Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La definitiva affermazione del sistema impresariale caratterizza il teatro d’opera settecentesco, condizionandone forme, contenuti e modi di produzione. Per tutto il secolo protagonisti assoluti dell’opera in musica sono i virtuosi del canto.
La gestione dei teatri d’opera e il ruolo dell’impresario
Nel corso del Settecento la gestione impresariale dei teatri d’opera, affermatasi a Venezia intorno alla metà del secolo precedente, si diffonde in tutti gli Stati italiani ed europei, imponendosi sul mecenatismo principesco che non regge alla concorrenza. Il principe può prestare il suo sostegno economico all’attività teatrale e la sua influenza può ancora farsi sentire nella scelta dei soggetti da mettere in scena o nella preferenza accordata a un artista piuttosto che a un altro, ma il sistema produttivo è pubblico e l’accesso al teatro è consentito a chiunque sia in grado di affittare un palco o di pagare il biglietto d’ingresso. L’apertura dei teatri di corte a un pubblico più ampio e la fondazione dei primi teatri di proprietà comunale in Italia e in Germania (come avviene, fra le prime città, a Bologna e ad Amburgo) spianano velocemente la strada all’attività degli impresari.
Il pubblico pagante è l’elemento essenziale nell’economia dell’opera impresariale: quando questa cessa di essere emanazione di un potere assoluto, è il pubblico che decreta la maggiore o minore fortuna di un allestimento ed è ancora il pubblico che influisce su forme e contenuti del prodotto artistico. L’opera impresariale, tuttavia, non rinnega le proprie origini cortesi; al contrario le sfrutta a fini pubblicitari: continua ad adottare soggetti eroico-mitologici, cerca – per quanto le è possibile – di conservare lo sfarzo e le scenografie spettacolari dell’opera di corte, enfatizza il virtuosismo canoro e si attiene all’ideologia delle classi dominanti.
L’affermazione di un sistema produttivo di natura impresariale attraversa fasi intermedie: sono dapprima le compagnie itineranti, costituitesi sul modello delle troupes degli attori della commedia dell’arte, a svolgere una funzione d’impresariato collettivo. Queste compagnie offrono spettacoli d’opera già pronti in ogni loro componente e necessitano solo del teatro o dei locali in cui allestire le loro rappresentazioni; a volte vengono ingaggiate direttamente dal proprietario del teatro che resta padrone dell’incasso, come nel caso delle famiglie patrizie di Venezia e Genova, che dalla gestione dei teatri cittadini ricavano lustro e profitti. La politica culturale filoitaliana delle corti europee – fra le quali spiccano quelle di Vienna e Dresda – aiuta la diffusione capillare del sistema: le corti assumono stabilmente artisti italiani, oppure si rivolgono a troupes itineranti condotte da un impresario.
Nel corso del secolo s’afferma anche un altro modello gestionale: il teatro di società, del quale è proprietario un gruppo di cittadini, spesso riuniti in un’accademia che dall’attività del teatro ricavano, più che un profitto, divertimento e prestigio sociale. Dell’opera di corte il teatro societario adotta l’impostazione culturale (il fine dell’attività teatrale non è il puro e semplice guadagno), mentre dell’opera mercenaria adotta il sistema economico e amministrativo che richiede la mediazione di un impresario. Una società di cittadini è proprietaria di un teatro e affida a un appaltatore l’organizzazione della stagione d’opera: è questo il classico metodo gestionale di molte città nel XVIII secolo.
Il teatro impresariale invece mira direttamente al profitto economico. L’impresario agisce in proprio oppure organizza e dirige gli spettacoli d’opera, facendo da intermediario tra una corte, o una società di cittadini, e gli operatori del mondo teatrale. A volte si associa con altri impresari, dividendo con essi oneri e profitti; più spesso agisce singolarmente. Può provenire tanto dalla nobiltà quanto dalla borghesia cittadina; viene spesso dal mondo teatrale, nel quale esercita – o ha esercitato – l’attività di scenografo, compositore, cantante.
