GABRIELLI, Cante
Appartenente a una delle più importanti famiglie nobili di Gubbio, nacque nella città umbra poco oltre la metà del secolo XIII da Pietro (o Petruccio) di Gabriello, padre anche di Bino e Rosso. Fra i capi del partito guelfo della sua città, fu una delle figure dominanti nelle vicende politiche di Gubbio e dell'intero territorio circostante, comprendente anche parti della Marca d'Ancona. Fra gli incarichi pubblici di cui fu investito, che compresero anche numerose nomine come ufficiale forestiero in Comuni dell'Umbria, delle Marche e della Toscana, uno dei primi fu certamente l'ufficio di capitano del Popolo di Roccacontrada (oggi Arcevia) nel 1288. Nel 1290 era podestà di Pistoia, all'epoca delle prime lotte cittadine fra le "parti" (allora solo pistoiesi) dei bianchi e dei neri. Nel tentativo di mettere pace fra le fazioni si rivolse ai Fiorentini che avrebbero inviato a Pistoia due priori a tentare di comporre le discordie. Nel settembre 1297 venne nominato podestà di Firenze in secondo luogo, senza quindi ricoprire l'ufficio. Durante il primo semestre del 1298 fu invece podestà di Siena. L'8 marzo 1298 fu nominato podestà di Firenze per sei mesi, e ricoprì la carica nel secondo semestre, iniziando l'ufficio il 1° luglio.
Già almeno dal dicembre 1296 era scoppiata in Firenze la tensione fra le fazioni che facevano capo ai Cerchi e ai Donati, e che portò in seguito (primavera 1300) alla divisione della città, sul modello pistoiese, nelle due parti dei bianchi e dei neri. Secondo il Davidsohn già nel momento in cui furono chiamati a svolgere il loro compito, sia il G. sia il suo successore Monfiorito da Coderta (che nel novembre del 1298 furono insieme, in rappresentanza di Firenze, pacieri fra il Comune di Bologna e gli Estensi in lotta per il controllo del territorio emiliano) erano nient'altro che "organi di Parte Guelfa e strumenti di Corso Donati" (Storia di Firenze, IV, p. 75). Lo storico tedesco afferma che il G. procedette a un uso partigiano della sua autorità fin dall'inizio, ricorrendo a torture nei confronti degli accusati che avrebbero potuto anche essere evitate; si tratta tuttavia di un'affermazione che, orientata da testimonianze cronistiche molto connotate, rimane da dimostrare su base documentaria. L'episodio citato dal Davidsohn per suffragare la sua affermazione è relativo alla condanna a morte da parte del G. di Neri di Gherardino Diodati, figlio di un vicino di Dante, appartenente a una famiglia che si sarebbe schierata con i bianchi, ma non è in sé sufficiente per dire che nel figlio si volesse colpire politicamente il padre: il reato contestatogli, infatti, omicidio premeditato del cugino a scopo di rapina, era tale da giustificare la condanna nel caso che gli addebiti fossero comprovati. Dato che il Diodati (il quale in quella occasione riuscì a sottrarsi alla condanna con la fuga) tre anni dopo fu amnistiato, e che i fratelli dell'ucciso, riconciliandosi con lui, ammisero la sua non colpevolezza, il Davidsohn suppone che il G. abbia irrogato consapevolmente a fini politici una condanna ingiusta: ma questa rimane solo un'ipotesi.
Il 29 dic. 1298 in Firenze il G., come podestà uscente, prese parte insieme con il suo successore alla cerimonia per la solenne conferma della mediazione di pace svolta dai Fiorentini nelle discordie che opponevano Azzo (VIII) e Francesco d'Este ai Bolognesi. Il 14 genn. 1299 faceva quietanza di ogni debito che il Comune di Firenze potesse avere nei suoi confronti e se ne tornava a Gubbio.
Nel 1299 fu podestà di Fossombrone e in questa veste convocò i rappresentanti di Cagli e Fossombrone per risolvere alcune questioni riguardanti i confini e l'assetto dei contadi di queste Comunità.
In quegli anni le tensioni e le lotte fra guelfi e ghibellini erano diffuse in gran parte d'Italia. Quando Gubbio, allora una delle roccaforti del potere guelfo, venne presa il 23 maggio del 1300 dai ghibellini toscani e marchigiani guidati da Uguccione Della Faggiuola, il G., uno dei capi dei guelfi cacciati da Gubbio, si recò subito a Roma a chiedere soccorsi e con il cardinale Napoleone Orsini, nominato dal papa legato nei territori della Chiesa minacciati, mise a punto un piano per riprendere la città. In occasione della festa di S. Giovanni, un mese dopo la resa di Gubbio, affluirono in città gruppi di sedicenti pellegrini, che in realtà erano inviati del Gabrielli. Il 24 giugno essi insorsero in armi e aprirono le porte perché truppe guelfe potessero irrompere in città: in questo modo Gubbio venne ripresa. L'influenza del G. nella città umbra era a questo punto tale che egli poteva esserne considerato, insieme con i fratelli, signore di fatto (Franceschini, p. 372).
