CANTO (dal lat. cantus; fr. chant; sp. canto; ted. Gesang; ingl. song)
Espressione vocale della musica. In quanto espressione totale il canto va considerato libero dalla sintesi a priori "gesto-parola-suono" in cui teorici e artisti, fra i quali il Wagner, hanno cercato il motivo primo dell'arte. Anche nascendo dalla lirica accentuazione dei valori ritmici e fonici del discorso verbale, il canto attinge per sua natura a un suo proprio discorso che riassume in sé o trascende o anche finisce per obliare o escludere la parola, e che si svolge in melodia (v.). In un senso più lato, il termine canto indica anche una semplice intonazione delle parole, quale si pratica in alcune forme liturgiche e nel recitativo del melodramma.
Nell'antichità classica il concetto di canto era piuttosto quello d'una lirica accentuazione della parola, e dai rari esempî che ce ne son giunti appare che di tale carattere il canto non si liberasse che in brevi melismi spesso conclusivi. Nel mondo cristiano invece, saturo d'influenze non soltanto greco-romane ma anche orientali e soprattutto ebraiche, già nei primi documenti della liturgia appare, vicino al recitativo, il puro melos di variazioni vocalizzate, presto ampiamente svolto; per es. (dal cantico di Mosé, Deut., 31, cantato in VIII tono il sabato santo):
Così già nelle musiche cristiane del periodo aureo appaiono documenti insigni del valore d'integrale espressione, indipendente dalla parola, che s'attribuiva ormai al canto; onde nasceva la necessità di esecuzioni non improvvisate, possibili soltanto a cantori bene esercitati. Sembra infatti che una scuola di cantori sia sorta in Roma, per volere di Papa Ilario, fin dal sec. V, e in ogni modo a scuole romane s'informava l'insegnamento delle due maggiori istituite fuori d'Italia: quelle di S. Gallo e di Metz (fine del sec. VIII). Alla preparazione di cantori cominciavano d'altra parte a dare opera, dal sec. VI in poi, anche le cappelle musicali di cui le chiese più ricche e le corti si venivano dotando, in modo da contribuire a quella larga diffusione del canto cristiano, che al di fuori dei centri rigidamente conservatori, ove presto si giunge a una vera e propria codificazione, doveva consentire l'apertura di questo canto alle feconde, vivificatrici influenze di nuove correnti e di nuovi spiriti musicali. E infatti non soltanto nel mondo profano ma anche in alcune scuole, come in quella di S. Gallo, ben presto assistiamo alla fioritura dei germi portati dal popolo nel canto liturgico: una nuova fantasia ritmica e melodica viene a trasformare il discorso musicale nell'ornamentazione che a S. Gallo e in Irlanda collega le note del gregoriano e nelle frequenti diminuzioni (v.) del popolare Lai francese, iniziando quel movimento che attraverso i secoli condurrà il canto scolastico a forme piuttosto decorative e spesso preziose fino all'artificio, come nella polifonia delle grandi scuole francesi dei secoli XII e XIII (ms. 813 Bibl. naz. di Parigi, sec. XII):
mentre, al di fuori della musica dotta, lo ridurrà alle forme svelte, aggraziate, sensuali, evidentemente ispirate al metro poetico e ai ritmi della danza, della canzone trovadorica (Moniot d'Arras, sec. XIII [?]):
Dall'esame di queste due scritture press'a poco contemporanee, appare evidente che una vera e propria scuola era urgente non tanto ai trovatori, il cui canto raramente s'involava in ardui vocalizzi e melismi oltre il saldo schema metrico della poesia, quanto ai cantori delle cappelle, cui si conveniva vincere difficoltà molteplici, dalla prontezza dell'improvvisazione contrappuntistica (cantar alla mente), pur vincolata dai modi ritmici e da altre norme, alla sicurezza delle entrate, all'esatta intonazione della parte rispetto alle altre, all'eguaglianza, alla duttilità e al meccanismo della voce. È lecito pertanto pensare che dalla fioritura delle prime scuole (di quelle, singolarmente importanti, di Parigi e di Cambrai, e delle altre del sec. XI), per tutto il plurisecolare periodo polifonistico un insegnamento vero e proprio non si sia dato che nell'orbita, ideale o materiale, delle cappelle e delle scholae cantorum, dalle quali anche l'arte popolare o, per così dire, leggiera derivata dalla tradizione intimamente monodica dei canti trovadorici e degli spirituali traeva elementi preziosi per la propria quotidiana rinascita. La convivenza di queste due correnti giunge a intima unità artistica nel cantore stesso, il quale esperisce il mondo della schola secondo un animo popolaresco che ogni elemento, e sia pure l'artificiosa decorazione propria della prima polifonia, tanto nel cantare al liuto quanto nel concertare della cappella, volge a immediata espressione lirica. E assistiamo così dal '300 al '500 a un frequente convergere della scuola e del popolo, la prima tendendo, benché a lunghi intervalli, alla più intensa espressione, come dimostrano i polifonisti francesi e specie gli ultimi madrigalisti italiani (Gesualdo da Venosa: Madr. a 5 v., trascriz. Pizzetti):
mentre il secondo sempre più si compiace (spece nel '500 italiano) degli splendori vocali del canto, per così dire, artistico.
