CANAPA INDIANA (fr. chanvre indien; sp. cáñamo indico o de la India; ted. indisches Hanfkraut; ingl. indian hemp)
Pianta della famiglia delle Moracee, sottofamiglia Cannaboidee, che il Lamark (Dict. encycl., I, p. 695) aveva descritta col nome di Cannabis indica; però più tardi per unanime consenso degli autori si è visto che la pianta che fornisce la droga conosciuta col nome di canapa indiana non è differente dal punto di vista morfologico dalla comune canapa (v.) che è coltivata per le fibre tessili e per i frutti; ne differisce invece per la sua azione fisiologica, perché si riscontra particolare attività solo nella droga fornita dalle piante coltivate in India e in Persia. Si potrebbe perciò considerarla cone una varietà fisiologica e geografica col nome di var. indica.
La droga è fornita dalle sommità fiorite degl'individui pistilliferi. Se ne possono distinguere due forme. La ganja è costituita da focacce di color brunastro, di odore assai aromatico, di consistenza resinosa, fatta di sole sostanze resinose asportate dalle piante facendo camminare nelle coltivazioni uomini vestiti di cuoio: la resina si attacca al cuoio e viene asportata in forma di globetti che riuniti insieme costituiscono le focacce di ganja; questa preparazione destinata ai fumatori si fa nelle montagne dell'India e si consuma tutta nel paese. La bang o guaza è fatta invece d'infiorescenze e di foglie secche riunite insieme in masse irregolari. Si raccoglie nelle pianure dell'India e di alcune località della Persia e si esporta in Europa, ha un odore debole ed è poco resinosa. La prima forma costituisce il cherris o churrus dei fumatori orientali, la seconda il ḥashīsh. Il madjoun (maǵūn) degli Arabi o esrar dei Turchi è un ḥashīsh leggermente torrefatto, mescolato col miele; la dawāmeh è una pasta molle, bruna, di sapore e odore piacevoli, preparata con estratto grasso di ḥashīsh, miele e aromi e talvolta cantaridi per renderla afrodisiaca. Azione analoga avrebbe una forma di canapa coltivata negli Stati Uniti e nel Messico e distinta col nome di Cannabis americana, da riferirsi come varietà alla C. sativa.
La droga dà un'ebbrezza più allegra di quella dell'alcool e della morfina; apporta un senso d'immenso benessere con ideazione rapida e incoerente, con illusioni e allucinazioni di carattere gaio cui subentra poco per volta torpore e sonno.
Anche le esperienze fatte dal Dixon (1899) sui cani hanno dimostrato chiaramente l'effetto narcotico di questa droga. Dopo fenomeni preliminari di atassia, eccitamento e nausea, l'animale cade in un sonno profondo durante il quale la sensazione dolorifica è notevolmente diminuita, mentre persistono i riflessi.
Se le forti dosi di droga singolarmente assunte non sono dannose, l'uso continuato nell'uomo provoca decadimento della nutrizione con gravi disordini mentali di tipo maniaco (cannabismo). Animali sottoposti a ripetute somministrazioni di cannabinolo dimagrano rapidamente in modo impressionante.
Per quanto ne esistano varie preparazioni galeniche (estratto, tintura, ecc.), la canapa, proposta come sedativo nelle alienazioni mentali e nelle nevrosi, come antispasmodico nelle nevralgie, nel reumatismo, nella gotta, ecc., è pochissimo usata in terapia.
Distillando con acqua la canapa indiana, si è ottenuto un olio etereo, il cannabene; sono stati estratti in quantità piccola e incostante alcaloidi come la cannabinina (Siebold e Bradburry 1881) e la tetanocannabinina (Hay 1883); ma la parte attiva della canapa indiana è quella resinosa alla quale, nella forma di epurazione, lo Smith ha dato il nome di cannabina. Da questa il Fränkel (1903), distillando nel vuoto l'estratto di etere di petrolio fra 210° e 240°, ottenne il cannabinolo, massa densa, trasparente, debolmente colorata in giallo con i caratteri di fenolaldeide secondo la formula:
Rappresenta il principio attivo della canapa indiana: la sua struttura chimica ne spiega la rapida ossidabilità; e perciò i preparati di ḥashīsh, se non si riparano dall'aria e dalla luce, facilmente diventano inattivi.