Della Scala, Cangrande
Nel terzo e ultimo dei canti in cui si distende l'episodio di Cacciaguida (Pd XVII), D. chiede all'avo di spiegargli il senso delle parole gravi che, durante il viaggio attraverso l'Inferno e il Purgatorio, gli erano state dette intorno alla sua vita futura (vv. 19-27). Cacciaguida lo accontenta (vv. 46-93) e, dopo una pausa, constata la congruenza della sua risposta con il tenore della domanda che gli era stata rivolta (queste son le chiose / di quel che ti fu detto, vv. 94-95), punto che viene ancora ribadito, mediante una similitudine (la risposta di Cacciaguida sta ai dubbi di D. ‛ come la trama all'ordito '), nella terzina (vv. 100-102) che chiude questa prima parte del canto e introduce la parte finale (vv. 106-142), consistente nel dialogo fra D. e Cacciaguida sui rischi cui il poeta andava incontro ridicendo senza riguardi per nessuno quel che aveva appreso durante il suo viaggio nell'al di là, e che sarebbero stati notevolmente aggravati dalla precarietà della condizione di esule ridotto a vivere alla mercé degli altri, in cui - come Cacciaguida gli aveva appena rivelato - sarebbe venuto a trovarsi fra breve. Pd XVII non è, dunque, solo il canto più personale e autobiografico della Commedia; collocato giusto al centro della terza cantica, esso segna anche il momento in cui la riflessione di D. sul proprio destino di esule (una condizione tutt'altro che eccezionale a quei tempi) si salda alla consapevolezza della missione straordinaria che gli è stata riservata e che egli è tenuto a compiere, costi quel che costi: Questo tuo grido farà come vento... (v. 133).
Nell'economia della profezia ‛ post eventum ' di Cacciaguida sull'esilio di D., l'episodio scaligero dei vv. 70-93 assume un rilievo esorbitante, non solo e non tanto perché due membri della stessa famiglia veronese vengono menzionati a preferenza di tutti gli altri signori italiani dai quali D. fu ospitato dopo essere stato bandito da Firenze, quanto perché la menzione del secondo dei due, anziché restare contenuta nei limiti, compatibili con la struttura del canto, di un accenno riconoscente all'ospitalità ricevuta presso di lui (A lui t'aspetta e a' suoi benefici, v. 88), si sviluppa inaspettatamente in una profezia - fino a un certo punto ‛ post eventum ', poi addirittura ‛ ante eventum ', e perciò, di necessità, generica -, il cui oggetto non è più D. medesimo, bensì il suo ospite, presentato in termini tali (Cacciaguida prevede per lui cose / incredibili a quei che fier presente, vv. 92-93) che non si è mancato di stabilire un collegamento fra questo luogo e i due passi, rispettivamente If I 101-111 e Pg XXXIII 37-45, nei quali D. preannuncia la venuta di un ‛ messia ' restauratore della giustizia e della pace.
Questa esorbitanza dell'episodio scaligero rispetto alla struttura di Pd XVII, assai più di un'altra minore difficoltà cui accenneremo più innanzi, rappresenta la vera giustificazione della tesi di chi, discostandosi dalla generalità dei commentatori, che nel gran Lombardo / che 'n su la 'scala porta il santo uccello (Pd XVII 71-72) vedono chi Bartolomeo, chi Alboino della S., e nel fanciullo di nove anni accanto a lui, senza esitazioni, C.; ritiene invece che il gran Lombardo sia C., e il novenne D. medesimo (i 9 anni sarebbero da intendersi come anni siderei di Marte, corrispondenti ciascuno a 687 giorni solari terrestri, ed equivalenti ai 17 anni che separano il 1300 dal 1283, quando D. vide Beatrice per la seconda volta), chiamato a compiere cose incredibili con la sua opera di poeta. " Come profezia ante eventum è stata molto meglio realizzata dalla Commedia che da Cangrande, che deve la sua fama alla Commedia " (Hardie). All'evidenza insostenibile (se non altro per l'accenno ai benefici che D. potrà attendersi dal novenne), questa ingegnosa e suggestiva interpretazione dei vv. 76-93 ha però il merito di dare indirettamente risalto alle reali difficoltà presentate dall'episodio di C.: " Nessuno ha mai sollevato alcuna difficoltà nel prestar fede alle imprese di Cangrande... sia prima che dopo il 1321... Il ‛ novenne ' riferito a Cangrande interrompe il filo logico del discorso di Cacciaguida e inserisce una profezia irrilevante, eccessiva e non avveratasi in un tutto (profetico) post eventum altrimenti coerente " (Hardie). Ammettendo, insomma, con la totalità dei commentatori antichi e la stragrande maggioranza dei moderni, che il ‛ novenne ' sia C. della S., lo stesso ‛ magnifico e vittorioso signore ', vicario generale sacratissimi Caesarei Principatus in urbe Verona et civitate Vicentiae (Ep XIII 1), al quale, intorno al 1316 (Mazzoni) o nel 1319 (Nardi), D. aveva, o avrebbe, dedicato la terza cantica, resta da stabilire che cosa il personaggio oggetto della profezia di Pd XVII 76-93 e dedicatario dell'intero Paradiso possa avere finito col rappresentare agli occhi di D. negli anni 1312-1313 / 1318-1319, che sono quelli nei quali trovarono posto la redazione della lettera di dedica e la composizione di Pd XVII, nonché, per ciò che concerne non più l'opera ma la vicenda biografica del poeta, un suo secondo soggiorno veronese, svoltosi sotto così buoni auspici da indurlo persino a riconsiderare, in una luce diversa e favorevole, l'esperienza non altrettanto positiva di una prima sosta a Verona, nel 1303-1304 (cfr. DELLA SCALA).