Giunge così un momento, alla fine del sec. XVI, nel quale - anche sotto l'influenza del pensiero umanistico (il cui vero intendimento si volgeva, però, al recitar cantando) - dalla melodia si finisce con l'esigere la conquista di quella totalità espressiva, indipendente dal concorso di più parti nel contrappunto, che la pratica dei cantori andava da tempo precorrendo nelle improvvisazioni e trascrizioni vocali-strumentali. Negli esordî della monodia d'arte troviamo, a Firenze e a Roma, una scrittura vocale assai piana, ligia alla costituzione e al senso non solo della frase ma anche della parola singola, spoglia di ricche ornamentazioni meliche; mentre nel Nord, presso Claudio Monteverdi, appare un'ispirazione suggerita, sì, dalla poesia ma attuata in una totale riassunzione melodica. (Da C. Monteverdi, Il ballo delle ingrate).
Ma se ci inoltriamo anche di poco negli anni, troveremo segnata, specialmente nell'opera di Giulio Caccini, la via che dal recitar cantando dello stile rappresentativo condurra, attraverso l'arioso del madrigale monodico e del melodramma monteverdiano, al ritorno della libertà melodica e - cosa facile a spiegarsi - a una rinnovata valutazione della tecnica vocale. Nelle ultime musiche del Caccini (quelle del 1613 e del 1614), da un iniziale recitato, che sugge l'intimo affetto della poesia, si leva un canto assai libero e ricco di passaggi e di trilli e di gruppi e insomma di virtuosismi che annunciano chiaramente i virtuosismi più decorativi che espressivi dell'epoca seguente. E infatti il Caccini, più che ogni altro, può essere considerato il rinnovatore della scuola italiana di canto, sia con le esigenze della sua scrittura vocale, sia con la stessa sua attività di maestro (cui si dovettero i più celebrati e seguiti cantanti del '600), sia con la teoria che di questa sua didattica egli lasciò nelle sue prefazioni e avvertenze (fondamentali quelle del 1601 e del 1614).
L'importanza conferita dalla monodia alla venustà della voce cantante trae da allora in poi la pratica dei virtuosi e di non pochi compositori a finalità decorative che - al di sopra del gentile lirismo dei migliori maestri - già dal tardo Seicento giungono alla loro massima affermazione nel cosiddetto bel canto. Come la musica istrumentale spesso s'ispira alle forme espressive dell'opera e della cantata, ecco la vocale compiacersi di gare virtuosistiche con le cadenze e i passaggi brillanti degli strumenti. All'espressione intrinseca della linea melodica si preferisce sempre più, nel gusto viziato del pubblico settecentesco, l'impersonale, formulistica ornamentazione del canto. Alla varietà, al fervore degli affetti, s'impone l'indistinto, freddo splendore d'una voce trasvolante senza posa dall'una all'altra acrobazia. Il canto si dissolve nella sua tecnica.
Negletta così dagl'interpreti e dal pubblico, anche la varietà della melodia, soprattutto nella cantata e nell'opera seria (ché l'opera buffa fu quasi sempre animata da fervida vivacità di rappresentazione) sembra annullarsi in un diffuso sentimentalismo.
Contro questa espressione di gusti raffinati e decorativi, che nella pratica faceva capo alle scuole italiane (celebre quella bolognese, dal Pistocchi trasmessa al Bernacchi, e quelle del Leo, del Porpora, del Mancini, ecc.), si veniva però movendo l'opinione dei nazionalisti tedeschi, chiaramente precorrenti il movimento romantico, e delle scuole francesi ligie allo stile rappresentativo passato dal Lulli al Rameau. Un nuovo desiderio d'intenso, umano lirismo si riaccende anche in Italia all'esempio del Gluck, e di questo nuovo fervore, di questo senso drammatico si ravviva la melodia vocale degli ultimi napoletani.
Alla molteplicità delle ornamentazioni virtuosistiche sottentra la proprietà drammatica delle diverse linee melodiche, restituite alla purità della prima monodia. (Da C. W. Gluck, Ifigenia in Tauride).
Il nuovo stile rappresentativo iniziato dal Gluck contro lo stile concertistico dell'opera seria settecentesca rispondeva, come s'è detto, a un desiderio ormai largamente diffuso e variamente sentitti in Italia non meno che altrove.