Ottenuto l’appalto di un teatro per una o più stagioni, l’impresario ingaggia i migliori cantanti disponibili sulla piazza che costituiranno la principale attrattiva dello spettacolo. Lo stesso impresario incarica poi il poeta, che spesso è un collaboratore stabile del teatro, di stendere il libretto del dramma e infine commissiona la partitura al compositore, che lavora basandosi sulle caratteristiche della compagnia di canto scritturata. Prima che inizi la stagione l’impresario affitta i palchi, ricavandone il capitale necessario a coprire le prime spese dell’allestimento; vende poi i biglietti d’ingresso alle singole recite e ricava altri proventi dal gioco d’azzardo, del quale ottiene spesso la gestione diretta. Il gioco d’azzardo, tuttavia, segue alterne vicende: in certi periodi e in certi Stati è osteggiato o proibito dalle autorità.
L’attività dell’impresario è esposta a numerosi rischi: la complessa macchina teatrale può creare problemi in ogni momento, dai capricci dei cantanti ai ritardi delle maestranze, dall’insolvenza dei debitori alle interruzioni degli spettacoli per cause di forza maggiore; gli introiti, inoltre, non sono mai esattamente quantificabili in anticipo, poiché dipendono in larga misura dal successo delle rappresentazioni. L’immagine oleografica dell’impresario sempre sull’orlo della bancarotta, o in fuga inseguito dai debitori, non può tuttavia far dimenticare che l’attività non è priva di allettanti prospettive economiche.
Per ridurre i costi, l’impresario cerca di riutilizzare le attrezzature sceniche e le partiture facendo circolare il più possibile gli spettacoli di maggior successo.
Si spiegano così la capillare diffusione e la regolarità delle stagioni d’opera sia nei centri italiani sia in molti Stati europei del Settecento: subito dopo l’allestimento in una capitale lo spettacolo emigra nelle città della provincia, raggiungendo in breve tempo anche i centri minori.
La circolazione degli spettacoli è poi facilitata dalla nozione dell’utilità civile e culturale del teatro d’opera, la cui frequentazione nel corso del secolo diviene una diffusa esigenza e una consuetudine urbana. L’impresario, di conseguenza, s’identifica sempre meno nella figura dello speculatore e sempre più in quella del professionista che fa da intermediario fra i proprietari del teatro, da una parte, e gli artisti e le maestranze in grado di allestire uno spettacolo d’opera, dall’altra. Sull’attività dei teatri esercitano un rigido controllo le autorità governative che producono una legislazione precisa in materia, sorvegliandone anche il lato economico; è frequente il caso in cui le autorità esigano dall’impresario una cauzione, nell’intento di tutelarsi da speculatori e avventurieri.
Fra i modelli gestionali alternativi, rilevante è il caso inglese. Intorno al 1717 l’alta società londinese, intenzionata a rimediare alla precarietà delle attività impresariali, fonda e finanzia una società – la Royal Academy of Music – cui partecipa anche il re Giorgio I e nel cui consiglio direttivo siedono 22 membri dell’aristocrazia e del ceto abbiente. Georg Friedrich Händel è nominato master of orchestra e in quanto tale ha la responsabilità artistica degli spettacoli allestiti prima all’Haymarket, poi al Covent Garden.
Per la nuova impresa, Händel coniuga l’attività di compositore con quella di impresario: scrive e allestisce opere e si reca più volte in Germania e in Italia per scritturare musicisti e cantanti. A partire dal 1733, con una decisione innovativa, Händel inserisce oratori nelle stagioni d’opera ed esegue concerti per organo negli intermezzi. Nel volgere di pochi anni è però coinvolto in una pesante crisi finanziaria, acuita dalla concorrenza di un’altra impresa d’opera italiana a Londra, l’Opera della Nobiltà diretta da Nicola Porpora: anche in questo sistema, infatti, il successo dipende dal mutevole favore dell’aristocrazia, la sola classe in grado di pagare gli onerosi abbonamenti alle stagioni d’opera.
