candida rosa
. Forma in cui si configurano i beati nell'Empireo (Pd XXX-XXXIII; la dicitura candida rosa è esattamente in XXXI 1): fuori del tempo e dello spazio, in un cielo di pura luce dove la Trinità irraggia, con la luce, amore e delizia; e non " sede " dei beati, ma persona che nel suo sangue Cristo fece sposa (XXXI 3). Non aspettiamoci di assistere alla traduzione in moduli suggestivi e figurativi di una cifra intellettuale: caduti, al limite, gli schemi e gli schermi del mondo sensibile,
e dovendo, per poter dipingere la sua figura, divenir lei (secondo il canone fondamentale della poetica dantesca suggellato nella canzone della Nobiltà [Cv IV Le dolci rime 52-53] poi chi pinge figura, / se non può esser lei, non la può porre), D. è ormai estraneo a quel lavoro di assiduo accostamento di significato letterale e di significato allegorico che esigerebbero da lui gli zelatori del simbolismo. Tutta la sua storia d'uomo, che in sé riassume tutta la storia degli uomini, è presente in questi canti trionfali; e, paradossalmente, il senzatempo più vicino al punto luminoso che lo ‛ circunfulge ' del suo fulgore (Pd XXX 49-51), è proprio la sua virtù contemplativa, da cui sprizzano i segni e le parole.
La libertà indefinita, che fa di teoresi logica e di teoresi poetica un solo atto di vita unitiya, nell'identità di velle e di disio coinvolti dall'amor che move il sole e l'altre stelle (Pd XXXIII 145), lo conduce a un rito alleluiatico dove si comunicano segni concreti di concentrazione e dissipazione fulminee, dapprima riassunti nell'immagine di un nulla rapito in atto d'amore, nulla vedere e amor mi costrinse (XXX 15), quando, salutato il mondo, Forse semilia miglia di lontano (v. 1), si spenge il coro degli angeli e Beatrice gli annuncia che è giunto all'Empireo: con un atto d'amore, non con una riflessione dando inizio alla nuova fase della visione. La prima immagine dei beati, e quindi la prima metamorfosi dell'Empireo, è di lume in forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera (vv. 61-63), così officiando una coesistenza ancor divisa dall'emblema, la diversità del fiume e delle due rive fiorite che vi si specchiano: metafore approssimate alla verità delle anime, une e distinte in Dio uno, umbriferi prefazi di lor vero (v. 78). Dopo un rapido intermezzo esplicativo di Beatrice, e l'ennesima ripresa del tema puerile del ‛ fantino ', la fiumana si trasforma in lago e subito, procedendo verso una concretezza personalistica che non sarà più dimessa, si abbattono le maschere di luce che velavano i volti dei beati, sì ch'io vidi / ambo le corti del ciel manifeste (vv. 95-96).
All'emblema della rosa si giunge, piuttosto per associazione verbale e analogia semantica che per continuità simbolica, nei vv. 91-117 del c. XXX, che dalla dossologia della luce divina, cui impetra virtù, e sempre tessendo variazioni sul tema della luce, passano alla figura geometrica e mistica del circolo, al raggio divino che riflesso dalla convessità del Primo Mobile si diffonde in sfera di luce, all'immagine, ancora, del clivo che specchia nell'acqua i fiori e la verzura, e infine alla misura di un rapporto di luce e di spazio (vv. 115-117), scandito da un soprassalto di gioia, nell'accorgersi di poter bastare al quanto e 'l quale di quella allegrezza (v. 120). Beatrice lo trae nell'intimo della rosa, nel centro giallo della corolla, e da quel vertice del mondo dove percuote e si rifrange il raggio del lume di Dio, lode della primavera eterna, introduce il convento de le bianche stole (v. 129) e l'ampia città di Dio: Vedi nostra città quant'ella gira (v. 130). Prima di giungere alla metafora della c. rosa, che è posta così in posizione forte al termine del primo verso del canto XXXI, si son dunque raccolte più immagini che galleggiano nella memoria, l'una procedendo dall'altra: il fiume, il lago, la primavera;
e oscillando fra la suggestione del fiore e quella della larva, dopo che la lunghezza è divenuta tonda. Una fantasia meno solerte avrebbe certo approfittato, dopo il giallo, di un ricamo tanto facile intorno all'emblema, una volta introdotto; ma, per cogliere un minimo d'insistenza, e penetrare così nel ritmo più segreto della poetica, diremo che assiste il poeta uno schema geometrico e una memoria: il primo, e più evidente, si riassume nell'imponenza di alcuni schemi decorativi, riassunti dall'arte araba e trasferiti pur nella civiltà d'Occidente, sempre più intesa allo storico che all'intellettuale: a cominciar dal simbolo e segno dell'armonia concentrica, il ‛ rosone ' appunto, che si sostituisce alla spirale del continuo nei suoi avvolgimenti fluviali; e la seconda si riflette nel mimo delle ‛ larve ' e nel tema dell'anfiteatro, la più famosa delle meraviglie della città terrena, il Colosseo, appunto, che il culto dei martiri legava al trionfo della Chiesa. Ma ormai l'assedio dell'emblema della c. rosa sta cessando e il poeta lo intervalla di spazio sempre più ampio: l'immagine si ripresenta dove si ristabilisce il nesso tematico con la Vergine, son d'erta rosa quasi due radici (XXXII 120), risorgendo ancora una volta quando scatta il nesso fra la Vergine e la Chiesa, a proposito di Pietro, a cui Cristo le chiavi / raccomandò di questo fior venusto (vv. 125-126); e solo una mente ormai tutta distolta da ogni tematica parodistica e sessuologica avrebbe potuto riproporre insieme i due emblemi. Ma a dir tutto si rilegga e s'intenda il riapparir dell'emblema nella preghiera alla Vergine: suggello di una semiologia che non potrebbe esser né più pura né più amorosa: Nel ventre tuo si raccese l'amore, / per lo cui caldo ne l'etterna pace / così è germinato questo fiore (XXXIII 7-9): forse il più alto vertice della poesia dantesca.