Dall'intellettualismo dell'ambiente francese e - per un altro verso - dalle filosofiche aspirazioni dei Tedeschi difficilmente avrebbe potuto svolgersi un movimento artistico veramente fervido e potente. Se mai, un tale movimento avrebbe potuto attingere vigore dalla tradizione popolareggiante del corale luterano e del Lied. Ma un'energia nuova, un nuovo sangue di popolo entrava piuttosto con Gluck e con i suoi continuatori (Spontini sopra tutti) nel teatro musicale. All'esempio gluckiano s'informa, nella scrittura drammatica, anche l'italianizzante Mozart, e - in apparente contrasto col Rossini (presso il quale l'agilità dei passaggi vocali è in funzione d'intimo dinamismo ritmico) - anche il primo romantico dichiarato: l'autore del Freischütz, C. M. v. Weber; mentre a questa scrittura intensamente espressiva e ravvicinata ai caratteri, alle esigenze delle diverse lingue, aderiva, nella sua rapidissima ascesa, anche la lirica vocale da camera.
Da questo momento in poi si può dire che la pratica del canto non abbia realmente mutato indirizzo, seguendo, piuttosto che premesse d'ordine tecnico, le esigenze poste dalle varie scritture vocali dei compositori, dalla sovrana purità della linea belliniana all'esasperato espressionismo del Wagner, dai romantici fino ai nostri contemporanei.
In questo sforzo di adeguamento a esigenze varie e nuove (ché soltanto in spirito si potrà riaccostare lo stile rappresentativo e la scrittura vocale di oggi con quel che si faceva nel 1600), la scuola di canto attraversa momenti d' incertezza e di smarrimento: si comincia a discernere, verso la metà dell'800, l'impreparazione della voce di fronte ai compiti proposti dalla nuova arte, e da questa constatazione consegue un inizio di studî volti a trarre la didattica fuori dal misero empirismo nel quale l'aveva lasciata la fine del bel canto settecentesco. Si tenta di avviate la prassi scolastica in un ordine segnato dall'anatomia e dalla fisiologia, al fine di consentire alla voce cantante la conservazione dei suoi tradizionali pregi pur nelle difficoltà che presentano le partiture moderne.
A risultati di comune accettazione, sufficienti a una vera scuola moderna di canto, non ancora si è giunti, nonostante il moltiplicarsi di tali studî in tutti i paesi che hanno una tradizione musicale; ma è certo che soltanto su fondamenti scientifici potrà essere realizzata quella pratica di canto che la musica di oggi richiede.
Bibl.: Della ricca letteratura esistente nella storia della scrittura e della tecnica vocale v. specialmente: G. Fantoni, Storia universale del canto, Milano 1873; H. Goldschmidt, Die italienische Gesangsmethode des XVII. Jahrhunderts, 2ª ed., Breslavia 1892; G. Silva, Il canto, Torino 1913; V. Ricci, La tecnica del canto, Milano 1920; id., Il bel canto, Milano 1923.
Il canto come fattore educativo. - "I maestri di musica rendono ritmo e armonia familiari alle anime dei fanciulli, sì che essi possano divenire più gentili e graziosi e armoniosi ed essere utili con la parola come nell'azione, perché tutta la vita dell'uomo abbisogna di grazia ed armonia". Come queste brevi parole di Platone, prospettando la funzione educativa della musica presso i Greci, valgono a illuminare sul tono generale della vita di quel popolo, così la storia dell'educazione elementare, attraverso i tempi e presso i varî popoli, mostra come la maggior o minor importanza data all'insegnamento del canto è sempre riflesso di vita morale, religiosa e politica. Si vede ad esempio che, mentre l'insegnamento musicale, inteso nel senso più largo, è tenuto nella massima considerazione dai Greci, come fattore estetico-morale, esso decade presso i Romani, i quali tendono a un ideale educativo più pratico, è trascurato quando non apertamente bandito dai cristiani primitivi, come elemento contrastante con il nuovo indirizzo morale-religioso; nel Medioevo, limitato al canto chiesastico, trova il suo posto nelle scuole dei conventi (Carlomagno nel 789 impone "che ogni monastero e ogni abbazia abbia la sua scuola, dove i fanciulli possano apprendere i salmi, il sistema delle notazioni musicali, il canto..."), e per accompagnamento delle canzoni d'amore la musica è complemento di educazione cavalleresca del paggio e dello scudiero.
E se pure, con il fiorire del Rinascimento, il canto ritorna in onore come elemento della tradizione classica, e con gli educatori della Riforma, primo Lutero, entra come fattore educativo nella scuola del popolo, e tale è, in generale, considerato dai pedagogisti dell'età moderna, si deve giungere alla vera organizzazione dell'istruzione elementare, cioè alla seconda metà del secolo scorso, perché al canto, già affermatosi come elemento vivificatore e disciplinatore nei giardini d'infanzia, sia riconosciuta appieno la parte che gli spetta.
