DELLA SCALA, Cansignorio (Canisdominus, Cane; il vero nome era Canfrancesco)
Secondo figlio di Mastino (II), dominus di Verona e Vicenza, e di Taddea da Carrara, nacque il 5 marzo (più probabilmente che il 20 nov.) 1340.
Della sua infanzia ed educazione, stante l'assenza di fonti dirette relative alla corte scaligera, nulla è noto. Egli compare per la prima volta in un atto pubblico il 3 giugno 1351, quando alla morte del padre riceve "in pieno et generali maiori consilio civitatis Verone" l'arbitrium, insieme con i fratelli Paolo Alboino e Cangrande, al quale spettava l'effettivo potere. Negli anni successivi egli visse all'ombra del fratello maggiore, il citato Cangrande (II), che lo condusse con sé nel febbraio 1354, in quel viaggio a Bolzano che dette occasione a Fregnano Della Scala di insignorirsi della città. Non vi sono indizi che, all'epoca, già esistessero frizioni fra i due fratelli: sulla base delle scarne, ma attendibili, informazioni del continuatore del Chronicon Veronense, si può ritenere che il risentimento dell'adolescente D. nei confronti di Cangrande si sia consolidato negli anni successivi, quando l'effettivo dominus prese a favorire scopertamente i propri illegittimi Fregnanino, Tebaldo e Guglielmo. Sta di fatto che il 14 dic. 1359 il D. uccise di sua propria mano Cangrande (II), allontanandosi subito dopo dalla città e riparando a Padova. Ottenuto l'appoggio di Francesco il Vecchio da Carrara, due giorni più tardi rientrò a Verona, con la scorta di truppe padovane e il 17 dicembre il D. e il fratello Paolo Alboino ricevettero l'arbitrium.
L'atto presenta, rispetto agli analoghi del 1329 e del 1351, alcune particolarità interessanti. Come notò già l'Ercole, esso prevedeva, per la prima volta nella storia scaligera, la trasmissione ereditaria dell'autorità signorile; rispetto alla estrema genericità degli arbitria concessi ai predecessori (in questa occasione non ricordati) è, inoltre, assai particolareggiato, elencando minutamente le attribuzioni spettanti ai due domini. È impossibile peraltro dire se questa soluzione adottata dai giurisperiti cittadini è in qualche modo un riflesso delle non troppo tranquille vicende di quei giorni (al momento, Vicenza era ancora in balia degli stipendiarii tedeschi); resta il fatto che questo avvicendamento si realizzò in condizioni ben diverse da quanto era accaduto nel 1351, nel 1329 e in precedenza.
Il D., nei primi mesi del 1360, appare ancora orientato a mantenere buoni rapporti con Bernabò Visconti (nel marzo di quell'anno rifiutò, dietro sua richiesta, di effettuare un prestito di 7.000 ducati a Feltrino Gonzaga, signore di Reggio) e si attirò per questo i rimproveri di Innocenzo VI. Ma in prosieguo di tempo si trovò presto coinvolto, sul piano diplomatico-militare, nella dura lotta in atto fra l'Albornoz e il signore milanese (cognato del D.): coinvolgimento che da parte scaligera va verosimilmente spiegato in funzione antimantovana. Primo segno di questo mutato orientamento fu la stipula (febbraio 1362) del matrimonio della sorella Verde con Niccolò (II) d'Este, da poco succeduto ad Aldobrandino. Con questo atto il D. si collegava apertamente allo schieramento antivisconteo: il che fu poi formalizzato dalla sua adesione alla lega di Ferrara (16 apr. 1362). A queste trattative parteciparono per il D. due dei suoi principali collaboratori politico-militari: Francesco Bevilacqua e Giacomo Cavalli, che comandò poi le truppe veronesi durante le operazioni in Emilia. Ma gli Scaligeri furono impegnati soprattutto nel Bresciano: il D. ottenne un successo militare a Peschiera, e fu in collegamento con famiglie locali di tradizione guelfa, ribelli a Bernabò (Brusati, Poncarale, Lavellongo, Griffi ecc.), che sollevarono contro il Visconti le vallate prealpine e promisero al D. la signoria su Brescia. Fuorusciti bresciani e truppe veronesi giunsero anche ad attaccare la città, e non mancò qualche altro successo in scontri secondari, come a Montichiari. Le relazioni scaligero-viscontee migliorarono peraltro rapidamente; erano forse già tornate allo status precedente nel giugno 1363, quando fu celebrato il matrimonio del D. con Agnese di Durazzo, e le trattative che condussero alla pace di Bologna (marzo 1364) mostrano gli Scaligeri nuovamente legati a Bernabò.