Se solo per amore di paradosso si può sostenere che C. deve la sua fama alla Commedia, non è neppure da attendersi che la chiave per l'interpretazione di Pd XVII 76-93 possa essere offerta da una più approfondita conoscenza delle sue imprese e, in genere, della sua attività di governo o dalla rivelazione, che pure non è da escludersi, di progetti, anche molto ambiziosi, che a un certo punto potrebbero essere stati ventilati nelle sue immediate vicinanze. Sotto questo profilo, la doverosa constatazione secondo cui l'unica monografia su C. risale alla fine del secolo scorso, non muta i termini del problema.
C. nacque, da Alberto della Scala e da Verde di Salizzole, il 9 marzo 1291: così almeno secondo D., che gli attribuisce nove anni nel 1300, d'accordo col continuatore del Chronicon Veronense di Parisio da Cerea (il che non è poco, se si consideri il posto centrale occupato da questa fonte nella tradizione cronachistica veronese), ma in disaccordo con altre fonti più tarde o meno autorevoli, che invece lo vogliono nato nel 1289. La relativa incertezza che tuttora permane al riguardo, ha forse meno importanza per la biografia di C. di quanta non ne rivesta per l'interpretazione di Pd XVII 76-81: la soluzione 1289 costituisce infatti praticamente un passaggio obbligato per quanti affermano che il novenne non è C.; se invece, come appare certo, è di C. che si tratta, il riferimento al segno zodiacale sotto cui è avvenuta la nascita (colui che 'mpresso fue, / nascendo, sì da questa stella forte, cioè Marte, il pianeta nel cui cielo si trova Cacciaguida) è prova di un'attenzione tutta particolare rivolta al momento iniziale della sua vita, che certo a suo tempo era stato l'oggetto di una divinazione di tipo astrologico - dell'astrologia cosiddetta della genitura -, in omaggio a pratiche assai diffuse nelle corti dell'Italia settentrionale almeno fino dai tempi di Federico II.
Nel 1308, in corrispondenza con l'ingresso nella maggiore età, C. viene associato al potere dal fratello Alboino. Il 2 dicembre del 1310, legati dei signori di Verona, che portavano sulle loro insegne il santo uccello, compaiono in Asti davanti a Enrico VII, in atto di sottomissione. Il 7 marzo 1311, esauritosi l'effimero tentativo di Enrico d'imporre a Verona un vicario di sua fiducia nella persona di uno straniero, il pisano Vanni Zeno, Alboino e C. sono nominati a loro volta vicari imperiali (la stessa nomina ebbe, a Treviso, Rizzardo da Camino). Con ciò il vicariato, a Verona come altrove, perdeva completamente la sua natura originaria: da mezzo con cui l'imperatore cercava di affermare la sua autorità sui poteri locali, diventava " la sanzione, la legittimazione di signorie o di tirannidi sorte al di fuori dell'autorità imperiale e contro di essa " (Ercole). Sempre nel 1311, C., scavalcando sul piano dell'iniziativa politico-militare il fratello maggiore, dà per la prima volta buona prova di sé. L'occasione è offerta dalla conquista, per conto di Enrico, di Vicenza (15 aprile), soggetta a Padova da quarantasei anni: un'iscrizione apposta sulla torre del palazzo pretorio ricorderà che Vicenza doveva la riconquistata libertà al " magnanimus canis " e a un fuoruscito che portava la barba alla maniera dei Greci. Durante l'assedio di Brescia (maggio-settembre), C. è alla testa delle milizie delle città lombarde fedeli a Enrico. Il 29 novembre muore Alboino. L'11 febbraio del 1312, la concessione a C. del vicariato in Vicenza viene a premiare la fedeltà dimostrata coi fatti alla causa imperiale durante tutto il periodo in cui Enrico si era trattenuto nell'Italia settentrionale. Ma il possesso di Vicenza voleva anche dire lotta a oltranza con Padova. Conclusa la fase di consolidamento interno della signoria scaligera, iniziata da Alberto e proseguita con Bartolomeo e Alboino, C. intraprendeva la lotta per l'egemonia nella Marca Trevigiana, indispensabile premessa alla creazione di uno stato regionale nella terraferma veneta.
Ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni, / parran faville de la sua virtute / in non curar d'argento né d'affanni (vv. 82-84): alla luce di quanto s'è detto, il termine ‛ ante quem ' che D. pone per la rivelazione del valore di C. - ancora, di necessità, invisibile nel fanciullo che egli era, sia nel 1300, che quando D. lo vedrà, accanto al fratello, durante il suo primo soggiorno veronese -, risulta calibrato al millimetro sulla reale successione degli avvenimenti, prova questa dell'ottima informazione di cui D. doveva disporre al riguardo. Di là del dato cronologico come tale (pria che...), i due versi che completano la terzina hanno la funzione di qualificare la virtute di C.: il secondo è stato accostato a If I 103 (non ciberà terra né peltro; detto del veltro!) e citato fra " gli echi di Dante entro Dante " (Contini); il primo, con un procedimento analogo, potrebbe essere utilmente accostato al più vicino Pd IX 29, dove la facella (siamo nello stesso giro di immagini delle faville) sta per Ezzelino. Ma anche senza voler troppo concedere a questi accostamenti, resta il fatto che il C. dantesco oscilla proprio fra questi due poli estremi: è, da un lato, e fino a un certo punto, una sorta di nuovo Ezzelino, spogliato dei connotati demoniaci che gli erano generosamente attribuiti dalla pubblicistica guelfo-padovana, e chiamato a ricondurre sotto le ali dell'aquila le genti al dover... crude (v. 48) della Marca Trevigiana; è, dall'altro, e da un certo punto in poi, il destinatario di speranze che, per essere espresse copertamente " (...e portera'ne scritto ne la mente / di lui, e nol dirai "; e disse cose / incredibili a quei che fier presente, XVII 91-93), sfuggono a qualsiasi tentativo di precisazione, che non si risolva in un puro e semplice accostamento retrospettivo ai passi sopracitati nei quali D. accenna alla prossima venuta di veltri liberatori. Con la differenza non trascurabile che, in questo caso, l'oggetto di tali speranze è un personaggio storicamente determinato, sulla cui carriera politica siamo abbastanza bene informati, un uomo in carne e ossa che D. aveva avuto agio di frequentare a lungo (Veronam petii fidis oculis discursurus audita, ibique magnalia vestra vidi... sed ex visu postmodum devotissimus et amicus, Ep XIII 3) e nei confronti del quale aveva precisi motivi di riconoscenza (... vidi beneficia simul et tetigi, ibid.).
