Campo di concentramento
di Bruno Tobia
Nel lessico storico-politico corrente, l'ampio uso della formula campo di concentramento, che raggruppa sotto una stessa locuzione realtà differenti, rischia di far sfumare nell'indistinto la precisa connotazione storica del fenomeno. La sola descrizione fisico-materiale del c. di c. - luogo di reclusione, costituito per lo più da una porzione di spazio aperto delimitata da una linea di recinzione, nella quale vengono ammassati e sorvegliati a vista prigionieri ridotti in condizioni di vita gravemente precarie - non è sufficiente a fornirne una definizione appropriata. In base a tale definizione, infatti, non potrebbe porsi alcuna distinzione, per es., tra c. di c. e campi di internamento, fioriti per accogliere e concentrare civili stranieri trovatisi improvvisamente nella condizione di 'nemici' in seguito allo scoppio di un conflitto, come avvenne ai cittadini francesi in Germania o tedeschi in Francia, nell'agosto del 1914, o alle migliaia di civili giapponesi segregati negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale; o anche ai profughi (civili e militari della Spagna repubblicana), rifugiatisi nel 1939 oltre i Pirenei. A maggior ragione, e a dispetto di ogni similitudine materiale, dovrebbero essere chiamati campi di prigionia, non di concentramento, quei luoghi di reclusione nei quali si trovino militari, soldati e ufficiali, catturati in seguito ad avvenimenti bellici.
Per riuscire a definire il carattere dei c. di c., inoltre, non appare sufficiente neanche la motivazione eccezionale e temporanea con la quale se ne è di volta in volta giustificata la nascita, poiché la caratteristica degli esempi storici più significativi sembra essere, al contrario, la trasformazione della situazione originaria da provvisoria in permanente, fino a dar luogo addirittura a un vero e proprio articolato 'sistema concentrazionario'.
Spostare il punto di osservazione, considerando la forma e le procedure mediante le quali i c. di c. accolgono una massa reclusa, appare il modo migliore per definire il fenomeno. Contrariamente a ciò che accade in ambito giudiziario, ove la condizione di detenuto si definisce in seguito a una sentenza, il prigioniero 'concentrato' risulta tale in virtù di un atto extragiudiziario di tipo amministrativo, del quale è fatto oggetto non in quanto imputato, ma piuttosto perché insindacabilmente ritenuto dall'autorità (politica o militare) o colpevole di reato o appartenente a un gruppo considerato, in via presuntiva e preventiva, nocivo in modo permanente al corpo sociale. Il c. di c. nasce così come esigenza di isolare ed espellere stabilmente dal consorzio comunitario qualsiasi individuo che risulti sospetto dal punto di vista militare, politico, razziale o sociale. Accanto a tale funzione primaria, esso svolge anche quella deterrente e dissuasiva nei confronti di possibili comportamenti ritenuti ostili o anche semplicemente devianti, configurandosi come un efficacissimo strumento terroristico di omogeneizzazione politico-sociale.