L’età d’oro dei virtuosi del canto
Determinante, per il successo di uno spettacolo d’opera, è la prestazione dei cantanti che costituiscono senza ombra di dubbio l’elemento di maggior richiamo, oltre che l’onere maggiore per l’impresario: è intorno al cantante che ruota tutto lo spettacolo ed è sulle sue caratteristiche vocali che vengono modellate le partiture. Non è raro il caso che gli atteggiamenti divistici di un virtuoso si spingano fino a snaturare il dramma messo in musica. Frequente, ad esempio, è il caso di trasmigrazione di un’aria da un’opera all’altra, indipendentemente dalla sua plausibilità drammatica: ogni cantante si porta appresso un certo numero di arie “di baule” buone per ogni occasione e le intona ogni volta che desideri far colpo sul pubblico o voglia sostituire arie che non gradisce. La figura del compositore è decisamente subordinata a quella del cantante; solo nella seconda metà del secolo crescono il suo ruolo nel meccanismo dello spettacolo e la sua importanza ai fini del successo delle rappresentazioni; aumentano, di conseguenza, anche il potere contrattuale e il prestigio del compositore che diviene sempre meno un oscuro prestatore d’opera e sempre più l’autore di un prodotto artistico individualmente connotato. Il processo va di pari passo con la più lunga circolazione di alcune partiture teatrali e lo si osserva prima nel genere dell’opera buffa che in quello dell’opera seria.
Il cantante si affranca gradualmente dall’antica condizione di musicista di corte, man mano che si afferma una produzione operistica basata su un sistema continuativo. Già alla fine del Seicento l’espansione del mercato e l’instaurarsi della consuetudine alla frequentazione teatrale permettono ai cantanti di accrescere la propria mobilità e indipendenza: sono poste così le premesse del vistoso fenomeno settecentesco dei virtuosi.
Nel sistema del teatro d’opera Bologna assume sempre più il ruolo di principale centro per lo smistamento dei cantanti attivi nella penisola e artisti provenienti da tutta Italia nella città fissano la propria residenza. Bologna diventa il maggiore centro d’ingaggio per i professionisti del teatro musicale e manterrà questo ruolo fino all’Ottocento inoltrato.
Un grado crescente di specializzazione investe la figura del cantante d’opera settecentesco. Emerge, in particolare, la figura del “buffo”, che canta dapprima negli intermezzi e poi nelle opere comiche; gli sono richieste doti di attore, una recitazione spigliata e una buona padronanza dell’arte scenica. Le prime figure tipiche di cantanti buffi sono le coppie stabili e itineranti che interpretano gli intermezzi; in seguito la specializzazione si fa ancora più marcata, giungendo a investire ruoli fissi del repertorio. Col progredire del secolo i cantanti buffi aumentano di numero e d’importanza, mentre la fortuna dei castrati, verso la fine del Settecento, volge al declino.
Tra personaggio che agisce sulla scena e registro vocale del cantante che lo interpreta non esiste un rapporto univoco: le parti maschili possono essere affidate a uomini o a donne e quelle femminili a donne o a castrati. Questi ultimi interpretano, di norma, le parti del giovane amoroso o dell’eroe. Le donne, specie se mezzosoprani o contralti, cantano di frequente in abiti maschili. I personaggi autorevoli o anziani sono interpretati dalle voci maschili gravi. Al tenore è riservato, in genere, il ruolo dell’antagonista, del consigliere o del traditore.
Le manie, il divismo, i capricci dei virtuosi di canto settecenteschi riempiono una vastissima letteratura e iniziano presto ad attirarsi gli strali della critica: a partire da Ludovico Antonio Muratori (Della perfetta poesia italiana, 1706), voci autorevoli lamentano che la fattura del dramma sia influenzata dalle pretese dei cantanti, che la recitazione lasci a desiderare, che l’azione scenica venga trascurata. Il giudizio negativo dei letterati finisce per colpire tutta la classe professionale e, di riflesso, l’intero prodotto dell’opera in musica.