È di poco tempo più tardi (settembre 1300) la scomunica lanciata su Firenze da Bonifacio VIII, e la chiamata da parte di questo di Carlo di Valois. Carlo arrivò in Italia nell'estate del 1301, e dopo essersi stabilito a Siena, fu incaricato nel settembre da Bonifacio di fare da paciere in Toscana fra i bianchi, allora al potere a Firenze, e i neri.
Il 1° nov. 1301 Carlo di Valois entrò in Firenze. Al suo seguito, alla testa dei cavalieri senesi che lo accompagnavano, si trovava anche il Gabrielli. Dopo che Carlo ebbe ottenuto i pieni poteri per concludere la pace il 6 novembre, e dopo l'irruzione in città di Corso Donati, che avrebbe contribuito a rovesciare il governo della fazione dei bianchi, i magistrati e i Consigli fiorentini affidarono la nomina del supremo magistrato di Firenze al Valois, che a sua volta, il 9 novembre, affidò l'incarico di podestà al G., come persona sulla quale i guelfi potevano fare maggiore affidamento. La carica era destinata a durare fino al 30 giugno 1302, e per il modo in cui venne conferita la nomina fu abbastanza eccezionale. Anzitutto, anziché attendere l'inizio del nuovo anno, l'ufficio cominciava fino dal momento della nomina, il 9 novembre; inoltre il G. riceveva l'incarico dopo soli tre anni dal precedente, fatto insolito anche se forse non era ancora stato stabilito - come invece sarà contemplato negli statuti del 1325 - il divieto di ricoprire lo stesso ufficio prima che fossero trascorsi dieci anni dal precedente.
Il G. era quindi podestà di Firenze quando fu mossa a Dante Alighieri e ad altri fiorentini di parte bianca l'accusa di "baratteria", per aver operato brogli nelle elezioni della Signoria dal dicembre del 1299 in poi allo scopo di favorire la loro fazione. Fu quindi il G. a emanare le due famose condanne contro l'Alighieri: quella del 27 gennaio, e quella del 10 marzo 1302, con la quale il poeta fu condannato al rogo in contumacia per non essersi presentato dopo la prima condanna, nonché alla distruzione delle case. Come è noto, per Dante la condanna significò l'inizio dell'esilio che lo avrebbe portato pellegrino per l'Italia fino alla sua morte nel 1321.
Se la collocazione di parte del G. è certa, più discusso è il giudizio sul suo operato come giudice. La tradizione storiografica corrente ha fino a tempi recenti teso a stigmatizzare l'azione del G., responsabile di avere segnato irrevocabilmente il destino del poeta, e gli ha attribuito comportamenti non solo di estrema parzialità, ma illegittimi. In effetti, alla luce della situazione e dei fatti di quegli anni, e del quadro in cui si trovò a operare, il giudizio sul G. va parzialmente ridimensionato, almeno dal punto di vista della legittimità delle sue azioni. Lo stesso Dino Compagni riconosce che "riparò a molti mali e accuse fatte" anche se "molte ne consentì" (Cronica, p. 98). Certo i provvedimenti da lui presi furono estremamente severi, come potevano però esserlo nel modo consentito dal diritto allora in vigore in una situazione di conflitto civile.
Quando il 4 apr. 1302 Carlo di Valois emanò una sentenza contro i bianchi presunti congiurati contro di lui (Baschiera Tosinghi, Baldinaccio Adimari, Naldo Gherardini), in cui li condannava alla confisca dei beni, il G., il giorno successivo, inasprì la sentenza comminando loro la pena di morte. Le condanne capitali si susseguirono di continuo anche dopo: il G. ne emanò, secondo i calcoli del Davidsohn (Storia di Firenze, IV, p. 293), 170, fra le quali sembra aver prediletto la condanna al rogo. Anche il suo successore, il podestà Gherardo da Gambara, tuttavia, fu tutt'altro che clemente, e anzi comminò un numero di condanne assai maggiore: oltre il doppio (389 per l'esattezza).