Fino al momento del voltafaccia di Clemente V nei riguardi di Enrico la profezia su C. non presentava, come si è visto, problemi. La terzina che segue (Pd XVII 85-87), con l'accenno al riconoscimento del valore del signore di Verona da cui non potranno esimersi i suoi stessi avversari, è sì generica (le magnificenze di v. 85 ricalcano alla lettera i magnalia di Ep XIII 3), ma espressamente immedesimata dal punto di vista cronologico con ciò che precede (ancora di v. 86 sta per " allora ") e perciò non presenta neppure essa difficoltà. Viene poi l'accenno alle speranze che D. potrà riporre in C., per ora - sembrerebbe - concretate nei tangibili benefici che l'esule riceverà dall'ospitale signore di Verona in occasione del suo secondo soggiorno in tale città. È solo a questo punto che, nella profezia su C., vengono definitivamente meno i due sicuri supporti che l'hanno sostenuta finora: cessano infatti a un tempo sia i riferimenti all'esilio di D. (tema centrale della rivelazione di Cacciaguida, che comprende l'episodio scaligero), sia i riferimenti concreti alle gesta di Cangrande. Più che generica od oscura, la parte finale di questa profezia è sottaciuta. Sarebbe stato infatti manifestamente assurdo che proprio nel momento in cui veniva svelato a D. il senso delle parole... gravi (If XIX 103) intorno al suo futuro, che aveva ascoltate nell'Inferno e nel Purgatorio, egli venisse caricato di una nuova profezia, sia pure di carattere non personale, che, per il fatto di essere ‛ ante eventum ', non avrebbe potuto non assumere il tono copertamente ambiguo di un oracolo sibillino. Per evitare la contraddizione, D. immagina che Cacciaguida gli abbia imposto il silenzio circa le cose udite intorno a C.; e difatti rispetta la consegna, limitandosi a dire che, quando verrà il momento, gli spettatori delle sue gesta non crederanno ai loro occhi.
Cose incredibili (Pd XVII 92): qui l' " histoire événementielle " non ci soccorre più e solo in nome di un'esigenza di astratta completezza biografica metterebbe conto di riferire le tappe ulteriori della carriera politica di C., di per sé tutt'altro che ingloriosa, ma svolgentesi irrimediabilmente al di sotto del livello che D., a un certo punto, sembra avere preconizzato per essa. Tutt'al più, la storia ci fornisce i termini ‛ post ' e ‛ ante quem ', entro i quali D. può avere composto le terzine scaligere di Pd XVII: il termine ‛ post quem ' è ricavabile con facilità dallo stesso testo dantesco, e precisamente da Pd IX 46-48, dove gl'interpreti, con qualche eccezione, concordano nel ritenere celebrata la vittoria conseguita da C. contro i Padovani nei dintorni di Vicenza, il 1314; come termine ‛ ante quem ' si indica invece di solito la sconfitta subita da C. sotto Padova, al Bassanello, il 26 agosto 1320. Ma quest'ultimo è un termine decisamente troppo prudenziale e, spostando l'attenzione dagli annali delle res gestae di C. alle tappe della vicenda biografica di D. nel Veneto, appare piuttosto assai plausibile l'ipotesi del Petrocchi, secondo cui la stesura dell'episodio scaligero del canto XVII avrebbe coinciso col momento del congedo di D. da C. e da Verona, e l'una e l'altro sarebbero da porsi, per tutta una serie di considerazioni, nel 1318 (per il riferimento alla signoria di C. come determinazione della disputa nella chiesa di S. Elena, v. QUAESTIO; VERONA; per altra epistola, perduta, a lui indirizzata, v. EPISTOLE; da ricordare infine le imprese di C. contro i Padovani nella prima egloga di Giovanni del Virgilio, v. 28).
Insolubile sul piano della storia dei fatti, il problema di ciò che D. può avere intravisto in C. sembrerebbe trovare la sua collocazione naturale in sede di valutazione dello sviluppo del pensiero politico di D., nella fase immediatamente successiva al tramonto delle grandi speranze riposte in Enrico VII. Ma nessuno sforzo è stato finora fatto in questa direzione, anche dopo che l'edizione della Monarchia di P.G. Ricci ha suffragato con l'evidenza di un dato filologico la tesi di una datazione del trattato assai vicina al momento in cui D., motivi di riconoscenza personale a parte, mostra di avere creduto C. capace di operare cose / incredibili a quei che fier presente (Pd XVII 93). Il breve contributo del 1966 in cui lo stesso Ricci sembrerebbe avviato ad affrontare il problema, dà meno di quanto il titolo non prometta: la questione, di per sé non irrilevante, della necessità e dei modi della riconferma del vicariato di C. dopo la morte di Enrico VII, appare infatti un filo troppo tenue per servire di collegamento fra il contesto in cui operava il signore di Verona e la sfera troppo superiore delle meditazioni dantesche sul governo universale. A prescindere da qualche utile indicazione del Manselli, in sostanza siamo ancora, per un verso, all'Ercole, che, impegnato nello sforzo meritorio di trovare una linea di sviluppo coerente nel pensiero politico di D., trascura del tutto C., e, per l'altro, allo Scolari che, per lo meno nel libro del 1913, dilata il tema D. e C. fino all'inverosimile, aggirando gli ostacoli frapposti al riguardo dalla cronologia dell'opera dantesca.