Una lettura sincronica diretta a enucleare l'intenzionalità del tema e dello stilema osserva nell'emblema della c. rosa un'interiore sintassi d'immagini, una dialettica del processo analogico, un rifluire delle vibrazioni emotive intorno alle accensioni fantastiche che non solo qualifica e caratterizza la poetica dei canti empirei, ma capovolge il consueto rapporto di poesia e struttura (intendendo questo termine nel senso crociano): proprio dove ci attenderemmo il ricorso alla, non-poesia, risulta totale la disponibilità del poeta all'immagine. La teologia, con le sue filosofiche propaggini, si allontana come il sorriso di Beatrice, che, da quella tersa e attingibile lontananza dove sale, lo raggiunge: poi si tornò a l'etterna fontana (XXXI 93): un'immagine, questa della fontana, che D. aveva passato sotto silenzio, quando aveva introdotto il mito di Priamo e Tisbe udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla (Pg XXVII 41-42), qui ritrovato e rilegato attraverso la rispondenza di riguardolla (v. 38) e di riguardommi (Pd XXXI 92), e che qui d'improvviso ripullula; ma la storia di Beatrice è qui riassunta, in preghiera e in lode che anticipa la preghiera di s. Bernardo alla Vergine, disponendosi intorno all'excursus delle vite puerili che hanno meritato quanto Dio loro ha largito. Restando estraneo il mondo delle intenzioni, resta superflua una critica diacronica, anche restringendo il termine all'accezione più povera che può serbargli la neolinguistica. Un'ultima nota di periegesi illustrativa non trascureremo: in una cerchia cittadina e polemica dove il Roman de la Rose è già per sé concepito come contrapposizione dell'amore profano al sacro, il Fiore di ser Durante poteva essere accolto come parodia di quella storia d'amore che è tutta l'opera di D.: una specie di prolungamento del sonetto responsorio di Dante da Maiano al sonetto proemiale della Vita Nuova. Quali che possano essere le argomentazioni a sostegno di un'autenticità del Fiore, ogni risultato del saper leggere, sganciato dunque dal cumulo periegetico dell'enciclopedismo, impone di allontanare l'uno emblema dall'altro: ‛ il momento ' della c. rosa non è in antitesi con il goffo e noioso emblematismo del Fiore, ma gli è estraneo: paradossalmente, se la moderna psicologia psicanalitica non ci avesse detto tutto sulle ricorrenze grafiche dell'erotismo, dovremmo esemplare un supposto ‛ iter ' dal Fiore alla c. rosa come interrotto da un abisso non valicabile né dalla memoria né dalle Muse.
Bibl. - L'emblema della c.r. risulta analizzato nelle sue componenti allegoriche dai commentatori più moderni; per primo l'Ozanam, ripreso dal Tommaseo, espresse l'ipotesi secondo cui nel rosone delle chiese medievali (rappresentante solitamente i nove cori angelici) D. avrebbe tratto l'idea di descrivere il paradiso " non a colonnati d'oro e di gemme, né con incensieri d'argento e arpe d'avorio, ma con l'immagine semplice e pura di rosa candida, che i seggi beati son le sue foglie ". Suggestive interpretazioni appariranno più tardi nelle pagine del Pascoli e del Pietrobono. Nella ‛ lectura ' di P. Savj Lopez, in Lett. dant. 1975-1981, oltre ai riferimenti divenuti ormai consueti nell'esegesi dantesca, alle architetture dantesche, vengono segnalati precisi riscontri con testi medievali, come la Cour du Paradis. Tra i commenti più recenti gioverà ricordare quello del Mattalia, per le indicazioni sulla mancanza di valore materiale dell'immagine della rosa " la cui prospettiva sensibile a un attento controllo si scopre essere illusoria ". Si vedano infine, per il maggiore rapporto con la semiologia moderna, Y. Batard, D., Minerve et Apollon: Les images de la D. C., Parigi 1952, e soprattutto B. Seward, The Symbolic Rose, Londra 1960 e New York 1960, dove la c.r. è interpretata come il simbolo di Cristo figlio dell' Uomo, e in sede morale come il simbolo di Maria, e infine, in sede anagogica, come lo stesso simbolo di Dio. Tra le ‛ lecturae ', v. quella di C. Varese (poi in Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano 1961, 23-30) per l'impostazione generale del problema della c. r. nella struttura e nel clima poetico della terza cantica. Infine un'interessante prospettiva, suggerita dalla psicanalisi, è in E. Guidubaldi, Per una fenomenologia della visione dantesca, in Annali dell'Istituto di studi danteschi, Milano 1966.