Dopo questo episodio, l'atteggiamento del governo veronese in politica estera sembra improntato alla massima cautela. Lo stesso citato matrimonio del D. con una principessa meridionale non risulta aver avuto un significato politico preciso. Agnese di Durazzo era figlia di Maria d'Angiò e di Carlo III di Durazzo, nipote dunque della regina. In occasione del matrimonio, il D. depositò presso il Comune di Firenze la somma di 56.000 ducati, che rimasero poi, dopo il rientro di Agnese a Napoli alla morte del D. (1375), il suo principale cespite che ella fu costretta a difendere accanitamente contro gli appetiti del re.
L'assenza dallo scenario politico-diplomatico della signoria veronese - che, ad esempio, non fu coinvolta nel 1365 nei contrasti fra Rodolfo d'Austria e il Carrarese - fu anche motivata, nel 1365-66, da una situazione interna non troppo tranquilla. Nel gennaio 1365, infatti, fu scoperto dal D. un tractatus (reale o supposto) ordito contro di lui dal fratello Paolo Alboino che venne, da allora, imprigionato nel castello di Peschiera; ne seguì una energica repressione, che ebbe strascichi ancora nell'anno successivo. L'elenco dei compromessi in questo mal noto episodio, datoci dal continuatore del Chronicon Veronense, sembra escludere il coinvolgimento diretto degli ambienti di governo, almeno ai livelli più elevati.
Al centro dell'interesse del D. e dei suoi collaboratori restò, anche negli anni successivi, il rapporto con Mantova: l'ostilità latente o manifesta con la vicina città era del resto, sin dai tempi di Mastino (II), una costante della politica scaligera. Nel 1367 il D. fu così in contatto con diversi esponenti della famiglia Gonzaga - Corradino (fuoruscito a Verona), Antonio e Francesco - allo scopo di provocare l'avvelenamento di Ludovico. La congiura fallì, Corradino si riconciliò coi parenti e l'intera faccenda fu presentata dalle fonti mantovane come una montatura messa in atto dal D. (dicembre 1367). Forse fu sollecitata dallo Scaligero la conseguente alleanza fra Verona e Milano (inizio 1368); i Gonzaga, dal 1365 in rottura con i Visconti, avevano aderito alla lega antiviscontea di Viterbo del luglio 1367, e gli interessi del D. e di Bernabò (isolato, col solo appoggio scaligero) obiettivamente convergevano. Comandate da Giacomo Cavalli - ma il D. in persona era in Lombardia nell'aprile -, le truppe veronesi attaccarono il territorio mantovano alla sinistra del Mincio (aprile 1368), mentre il Visconti superava il Serraglio mantovano. La situazione si fece difficile per il D. quando l'esercito di Carlo IV (nel maggio 1368 sceso in Italia) e quello mantovano penetrarono nel territorio veronese giungendo ad attaccare direttamente la città (luglio 1368), ciò che da tempo non accadeva. Ma la guerra si concluse rapidamente e con un nulla di fatto, pur non senza strascichi e attriti fra il D. e i Mantovani per l'applicazione delle clausole di pace e la restituzione di alcuni castelli. Nel frattempo il D., che si vide confermato come vicario imperiale, si acconciò comunque a sostenere (anche finanziariamente, con un'erogazione effettuata a Siena dal suo factor Tommaso Pellegrini) il viaggio verso Roma di Carlo IV.