Maggiore attenzione di quanta non ne abbiano avuta finora, meritano forse, sempre in Pd XVII, i vv. 89-90, intermedi fra il riconoscimento dei benefici riservati a D. dall'ospite scaligero e la non riferita profezia sul grande destino che attende quest'ultimo: per lui fia trasmutata molta gente, / cambiando condizion ricchi e mendici. In genere, i commentatori intendono che D. si riferisca a un'attività spiegata da C. nel settore della pubblica beneficenza, una specie di estensione sul piano collettivo di quella propensione del signore di Verona per le opere buone, già emersa nel rapporto personale con D.; oppure che questi versi contengano un riferimento a una politica di riforme sociali attuata da C., noto fra l'altro per avere mutato gli ordinamenti della " domus mercatorum ", l'organizzazione veronese delle arti. Ma, sia in un caso che nell'altro, si mostra di non tenere conto del fatto che, in If VII 79-81, la funzione di ‛ permutare ' a tempo li ben vani / di gente in gente e d'uno in altro sangue, / oltre la difension d'i senni umani, è riserbata alla Fortuna, ordinata da Dio general ministra e duce agli splendor mondani, proprio per mettere a nudo la loro caducità. Un accostamento questo che consente di reinserire idealmente l'episodio di C. nel contesto, cui di fatto appartiene, del gruppo di canti (Pd XV, XVI, XVII) " più unitario " di tutta la Commedia. In Pd XVI, " le permutazioni incessanti per ascensioni e cadute, estinzioni e nuovi nascimenti " di famiglie fiorentine (Figurelli) vengono prospettate come il riflesso municipale di una legge che regola tutta la storia umana e messe in conto alla Fortuna, che, nonostante la metafora naturalistica (E come 'l volger del ciel de la luna / cuopre e discuopre i liti sanza posa, / così fa di Fiorenza la Fortuna, vv. 82-84), è sempre, per D., la ministra della Provvidenza. Solo mediante questa difficile e aspra pedagogia, l'amor di cosa che non duri (Pd XV 11), quell'attaccamento al mondo fallace, che molt'anime deturpa (vv. 146-147) ed era la causa prima del disordine e dell'ingiustizia presenti, potevano infatti venire sradicati dal cuore degli uomini. Non è escluso che la diretta constatazione dei numerosi mutamenti di fortune individuali e familiari che la signoria scaligera aveva prodotti, e stava producendo, in Verona, abbia indotto D. ad attribuire a C., nel contesto ideale dei canti di Cacciaguida, il merito di quel rapido e frequente ‛ transmutamento ' di genti che in realtà apparteneva solo alla dinamica sociale messa in moto dal regime signorile.
Bibl. - H. Spangenberg, C. Della S., 2 voll., Berlino 1892-1895; F. Ercole, Comuni e signori nel Veneto (Scaligeri, Caminesi, Carraresi). Saggio storico-giuridico, Venezia 1910; A. Scolari, Il messia dantesco, Bologna 1913; F. Ercole, Le tre fasi del pensiero politico di D., in Il pensiero politico di D., II, Milano 1928, 273-407; F. Maggini, La profezia dell'esilio nel canto XVII del Paradiso, in " Rass. Lett. Ital. " s. 7, LXV (1961) 219-222; A. Pagliaro, D. e la fortuna, in Romania. Scritti offerti a F. Piccolo, Napoli 1962, 337-357 (rist. in Ulisse 161-184); C. Hardie, Cacciaguida's Prophecy in ‛ Paradiso ' 17, in " Traditio " XIV (1963) 267-297; F. Figurelli, I canti di Cacciaguida, in " Cultura e scuola " 13-14 (1965) 634-661; R. Manselli, C. e il mondo ghibellino nell'Italia settentrionale alla venuta di Arrigo VII, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 39-49; G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, ibid. 13-17 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119-141); P.G. Ricci, L'ultima fase del pensiero politico di D. e C. vicario imperiale, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 367-371; si vedano inoltre le letture del XVII canto del Paradiso a c. di I. Del Lungo (Firenze s.d.); C. Grabher, in Lett. dant. 1687-1707; H. Rheinfelder, in " Wissenschaftliche Zeitschrift der Friedrich-Schiller - Universität Jena " V (1955-1956) 353-358; N. Vianello, in Lect. Scaligera III 581-622.