Sorge allora qualche dubbio sulla legittimità delle tesi che considerano essere all'origine dei c. di c. le misure assunte dal comando spagnolo nel biennio 1896-1898 durante la seconda guerra d'indipendenza di Cuba, tese a concentrare la popolazione contadina in campi cinti da filo spinato (inventati poco prima per governare le mandrie nel West nordamericano) allo scopo di isolarla dalle zone di operazione degli insorti per poterle meglio pacificare. La stessa perplessità vale nel caso dei provvedimenti assunti tra il 1900 e il 1902 in Sudafrica dagli inglesi per stroncare la guerriglia boera, che portarono alla concentrazione in appositi campi della popolazione civile, una volta distrutti i centri di appoggio dei resistenti antibritannici. Esperienze analoghe furono quelle realizzate in Cirenaica dall'autorità militare italiana contro la popolazione araba fra il 1930 e il 1933, dall'autorità militare francese in Algeria tra il 1954 e il 1961 (che arrivò a coinvolgere addirittura il 26% della popolazione musulmana) o quella dei cosiddetti villaggi strategici allestiti dal governo di Ngo Dinh-Diem nel Vietnam del Sud all'inizio degli anni Sessanta, al fine di stroncare la guerriglia dei Vietcong. Tali realtà repressive, per quanto disposte in via amministrativa, per quanto inumane dal punto di vista delle condizioni di vita dei concentrati, per quanto fornite di un'indubbia forza dissuasiva, non ebbero durata illimitata, furono strettamente legate alle contingenze belliche - come nel caso dei campi di internamento -, quindi destinate a scomparire al ripristino delle condizioni di pace; erano inoltre sottoposte a un più o meno efficace controllo dell'opinione pubblica. Diverso appare lo sterminio della popolazione degli Herero, avvenuto a partire dal 1904 nella colonia tedesca dell'Africa del Sud-Ovest, dove per la prima volta la concentrazione fu associata al lavoro forzato al fine di eliminare uno specifico gruppo etnico per accaparrarsene le terre. Quando, nel 1908, i campi furono chiusi, l'80% degli Herero, alcune decine di migliaia di uomini, erano ormai scomparsi.
Il governo dell'Impero Ottomano adottò atteggiamenti analoghi nei confronti della popolazione armena, tra l'aprile 1915 e il giugno 1916. Nel quadro di una linea politica 'nazionalitaria', tesa ad affermare la supremazia dell'etnia turca nell'impero, il governo di Costantinopoli programmò e intraprese l'annientamento degli Armeni, additandoli all'opinione pubblica interna come una pericolosa quinta colonna della Russia, contro la quale l'Impero ottomano era in guerra. Alla fase della pulizia etnica nell'esercito e nell'amministrazione, seguì quella dell'eliminazione della classe dirigente politica e intellettuale, e degli uomini validi. La terza fase del genocidio comportò la deportazione di massa degli Armeni, attraverso il deserto, verso campi di raccolta per lo più situati in Siria e lungo l'Eufrate, ove si realizzò la quarta, ultima e generalizzata fase dello sterminio: l'eliminazione per malattia e inedia dei reclusi, in maggioranza donne e bambini, continuamente spostati da un sito all'altro con estenuanti marce forzate. In quattordici mesi furono eliminati circa un milione e duecentomila Armeni dei due milioni che costituivano la popolazione originaria. Ciò costituisce un vero e proprio mutamento nella pratica concentrazionaria: lo sterminio programmato e realizzato dai 'Giovani turchi' può essere definito la prima forma di genocidio moderno nel quale, rudimentalmente, il c. di c. è usato per gestire grandi masse segregate. L'esempio del popolo armeno mostra, inoltre, sia pure in maniera appena accennata, un tratto decisivo del fenomeno: il nesso tra una situazione di guerra che richiede lo sforzo totale delle forze in gioco e una dura politica di repressione, parte costitutiva dello stesso impegno totale, rivolta contro gruppi interni, veri o presunti alleati dei nemici esterni.
È quanto accadde assai precocemente nel 1918 all'inizio della guerra civile in Russia, quando L.D. Trotzkij propose la creazione di c. di c. per controrivoluzionari, sabotatori, parassiti e speculatori; pratica autorizzata nel corso della guerra civile e istituzionalizzata ben oltre l'iniziale stato d'emergenza, fino a quando, con il decisivo rafforzamento del potere di J.V. Stalin e il lancio del primo piano quinquennale nel 1929, il Soviet dei commissari del popolo affidò alla Direzione politica statale unificata (OGPU) il compito di istituire grandi Campi di rieducazione attraverso il lavoro (ITL), e nel 1931 fu creata la Direzione centrale dei lager, Gulag (Glavnoe Upravlenie Lagerej). Il sistema dei c. di c. sovietici si stabilizzò così secondo la propria caratteristica: la stretta associazione tra imprigionamento e lavoro forzato i cui esempi significativi e terribili sono i lager delle isole Solovki, ove fu organizzato l'ITL adibito alla costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico, quelli per la costruzione della ferrovia Bajkal-Amur, o i lager della Kolyma, dove fu creato l'ITL minerario del Nord-Est. Lo scatenamento del cosiddetto grande terrore, a partire dal luglio 1937, provocò vaste ripercussioni sull'insieme dei lager, il cui numero, analogamente a quello dei reclusi, cominciò a crescere secondo una progressione da allora in poi inarrestabile, per cui all'inizio del conflitto contro la Germania nazista i prigionieri superavano ampiamente i due milioni, in circa 80 campi.
