indagini genetiche. – Dai c. b. si possono ricavare dati genetici, ossia le informazioni che identificano le caratteristiche genotipiche di un individuo trasmissibili nell’ambito di un gruppo di persone legate da vincoli di parentela. Caratteristiche peculiari dei dati genetici sono la riferibilità a più persone, l’immodificabilità e l’attitudine predittiva. La legge (art. 90, 1° co., d. legisl. 30 giugno 2003 nr. 196) consente il trattamento dei dati genetici nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilasciata dal Garante per la protezione dei dati personali. Il Garante emana, con cadenza periodica, un’autorizzazione generale, che disciplina la materia in maniera assai dettagliata. L’ultima Autorizzazione emanata è la citata nr. 8/2014 dell’11 dic. 2014 (da cui è tratta la definizione di dati genetici qui riportata), secondo la quale possono essere trattati dati genetici e utilizzati c. b. a fini di tutela della salute e di ricerca scientifica e statistica.
Conservazione dei campioni e biobanche. – L’impiego sempre più frequente, e per una pluralità di scopi, di c. b. ha reso necessaria un’organizzazione della loro raccolta e conservazione in appositi centri, denominati in genere biobanche. Come avviene per i c. b., anche le biobanche non hanno una definizione e uno statuto giuridico universale, e il loro quadro normativo è in continua evoluzione, ma possiamo individuare alcuni punti fermi.
Il Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ha emanato il 19 aprile 2006 le Linee guida per l’istituzione e l’accreditamento delle biobanche, nelle quali le biobanche sono definite «unità di servizio, senza scopo di lucro diretto, finalizzate alla raccolta e alla conservazione di materiale biologico umano utilizzato per diagnosi, per studi sulla biodiversità e per ricerca». Ponendosi nello stesso solco, ma in maniera più completa ed esaustiva, il parere sulle biobanche pediatriche reso dal Comitato nazionale di bioetica l’11 aprile 2014 ha definito le biobanche «unità operative e di servizio, preposte a raccogliere, conservare, classificare, gestire e distribuire materiali biologici umani (cellule, tessuti, DNA) d’individui o gruppi d’individui sani o malati, per finalità biomediche (di ricerca, di diagnosi, di prevenzione o di terapia), all’interno dei presidi ospedalieri o centri di ricerca».
Esattamente come per i c. b., anche le biobanche si caratterizzano per un elemento oggettivo (sono centri di raccolta di materiali biologici umani, generalmente classificate in due grandi raggruppamenti: biobanche genetiche e biobanche tessutali) e per uno finalistico, che definisce lo scopo per il quale è promossa e istituita una singola biobanca.
Evidentemente esulano da queste definizioni le biobanche ove si raccolgono c. b. allo scopo di prevenire e reprimere attività criminose (v. le banche dati forensi istituite dalla citata l. 85/2009).
Lo scopo per cui una biobanca è costituita e i c. b. che è destinata a ospitare, ne influenzano notevolmente la disciplina, ma vi sono delle regole comuni che possono definire uno statuto giuridico minimo delle biobanche. Innanzitutto, la gratuità: le biobanche sono enti che non perseguono scopo di lucro, per cui l’accesso e la consultazione devono essere permessi gratuitamente, salvi i rimborsi per le spese sostenute (per es., per la spedizione di determinati c. b.). Quindi, la custodia: la biobanca deve garantire la qualità e la sicurezza dei materiali conservati, nonché il rispetto dei diritti della persona, con particolare riguardo alla riservatezza. La custodia può essere poi variamente declinata: per es., il d. legisl. 25 genn. 2010 nr. 16 disciplina gli istituti di tessuti. Si tratta di centri deputati alla raccolta di tessuti e cellule umani, destinati ad applicazioni sull’uomo, nonché prodotti fabbricati, che siano derivati da tessuti e cellule umani e destinati ad applicazioni sull’uomo. Tali istituti devono adottare sistemi efficaci e accurati per identificare ed etichettare individualmente le cellule e i tessuti ricevuti e distribuiti, e devono conservare per almeno trent’anni i dati relativi al donatore, alla donazione e al c. b., avvalendosi di un sistema di registrazione adeguato e leggibile.