Da allora in poi le scelte politiche del D. furono improntate alla neutralità; negli anni '70 egli non fu mai implicato direttamente nelle guerre contro Bernabò Visconti. Questo atteggianniento fu messo alla prova soprattutto in occasione della guerra del 1372 fra Padova e Venezia.
Con la città lagunare il D. aveva mantenuto quasi costantemente, a quanto risulta, buoni rapporti, sostanziati anche da transazioni commerciali direttamente interessanti il signore veronese (nel 1360, ad esempio, vendette sul mercato veneziano ben 9.600 minali di frumento, in una sola occasione), nonostante che la Repubblica forse già ospitasse (a Venezia e Treviso) i figli di Cangrande (II), e che restasse aperta la questione delle forti somme depositate in favore di costoro presso le Camere del frumento e dei prestiti veneziane: denari che il D. avrebbe voluto recuperare. Non ebbe durature conseguenze la controversia commerciale e daziaria che portò nell'estate 1367 alla messa in discussione - da parte veronese - dei patti vigenti, poi ripristinati nel luglio 1369.
Quando nel 1372 l'aggressiva politica di Francesco il Vecchio da Carrara, alleato con Ludovico d'Ungheria, portò alla guerra fra Padova e Venezia, il D. e Verona furono ovviamente al centro di fitte schermaglie diplomatiche, l'una e l'altra parte desiderando un coinvolgimento diretto, o, comunque, un impegno nella guerra imminente. Il D. invece temporeggiò abilmente, evitando di compromettersi; consentì ai Veneziani di effettuare arruolamenti a Verona e a Vicenza (secondo le fonti padovane avrebbe avuto in cambio di ciò la restituzione delle fortissime somme già depositate da Cangrande II, ben 275.000 ducati a detta di questi cronisti; ma, al più, dovette trattarsi di una restituzione parziale, come provano più tardi i documenti relativi ad uno dei figli di Cangrande) e, più tardi, durante bello, concesse alle truppe venete il passaggio nel territorio vicentino. Presso Ludovico, i legati veronesi promisero sì aiuti, ma anche lamentarono la provocazione del Carrarese (non a caso, forse, proprio nel marzo 1372, il D. aveva iniziato consistenti lavori al castello di Marostica). Nel complesso, la neutralità del D. sembra più favorevolmente orientata verso Venezia, e suscitò le recriminazioni padovane.
Pur nella difficoltà di darne una valutazione compiuta (per la totale assenza di fonti dirette: non restano che i carteggi mantovani, e poche fonti padovane), la politica estera del D. - in sede storiografica tacciata spesso di inerzia e di fiacchezza - va probabilmente rivalutata, proprio perché orientata da una considerazione realistica e prudente del ruolo poltico e strategico del tutto secondario cui era ormai destinato lo Stato scaligero. Ben diverso e più arrischiato sarà, nei decenni successivi, l'atteggiamento dei suoi figli e successori.
Del resto, più che sul piano dell'attività diplomatica e militare, l'operato del D. attende un approfondimento ed una rivalutazione, in ordine all'organizzazione interna dello Stato che, da alcuni indizi sinora emersi, sembra aver compiuto, in questo quindicennio, progressi importanti.