La 'grande guerra patriottica' segnò una diminuzione non dei lager, ma dei cantieri o impianti aperti e dei detenuti, reclutati dall'esercito per colmare le enormi perdite subite nella lotta antitedesca, anche se, sempre per esigenze belliche, crescevano i ritmi di lavoro nei settori rimasti attivi e conseguentemente la mortalità tra i reclusi, giunta nel 1942 a circa il 25% del numero medio annuo di prigionieri (fino ad allora si era aggirata intorno al 10%). In realtà si inaugurò in questo periodo, per proseguire anche durante gli anni della ricostruzione sino alla morte di Stalin (1953), l'epoca in cui il Gulag appare come un gigantesco sistema produttivo concentrazionario alle dirette dipendenze del Commissariato del popolo agli affari interni (NKVD), mentre il modello repressivo-correzionale venne esportato in tutti i Paesi nei quali si estese l'influenza sovietica (zona d'occupazione in Germania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria), ma anche laddove si instaurarono regimi comunisti non direttamente collegati a Mosca o addirittura in netto contrasto con l'URSS (Albania e Iugoslavia). Il lentissimo processo di smantellamento del complesso concentrazionario iniziò nello stesso 1953, si accentuò con la destalinizzazione a partire dal 1956, passò nel 1960 attraverso l'abolizione della Direzione delle colonie di lavoro (ultima denominazione ufficiale dei campi), venne accelerato sotto L.I. Brežnev, quando il sistema concentrazionario perse il suo carattere di massa nell'associazione tra repressione e lavoro coatto, e giunse sino alla perestrojka di M.S. Gorbačëv, quando furono liberati gli ultimi detenuti politici. L'esperienza del Gulag ha accompagnato perciò quasi per intero la parabola del potere sovietico, arrivando in alcune fasi a caratterizzarne i tratti totalitari. Resta tuttavia assai controverso, anche dopo l'apertura degli archivi, il numero sia degli internati - gli oppositori politici e sociali, i prigionieri di guerra, i gruppi nazionali,come i ceceni, i tatari di Crimea e i tedeschi del Volga, equiparati ai nemici -, sia quello delle vittime, o fucilate o decedute per fame, per epidemie, per sfinimento. Un calcolo prudenziale stima in due milioni e mezzo la presenza media e permanente di prigionieri lungo un arco di quindici anni; un'altra valutazione ritiene i detenuti crescere da due milioni nel 1931 a dieci tra il 1940 e il 1942. Nell'anno della morte di Stalin il numero dei reclusi si sarebbe aggirato tra un minimo valutato in sette e un massimo stimato in dodici milioni, mentre si ritiene che tra il 1934 e il 1947 sarebbero stati liberati sei milioni di internati su quindici. Ancor più difficile è la stima dei decessi direttamente imputabili al sistema concentrazionario, certamente responsabile di milioni di morti, per es. tra quei contadini (da tre a sei milioni) scomparsi durante la campagna della collettivizzazione forzata e le carestie a essa riconducibili. Repressione e produzione sono dunque termini inscindibili del sistema concentrazionario sovietico, nel quale la funzione 'riabilitativa' progressivamente si illanguidì, ma rimase esclusivamente affidata al lavoro. In Cina invece - come del resto nella Corea del Nord, nel Laos, in Vietnam e, in forma estrema, in Cambogia dal 1975 al 1979 - la funzione produttiva del laogai, nel quale sono rinchiusi prigionieri ritenuti criminali, e quella del laojiao, che accoglie detenuti non privati dei diritti civili, è strettamente legata a quella rieducativa; in ambedue il lavoro è associato allo studio per ottenere la totale 'rigenerazione' del detenuto. Alcune stime parlano di venti milioni di reclusi alla fine degli anni Cinquanta; le autorità cinesi restringono il numero degli internati a dieci milioni nel 1949 e a un milione e duecentomila nel 1995. In tutti gli esempi di stampo comunista, comunque, l'aspirazione a riplasmare la società nell'intento di creare l''uomo nuovo' passa attraverso una politica 'riabilitativa' per la quale l'estrema violenza cui è sottoposto il detenuto è il mezzo e non il fine della repressione, poiché al prigioniero è lasciata almeno la teorica possibilità del 'ravvedimento' personale.