Identificazione dei campioni. – Qualche considerazione a parte merita l’identificazione dei c. b., ossia la possibilità di risalire al soggetto dal quale sono stati prelevati.
Generalmente si distinguono quattro categorie di identificazione. I c. b. si dicono anonimi se sono identificati solo con un codice, mentre i dati del donatore non vengono registrati; in questo caso è impossibile associare un c. b. a un certo soggetto. Si parla di c. b. anonimizzati, se i dati del soggetto sono registrati, ma rimossi dopo l’attribuzione di un codice, in modo da rendere impossibile associare il c. b. al donatore. I c. b. sono considerati identificabili, se i dati del donatore sono registrati per cui, tramite il codice assegnato, è possibile risalire al soggetto da cui sono stati prelevati. Infine, i c. b. a identificazione completa sono associati a nome e indirizzo del soggetto da cui sono stati prelevati. Il collegamento tra c. b. e soggetto è qui sempre possibile.
In maniera non molto dissimile, la citata raccomandazione nr. 4/2006 classifica i c. b. in identificabili o non identificabili. I primi permettono, direttamente o tramite un codice, di identificare le persone da cui sono stati prelevati. Se è impiegato un codice, la raccomandazione distingue ulteriormente a seconda se il codice sia accessibile all’utilizzatore (sono i c. b. coded, codificati), oppure sia esclusivamente sotto il controllo di un terzo (c. b. linked anonymised, anonimizzati collegati).
I c. b. non identificabili (ovvero non linked anonymised, anonimizzati non collegati) non permettono, with reasonable efforts, ossia «con ragionevole sforzo», di identificare il soggetto da cui sono prelevati.
Il profilo dell’identificabilità assume rilevanza, per es., con riferimento ai dati genetici. La citata autorizzazione nr. 8/2014 dispone che, nel caso in cui l’interessato revochi il consenso al trattamento dei dati per scopi di ricerca, il c. b. prelevato per tali scopi deve essere distrutto, a meno che, in origine o a seguito di trattamento, non possa più essere riferito a una persona identificata o identificabile.
Profili di responsabilità civile. – Le attività connesse ai c. b. evocano spesso profili di responsabilità civile. Innanzitutto, il prelievo di c. b. per via chirurgica può essere considerato un’attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 del codice di procedura civile. Tale articolo configura un’ipotesi particolare di responsabilità civile, in quanto il danneggiante è sempre obbligato al risarcimento se non fornisce la prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.
Il trattamento di dati personali è considerato dalla legge (art. 15, 1° co., d. legisl. 196/2003) alla stregua di un’attività pericolosa ex art. 2050 c.p.c.: i dati personali idonei a rivelare informazioni come, per es., l’origine razziale ed etnica o lo stato di salute, sono definiti sensibili, e tra questi rientrano senz’altro i dati genetici. Dai c. b. è possibile ricavare dati genetici, per cui parrebbe che le attività legate al trattamento di c. b. in generale debbano ritenersi pericolose ai sensi dell’art. 2050 del codice di procedura civile.
I liquidi biologici umani sono considerati dalla medicina legale alla stregua di sostanze infette (v. Ferrara, Favretto, Montisci 2009): anche qui il loro prelievo, trattamento e trasporto possono essere qualificati come attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 del codice di procedura civile.
Infine, occorre ricordare che un c. b. immesso nel corpo altrui può essere veicolo di infezioni e quindi causare un danno alla salute (si pensi al caso delle emotrasfusioni). Il soggetto leso può in questi casi chiedere alla struttura sanitaria responsabile il ristoro dei danni patiti, patrimoniali e non.
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