L’estrazione sociale dei virtuosi di canto, quasi sempre umile, è ancora più bassa nel caso dei castrati. Con l’evirazione di un fanciullo molte famiglie indigenti credono infatti di assicurarsi, grazie alla carriera del figlio, i mezzi di sostentamento economico; la fortuna, peraltro, arride solo a pochissimi.
La formazione dei cantanti di teatro può avvenire nell’ambito dei conservatori (prestigiosi quelli napoletani e quelli femminili di Venezia), ma più frequentemente è frutto dell’insegnamento privato. Gli allievi coabitano col maestro per un certo numero di mesi o di anni; a volte lo ripagano impegnandosi a versargli, per un periodo variabile, parte dei loro proventi futuri. L’apprendistato è di natura artigianale: i precetti sono trasmessi oralmente e i segreti dell’arte canora vengono custoditi gelosamente. L’impegno, piuttosto gravoso, è a tempo pieno; la formazione del cantante comprende anche la pratica strumentale (in genere al clavicembalo), la composizione, lo studio delle lettere e della teoria musicale.
Pierfrancesco Tosi, con le Opinioni de’ cantori antichi e moderni (1723), e Giambattista Mancini, con le Riflessioni pratiche sopra il canto figurato (1774), sono i maggiori teorici dell’arte vocale settecentesca, della quale testimoniano l’alto grado di perfezione. Il secondo, che appartiene a un’epoca in cui il successo dei virtuosi del canto è assolutamente incontrastato, tratta in dettaglio della tecnica d’agilità, fondata sull’omogeneità timbrica, l’emissione leggera e priva di forzature, la capacità di vocalizzare in velocità. La scuola fondata su questi precetti, che si identifica con la scuola italiana, è il punto di riferimento per tutta l’Europa: i maestri italiani sono ricercati all’estero e detengono ovunque il monopolio della didattica del canto.
Pier Francesco Tosi
I tre aspetti del Recitativo
Opinione de’ cantori antichi e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato
Il Recitativo è di tre sorte, e in tre maniere diverse il Maestro lo deve insegnare allo Scolaro.
Il primo essendo Ecclesiastico è di ragione, che si canti adatto alla Santità del luogo, che non ammette scherzi vaghi di stile indecente, ma richiede qualche messa di voce, molte appoggiature e una continua nobiltà sostenuta.
L’arte poi colla quale esprimesi, non s’impara, che dallo studio mellifluo di chi pensa di parlare a Dio.
Il secondo è Teatrale, che per essere inseparabilmente accompagnato dall’azione del Cantante obbliga il Maestro d’istruir lo Scolaro di una certa imitazione naturale, che non può esser bella se non è rappresentata con quel decoro col quale parlano i Principî, e quegli che a’ Principî fanno parlare.
L’ultimo, a giudizio di chi intende, si ascolta più degli altri al cuore, e chiamasi Recitativo da Camera. Questo esige e quasi sempre un particolar artifizio a cagion delle parole, le quali essendo dirette (poco men che tutte) allo sfogo delle passioni più violenti dell’animo, impegnano l’Istruttore di far imparare al suo Allievo quel vivo interesse, che arriva a far credere che un Cantante le sente.
Uscito poi che sia lo Scolaro dagli ammaestramenti, sarà purtroppo facile, che non abbia bisogno di quella lezione. Il diletto immenso, che i Professori ne traggono deriva dalle cognizioni che hanno di quell’arte, che senza l’aiuto de’ soliti ornamenti produce da sè tutto il piacere; E vaglia ’l vero, dove parla la passione, i Trilli, e i Passaggi devon tacere lasciando che la sola forza d’una bella espressiva persuada col canto.