In definitiva, si può certo dire che il comportamento del G. corrispose alle aspettative del regime in quel momento al potere a Firenze, e in questo senso i provvedimenti da lui emanati ebbero un preciso carattere politico, di repressione anche feroce nei confronti dell'avversario battuto. Tuttavia, stanti le accuse e lo svolgimento dei processi, sarebbe difficile imputare a quei provvedimenti caratteristiche di irregolarità formale o di illegalità in senso assoluto, dalle quali infatti il G. è stato sostanzialmente assolto dagli studi più recenti.
Fra il 14 maggio e il giugno 1302 il G., come podestà, si trovò a guidare anche le truppe che furono utilizzate da Firenze contro Pistoia, allora occupata dai bianchi. Anche se il 7 giugno le truppe operanti per Firenze riportarono una vittoria contro gli sbanditi bianchi presenti nel Valdarno di sopra, la situazione in quella zona era rimasta piuttosto critica, e il 14 giugno il G. fu costretto ad accorrere con le sue truppe da Pistoia, dove si trovava in quel momento, nel Valdarno, dove in seguito i Fiorentini riuscirono a prendere con l'inganno il castello di Piantravigne occupato dai bianchi.
Lasciato l'ufficio fiorentino, il G. ritornò in Umbria.
Secondo Compagni (Cronica, p. 147) nel luglio 1304, dopo il fallito tentativo dei bianchi di riprendere Firenze, guidato da Baschiera Tosinghi, fu diffusa ad arte la voce secondo la quale Corso Donati e il G. avevano preso Arezzo per tradimento, probabilmente allo scopo di fuorviare gli stessi fuorusciti o gli Aretini che allora li sostenevano.
Nel febbraio 1305 il G. figura podestà e allo stesso tempo capitano del Popolo di Roccacontrada dove esercitò l'ufficio attraverso un vicario. Nella prima metà del 1306 era invece podestà di Cagli. Il 2 gennaio di quell'anno un suo messaggio riguardante la guerra contro i Pisani fu trasmesso dai Fiorentini ai Sangimignanesi, mentre l'11 gennaio il G. e il figlio, o nipote, Filippuzzo, come podestà, nominavano un sindaco e procuratore per rappresentare il Comune di Cagli al parlamento di Montolmo.
Sempre secondo la Cronica del Compagni (p. 152), il G. sarebbe stato nominato capitano di guerra dei Fiorentini all'inizio del 1306, dopo che il papa aveva ordinato a Roberto d'Angiò di togliere l'assedio a Pistoia. Si tratta tuttavia di un errore del Compagni, che scambiò con il G. suo fratello Bino, allora podestà di Firenze, come ha dimostrato il Del Lungo (1879, II, p. 311).
Nell'aprile 1306 il G. riceveva in Gubbio la nomina a podestà di Roccacontrada, di cui risultava in giugno podestà e capitano allo stesso tempo, operando tramite un vicario. Nel maggio di quello stesso anno, fu di nuovo nominato podestà di Firenze per il secondo semestre e iniziò l'ufficio, con amplissimi poteri, nel mese di luglio, succedendo a suo fratello Bino, che aveva tenuto la stessa carica nel primo semestre.
Nel frattempo, il 7 sett. 1306, il vicario del rettore della Marca Gerardo de Tassis, revocava al G. la carica di podestà e capitano di Roccacontrada in quanto reo di ribellione nei confronti della Chiesa per essersi rifiutato di restituire Fossombrone e Cagli occupate illegalmente insieme con il fratello Bino, ma anche per illegalità formali, per aver ricoperto l'incarico di podestà per più di un anno. Nel 1307 il G. figura come estensore di un secondo elenco di ghibellini proscritti (il primo era del 1300) con la qualifica di "difensore" del Comune e del Popolo di Gubbio.
Nel 1312 fu di nuovo censurato per non avere ottemperato del tutto ai voleri del pontefice, ma venne di nuovo assolto dal rettore della Marca Raimondo di Attone di Spello.
Il 13 marzo 1314 il G. nominava, insieme con il fratello Bino e il nipote Filippo, un procuratore per trattare con il Comune di Roccacontrada tutte le vertenze con i Gabrielli per i salari loro dovuti. Fra la fine del 1314 e l'inizio del 1315 lo troviamo a Orvieto, sempre con l'incarico di podestà.
Nel 1315 è ancora menzionato come estensore, insieme con Pietro di Corrado della Branca, di un terzo elenco dei ghibellini eugubini per i quali era prevista la proscrizione.