Anche sotto il profilo più strettamente istituzionale vi sono episodi da valutare con attenzione, come l'inusuale, ripetuta (almeno nel 1367 e 1369) convocazione del Consiglio maggiore cittadino, con molte centinaia di presenze, per la discussione e la ratifica di trattati commerciali con Venezia. Ma qui interessa soprattutto ricordare tutta una serie di interventi e di iniziative, che attestano il progressivo assestarsi, in forme meno precarie di quanto non sia documentato per i predecessori, della vita amministrativa sotto il segno di una forte centralizzazione. Secondo una attendibilissima fonte mantovana, già nel 1367 funzionò, ad esempio, attorno al D., un consiglio di governo dalle caratteristiche e dalla composizione abbastanza precisamente definite: a quell'epoca ne facevano parte Francesco Bevilacqua, Giacomo Cavalli, Azzo da Sesso, Antonio Aggrappati, Iachelino "de Lindo" ed Enrico "Valchericher", tutti personaggi la cui collaborazione col D. nell'attività diplomatica e militare ad alto livello è, anche altrimenti, ampiamente attestata. Su di un altro piano, la "fattoria" signorile- forse più a Vicenza che a Verona - sembra inoltre assumere progressivamente un ruolo più definito di coordinamento del settore fiscale, superando la dimensione più strettamente patrimoniale: scompaiono le amministrazioni separate di singoli complessi patrimoniali come quella dei beni già Nogarola, pur restando la differenziazione fra factor generalis e factor super bonis rebellium (almeno a Verona, ma non a Vicenza). Indubbiamente anche per i metodi assai spicciativi che qualche fonte, come il cronista Marzagaia, rimprovera al D., gli introiti della fattoria crebbero notevolmente: il solo fattore super bonis rebellium incassò, nel settembre 1375, una cifra superiore ai 4.000 ducati.
Degna di sottolineatura, per la sua spregiudicata efficacia, è poi la politica ecclesiastica del D.: sin dal 1361 egli si fece concedere in fitto, per 2.000 fiorini al mese, tutti i beni dell'episcopio vicentino; per qualche tempo almeno, il clero curato di questa diocesi ricevette un salario dalla "fattoria" scaligera di Vicenza, che amministrava in toto detto patrimonio. Anche a Verona tutti i diritti decimali furono acquisiti dal dominus (che incorse per questo, forse, anche in una scomunica) ed amministrati dai suoi gastaldi, con una capillare rete di centri di raccolta. I rapporti con la Curia pontificia furono a lungo buoni; dei due vescovi presenti nello Stato scaligero, uno era un fratellastro del D., l'altro (quello vicentino) fu altrettanto se non più docile. Importanti iniziative prese il D. anche in materia di politica economica: è mal nota nelle sue caratteristiche - ma ebbe senza dubbio una funzione di rilievo sul piano del controllo della produzione tessile e su quello del sostegno creditizio a tale attività - l'attività di un fonticum dei panni, a Vicenza come a Verona: "diva eius clementia pecuniam artificibus mutuandam statuit" è costretto ad annotare il Marzagaia, l'acido commentatore degli ultimi decenni scaligeri, che certo non amò eccessivamente il Della Scala. Non meno significativi sono i provvedimenti presi sotto il governo del D. per un più puntuale ed ordinato controllo del distretto. Va infatti fatta risalire al D. l'istituzione nei territori veronese e vicentino del capitaniato, una magistratura che da probabili iniziali mansioni di carattere militare o di ordine pubblico (è attestata nel 1361, durante la guerra con Bernabò Visconti) sembra passare poi a competenze di carattere anche giurisdizionale e più latamente civili.