Il Recitativo Ecclesiastico concede a’ Vocalisti più libertà degli altri due, e gli esime dal rigor del Tempo, massimamente nelle cadenze finali, purché se ne prevalgano da Cantanti e non da Violinisti.
Il Teatrale toglie ogni arbitrio all’artificio per non offendere ne’ suoi diritti la narrativa naturale, quando però non fosse composto in qualche Soliloquio all’uso di Camera.
Il terzo rifiuta una gran parte dell’autorità del primo, e si contenta d’averne più del secondo.
Sono senza numero i difetti, e gli abusi insoffribili, che nel Recitativo si fanno sentire, e non conoscere da chi li commette. Procurerò di notarne diversi Teatrali, acciò il Maestro possa emendarli.
V’è chi canta il Recitativo della Scena, come quello della Chiesa, o della Camera: V’è una perpetua Cantilena che uccide: V’è chi per troppo interessarsi abbaia: V’è chi lo dice in segreto e chi confuso: V’è chi sforza l’ultime sillabe e chi le tace: Chi lo canta svogliato, e chi astratto: Chi non l’intende, e chi nol fa intendere: Chi lo mendica, e chi lo sprezza. Chi lo dice melenso e chi lo divora: Chi lo canta fra denti e chi affettato; Chi non lo pronunzia, e chi non lo esprime; Chi lo ride e chi lo piange; Chi lo parla e chi lo fischia. V’è chi stride, chi urla, e chi stuona. E cogli errori di chi s’allontana al naturale, v’è quel massimo di non pensare all’obbligo della correzione.
Con troppa nociva negligenza trascurano i moderni Maestri l’istruzione di tutti i Recitativi a’ loro Scolari, poiché in oggi lo studio dell’espressiva, o non è considerata come necessario, o è vilipeso come antico. E pur dovrebbero giornalmente avvedersi, che oltre all’obbligo indispensabile di saperli cantare, son quelli che insegnano di recitare; Se nol credessero, basta che osservino senza lusinghe dell’amor proprio, se fra loro Allievi vi sia alcuno Attore, che meriti gli encomi di Cortona nell’amoroso, del sig. Baron Ballerini nel fiero, e d’altri famosi nell’agire, che presentemente operano, che è l’unico motivo per cui in queste mie Osservazioni ho costantemente determinato di non nominare alcuno in qualsivoglia perfetto grado della Professione, e di stimarli quanto meritano, e quanto devo.
Chi non sa insegnare il recitativo probabilmente non intende le parole, e chi non ne capisce il senso, come può mai istruir lo Scolaro di quella espressione, che è l’anima del Canto, e senza la quale non è possibile di cantar bene?
Signori Maestri deboli, che dirigete i principianti senza riflettere all’ultimo esterminio in cui mettete la Musica coll’indebolirgli i principali fondamenti, se non sapete che i Recitativi particolarmente vulgari, vogliono quegli insegnamenti. che alla forza delle parole convengonsi, vi consiglierei di rinunziare il nome, e l’uffizio di Maestri a chi può sostenere, e l’uno, e l’altro in vantaggio de’ Professori e della Professione;
Altramente i vostri Scolari sacrificati all’ignoranza non potendo discernerne l’allegro dal patetico, né il concitato dal tenero, non è poi da maravigliarsi se li vedete Stupiti in Iscena, ed Insensati in Camera. A dirla come l’intendo, non è perdonabile la vostra, né la lora colpa, or che non è più soffribile il tormento di sentire in Teatro i Recitativi cantati sul gusto Corale de’ Padri Capuccini.
La cagione però del non esprimersi più il Recitativo all’uso de’ nominati Antichi non sempre procede dalla insufficienza de’ Maestri, né dalla trascuraggine de’ Cantanti ma dalla poca intelligenza di certi Compositori Moderni, i quali (a riserva de’ meritevoli) li concepiscono così privi di naturale, e di gusto, che non si possono né insegnare né agire, né Cantare.
P.F. Tosi, Opinione de’ cantori antichi e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, 1723, 1723