Nello stesso anno il suo nome è anche ricordato in documenti fiorentini, ma solo per specificare che rimanevano esclusi da alcune amnistie previste in quell'anno per i colpevoli di alcuni reati, i bianchi da lui condannati nel 1302, fra cui Dante. Nel 1316 questa esclusione verrà infranta nel caso di Baldinaccio Adimari, che aveva consegnato ai Fiorentini i castelli del Monte Albano.
Nel 1317 i ghibellini della Marca, guidati da Federico (I) conte di Montefeltro, tentarono di sottrarre una serie di città al controllo della Chiesa, impadronendosene con la forza (come avvenne con Recanati, Urbino, Cingoli, Fano), o facendole ribellare, come avvenne a Cagli. Podestà di Cagli era allora uno dei figli del G., Muzio, che fu costretto a ritirarsi nella rocca per difendersi. I guelfi di Gubbio e Cagli chiesero aiuto a Perugia, e questa inviò in loro soccorso proprie truppe che poterono riprendere il controllo della città. In seguito, nel 1318, il G. stesso avrebbe intentato un processo contro il Montefeltro per l'episodio di Cagli.
Quando poi i ghibellini si impadronirono di Assisi nel 1319, fu proprio il G. a essere nominato a capo delle milizie collegate dei guelfi umbri che contrastarono Assisi fra il 1319 e il 1322. Nel 1321, nel corso della guerra, le truppe comandate dal G. assalirono e occuparono anche Jesi e il suo territorio, e condussero inoltre un lungo assedio di Assisi, che si concluse con la resa della città. Il 19 ag. 1321 gli ambasciatori assisiati presentatisi a Perugia per ottenere la pace chiesero proprio al G. di dettare le condizioni, e queste sarebbero state alla fine piuttosto miti, secondo il Bonazzi (p. 398) per il desiderio del G. di non scontentare il papa, secondo altri per compensare le distruzioni ingiustificate che l'esercito guelfo aveva in precedenza operato su Bastia.
Lo scontro fra guelfi e ghibellini riprese nel 1322. Capo militare e politico indiscusso dei guelfi umbri in questo periodo di dure lotte, il G. si trovò a comandare anche le milizie collegate dei guelfi nella guerra contro Spoleto tenuta dai ghibellini, e che si tradusse in un assedio durato fino al 1324; contemporaneamente venne di nuovo assediata la città di Assisi (fino al 1323).
Nel 1322 Federico da Montefeltro, uno dei principali capi ghibellini, si era ridotto a governare sulla sola Urbino, anch'essa assediata dai guelfi; il 22 aprile, in seguito alla ribellione della città, il Montefeltro veniva trucidato. I suoi figli furono immediatamente imprigionati dai guelfi, e in particolare il suo primogenito, Guido "Tigna", fu tenuto come prigioniero presso di sé dal Gabrielli. Il 22 giugno 1322 papa Giovanni XXII scriveva da Avignone a Gubbio al G., in risposta a una sua lettera, perché consegnasse Guido di Federico da Montefeltro, suo prigioniero, al rettore della Marca. In una seconda lettera dell'8 ottobre successivo il pontefice ringraziava il G. per aver provveduto a consegnare al proprio rettore sia Guido da Montefeltro sia uno dei Malatesti, schierato coi ghibellini.
È quindi certamente erronea la data del 1316 indicata dal Lucarelli come anno della morte del G., che avvenne comunque dopo l'ottobre 1322 in epoca imprecisata.
Il G. ebbe vari figli che ne continuarono l'attività, fra cui Giacomo, che gli successe come leader della parte guelfa, il già ricordato Muzio, Filippo (forse podestà di Cagli con lui nel 1306) e Lello, e almeno una figlia, Chiara, che andò sposa a Nallo Trinci, signore di Foligno fino al 1321.
Non deve tuttavia essere confuso con questo G. il suo quasi omonimo Cantuccio (cfr. l'errore nel commento di G. Aquilecchia a G. Villani, Cronica, Torino 1979, p. 164), che era figlio di suo fratello Bino. Nel 1331, durante la guerra contro Lucca, fu nominato capitano dell'esercito fiorentino, ma era ancora assai giovane, e probabilmente non era ancora stato fatto cavaliere. Il Villani critica la scarsa esperienza di Cantuccio, che aveva provocato un grave incidente (una sommossa, dopo che era stata erogata una punizione eccessiva a un commilitone) con i mercenari borgognoni (Nuova cronica, I, pp. 735 s.). Anche se non sappiamo se all'epoca il G. fosse ancora vivo, il cronista non si sarebbe espresso così se si fosse trattato del G., al contrario assai reputato proprio per la sua capacità ed esperienza militare.
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