Sul piano più generale del rapporto con la società cittadina, va poi approfondita l'ipotesi di una "riveronesizzazione" del ceto di governo veronese, sotto il Della Scala. Non è probabilmente casuale la coincidenza del declino e della scomparsa di personaggi assai influenti nei decenni precedenti, spesso di origine non locale, come i fiorentini Pegolotti o da Lisca, con la comparsa e l'affermazione nei ranghi della burocrazia di non pochi homines novi, destinati a carriere assai rapide (Antonio da Legnago, Giacomo dalle Eredità) e a rapide cadute, ma anche - in più significativi casi - a un duraturo inserimento nella classe dirigente cittadina (si fanno strada per la prima volta, nella fattoria di Cansignorio, i capostipiti dei Pompei e dei Montanari, e ricompaiono in posizione di vertice i Pellegrini). A nostro avviso l'entourage di governo del D., che sinora è stato studiato soprattutto in funzione di interessi storico-culturali e letterari, e dipinto - certo non senza fondati motivi - quasi esclusivamente nei toni foschi di un ambiente di corte dominato da sospetti e vendette (e agli episodi sinora noti se ne potrebbero aggiungere altri, come l'uccisione del factor Giacomo a Leone, nel 1366), dovrebbe essere più meditatamente e largamente riesaminato, nell'ottica più ampia del rapporto - che non ci sembra negativo, tutt'altro - con la classe dirigente cittadina nel suo complesso, in funzione del consolidamento delle strutture amministrative dello Stato signorile. E in questo senso va letta anche la non casuale presenza, a corte, di esponenti prestigiosi della classe dirigente vicentina (Piosello Serego, Giampietro Proti, gli stessi Da Sesso) con la quale pure sembrano venirsi istituendo non episodici collegamenti; anche se ciò non impedirà al D., nel 1375, di imporre con l'intimidazione ai maggiorenti vicentini (perterriti, come ricorda il cronista Conforto da Costozza) di riconoscere come signori i propri figli Bartolomeo e Antonio.
L'aspetto più vulgato e celebrato dall'attività di governo del D., la sua dispendiosissima e impegnativa politica edilizia (non solo la ristrutturazione dei palazzi scaligeri di Verona, che più marcatamente assumono col zardinum e le dimore "cum, camaris et ornamentis" l'aspetto di reggia, ma opere civili come la torre delle ore e l'acquedotto cittadino, e il rifacimento in pietra del ponte Navi sull'Adige) va dunque inquadrata nell'ambito più vasto di una riorganizzazione complessiva dello Stato. Del resto, è di per sé significativo il fatto che non pochi di questi lavori pubblici riguardino centri minori del territorio (Soave, Marostica, Riva del Garda) o la città di Vicenza (la cinta muraria, i granai signorili). È da ricordare, infine, che sebbene non si possa parlare in senso astratto di mecenatismo del D., negli ambienti di corte si coltivò non dozzinalmente la letteratura da parte di funzionari e fattori (Gidino da Sommacampagna, Antonio da Legnago), e Altichiero lavorò nei palazzi scaligeri.
Una lunga tradizione storiografica, risalente a quanto sembra al cinquecentista veronese Torello Saraina, vuole che il D. fosse di salute malferma. Morì dopo quindici anni di effettivo governo, a Verona, il 19 ott. 1375, dopo aver fatto uccidere nel castello di Peschiera il fratello Paolo Alboino, ivi detenuto da un decennio. Con ciò il D. toglieva ogni ostacolo alla successione, predisposta per Bartolomeo e Antonio (illegittimi, figli secondo il Saraina di una Margherita Pittati, e nati - almeno Bartolomeo - antecedentemente al matrimonio del D. con Agnese di Durazzo, dalla quale egli non ebbe discendenti). Il suo testamento, redatto il 17 ottobre e giuntoci in una redazione incompleta, ha notevole importanza politica, perché sancisce ufficialmente la posizione dei quattro uomini di corte (legales e fideles al D.) ai quali Bartolomeo ed Antonio devono "credere specialiter et sequi consilium"; fra essi figurano Guglielmo Bevilacqua e due dei burocrati recentemente affermatisi, Antonio da Legnago e Giacomo dalle Eredità. Il D., che fu sepolto nella splendida arca marmorea eretta da Bonino da Campione, lasciò oltre ai due citati figli, una figlia naturale, Lucia.