Diversamente nel sistema nazista la spinta alla creazione di una società totalitaria si espresse mediante la programmata eliminazione in massa di gruppi classificati come indesiderabili, con tassi di mortalità fra i reclusi variabili dall'oltre il 30% nei c. di c. al 99,9% in quelli di sterminio. Dai campi sovietici o cinesi era possibile uscire, nei campi nazisti si doveva morire, anche se in origine furono realizzati come luoghi di mera repressione politica (il primo fu aperto a Dachau, presso Monaco) per divenire soltanto progressivamente, tra il 1935 e il 1937, uno strumento di ingegneria sociale con l'internamento dei testimoni di Geova, degli omosessuali, dei criminali di professione, degli 'asociali' e, dal novembre 1938, anche di alcune decine di migliaia di ebrei. La fase vorticosa della nascita dei campi sfociò rapidamente in un vero e proprio sistema concentrazionario, posto alle dipendenze di H. Himmler, Reichsführer delle SS, e dal 1943, anche ministro dell'Interno del Reich. Lo scoppio della guerra segnò il rapido aumento della popolazione detenuta e la sua internazionalizzazione, ma soprattutto modificò la funzione dei campi, nei quali centinaia di migliaia di reclusi sottonutriti sopravvivevano in un'indescrivibile condizione di affollamento, di sporcizia, di privazioni e di arbitrio assoluto da parte delle SS. Si fece pressante, a partire dal 1942, la necessità di utilizzare i detenuti come forza lavoro affittata all'industria tedesca per sostenere lo sforzo bellico, mentre si era già manifestata dall'autunno del 1941 la tendenza a risolvere la 'questione ebraica' mediante lo sterminio di massa, affidato all'Ufficio centrale della sicurezza del Reich (RSHA), facendo del Governatorato generale in Polonia il fulcro dell'eliminazione della popolazione ebraica europea. La conferenza di Wansee del gennaio 1942 ebbe il compito di mettere a punto il meccanismo dello sterminio, utilizzando sia i ghetti dell'Europa orientale, sia le decine di c. di c., alcuni sorti anche nei Paesi alleati o occupati, come una rete lungo la quale instradare per ferrovia e avviare a morte milioni di ebrei (da cinque a sei milioni in un periodo di quattro anni e mezzo, comprese le vittime delle fucilazioni di massa in Russia e in Ucraina) verso sei campi speciali: Belzec, Chełmno, Majdanek, Sobibor, Treblinka e, principalmente, Auschwitz-Birkenau. È qui che l'eliminazione immediata con il Zyklon-B nelle camere a gas o lo sterminio attraverso il lavoro, gli esperimenti medici, la fame di centinaia di migliaia di ebrei, zingari, slavi, asociali, prigionieri di guerra o politici raggiunse il vertice di un processo pensato su scala industriale e realizzato con precisione e puntigliosità burocratiche per assicurare il dominio dello Stato razzialmente puro perseguito in modo spietato dalla dirigenza nazista. Per questo Auschwitz-Birkenau è assurto a simbolo supremo della barbarie dei c. di c., stampandosi come un monito perenne nella coscienza morale contemporanea.
Bibliografia
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