I cronisti contemporanei, informati soprattutto dei due fraticidi, danno del D. giudizi negativi. Dei due più importanti testimoni locali, tuttavia, il vicentino Conforto da Costozza gli è favorevolissimo; e quanto al veronese Marzagaia, che pure non gli risparmia certo aspre accuse, è da dire che il suo giudizio è meno univoco di quanto non si ritenga: negli Opuscula lo dice "eximia maiestate verendus" (eccezion fatta per i fratricidi) e ne loda varie iniziative; i successori gli furono in ogni caso impares.
Fonti e Bibl.: Resta inedita ancora molta documentazione, relativa all'attività di governo del D. nel suo complesso, negli archivi veronesi e vicentini (si segnala per es., Vicenza, Bibl. civica Bertoliana, Archivio Torre, b. 777, passim; si tratta di un registro di deliberazioni pertinente al Comune di Vicenza, trascritto in età viscontea; inoltre ibid., bb. 37, 38, 39, 48). Anche archivi familiari potranno fornire dati preziosi (si vedano per es., i frammentari rendiconti della fattoria signorile Castion Veronese, Archivio Pellegrini, b. I). Sul piano più strettamente politico diplomatico, qualche informazione potrà forse ancora venire dalla corrispondenza gonzaghesca (e cfr. anche Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 3451), ma il più è ormai noto. Parisii de Cereta ChroniconVeronense ..., in L. A. Muratori, Rerum. Ital. Scriptores, VIII,Mediolani 1726, coll. 652 s., 656-60; Chronicon Estense, ibid., XV,ibid. 1729, coll. 486, 491, 497, 499; S. et P. de Gazata, Chronicon Regiense, ibid., XVIII,ibid. 1731, col. 84; I. de Mussis, Chronicon Placentinum, ibid., XVI,ibid. 1730, coll. 506 s., 509; Annales Mediolanenses, ibid., col. 758; B. della Pugliola, Historia Miscella Bononiensis, ibid., XVIII,ibid. 1731, coll. 450, 469, 474, 477, 496 s.; Conforto Da Costoza, Frammenti di storia vicentina (aa. 1371-87), in Rerum Ital. Script., 2 ed., XIII, 1, a cura di C. Steiner, pp. 4, 6, 9 s., 15 s.; G. e B. Gatari, Cronaca Carrarese (1318-1407), ibid., XVII, 1, a cura di A. Medin-G. Tolomei, pp. 47, 69 s., 121, 140; P. Azarii Liber gestorum in Lombardia, ibid., XVI,4, a cura di F. Cognasso, pp. 141, 171 ss.; Gesta Domus Carrariensis, ibid., XVII, 1, App. V. 2 a cura di R. Cessi, pp. 21 s., 44-48, 51, 65, 96 ss. 101 s., 107, 110 s., 114, 117, 119, 127 s., 130, 132, 144; P. Zagata, Cronica della città di Verona, a cura di G.B. Biancolini, I, Verona 1745, pp. 81, 93-98; II, 1, ibid. 1747, p. 1; G.B. Biancolini, Notizie storiche delle chiese di Verona, II,Verona 1750, pp. 423-26; VIII, ibid. 1771, p. 307; Id., Serie cronologica dei vescovi e governatori di Verona, Verona 1760, pp. 117-20; Cronaca inedita de' tempi degli Scaligeri...,a cura di G. G. Orti Manara, Verona 1842, pp. 17 ss.; M. Villani, Croniche, Trieste 1857, pp. 308, 370; Capitoli del Comune di Firenze. Inventario e regesti, a cura di C. Guasti, I, Firenze 1866, pp. 363-70; J. Boehmer-A. Huber, Die Regesten des Kaiserreichs unter Kaiser Karl IV. ...,Innsbruck 1874-75, pp. 381 ss., 385 ss.; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, II, Venezia 1878, pp. 219, 312, 322, 335; III, ibid. 1883, p. 106; Antiche cronache veronesi, a cura di C. Cipolla, Venezia 1890, p. XXIII e ad Indicem; Poesie minori riguardanti gli Scaligeri, a cura di C. Cipolla-F. 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