I paesi protestanti, specialmente i germanici nei quali la tradizione dell'insegnamento musicale elementare era stata mantenuta più a lungo senza interruzione, come necessità per la vita religioga del popolo, si trovarono più pronti, soprattutto per la parte teorica dell'insegnamento; mentre i paesi latini poterono meglio sfruttare l'attitudine naturale del popolo, per il quale il canto è manifestazione spontanea e quasi necessità di vita.
In Italia, mentre si riconosce che "ginnastica e canto giovano mirabilmente come sollievo dell'occupazione mentale, sviluppano gli organi della respitazione e danno vigore e quindi sicurezza e leggiadria ai movimenti del corpo" (Istruzioni e programmi per le scuole elementari, 1888), e che "la ginnastica e il canto sono mezzi d'igiene, di riposo, di ricreazione, di disciplina" (Relazione ministeriale sui programmi per le scuole elementari, 1894), e si pongono in rilievo "i vantaggi che questo esercizio (il canto) arreca così nei suoi effetti fisiologici, quale ginnastica degli organi della respirazione, come riguardo alla ricreazione dello spirito, all'educazione del gusto, al mantenimento di mirabili tradizioni di nostra gente" (Istruzioni ai programmi per le scuole elementari, 1905), il canto non è dichiarato materia obbligatoria, con orarî, programmi, e norme per l'insegnamento teorico e pratico, in tutti i gradi, fino al 1923, con l'Ordinanza ministeriale relativa agli orarî, ai programmi e alle prescrizioni didattiche per le scuole elementari, che gli assegna il primo posto fra gl'insegnamenti artistici, mettendone in evidenza il carattere e l'importanza che deve avere nella scuola elementare pubblica.
L'insegnamento musicale nella scuola primaria, culminando con il canto corale, ha le sue basi nell'educazione del senso del ritmo, negli esercizî di respirazione, di emissione e di posa della voce, e il suo complemento nell'insegnamento teorico; può giungere infine, nelle ultime classi, a nozioni elementari sulla produzione musicale specialmente nazionale, impartite col sussidio di audizioni, rese oggi possibili dall'introduzione nella scuola del grammofono e della radio.
Per il canto corale nella scuola elementare valgono in generale le norme comuni per l'insegnamento di tale materia, con particolare riguardo ai mezzi vocali degli scolari: quanto alla scelta dei canti, che possono essere a due voci nelle ultime classi, soprattutto se si dispone del sussidio di uno strumento, nella scuola elementare, che dovrebbe seguire le tradizioni nazionali, si può, in ogni paese, largamente attingere alla produzione, religiosa, patriottica, regionale, locale. L'insegnamento dei primi elementi di teoria musicale, che, per le difficoltà che presenta, non può essere iniziato nelle prime classi, più che fine a sé stesso o complemento dell'insegnamento del canto, è utile per avviare la gioventù alle società corali, come dimostra il fatto che queste fioriscono soprattutto nei paesi in cui il canto è stato oggetto di studio scolastico da più lungo tempo.
Canto liturgico.
È il repertorio di canti che accompagnano la liturgia (v.) della Chiesa cattolica, secondo i suoi varî riti. Si può distinguere in due gruppi principali: occidentale e orientale. Nel primo la lingua usata nel canto è la latina, nel secondo è quella nazionale di ciascun rito.
Canto liturgico latino. - Questo canto è distinguibile nei quattro riti della chiesa latina, e cioè gregoriano, ambrosiano, gallicano, mozarabico. Gregoriano è il canto della chiesa romana dopo la riforma di S. Gregorio Magno (v.) ed è ormai il canto della chiesa universale nei paesi di civiltà occidentale. Ambrosiano (v.) è il canto della Chiesa milanese (forse, nel suo nucleo primo, rappresenta il canto anteriore alla riforma gregoriana), ed è tuttavia usato nella diocesi di Milano e in qualche territorio limitrofo; gallicano è il canto dell'antica chiesa francese (della Gallia), oggi ridotto all'uso della cattedrale di Lione; mozarabico è il canto della liturgia visigota delle regioni di Spagna che furono sottomesse alla dominazione araba ed è ora ridotto all'uso di una sola parrocchia, ufficiante in una delle cappelle della cattedrale di Toledo. Quanta parte in comune vi sia fra questi dialetti (anche in rapporto al canto delle chiese orientali) e quali siano i caratteri distintivi d'ognuno di essi, non è (e forse non sarà mai) possibile precisare. La scarsezza di studî in materia dipende in gran parte dalla deficienza di documenti sui riti all'infuori del gregoriano: per esempio, il canto mozarabico è consegnato solamente a una ventina di passi. Si può soltanto dire che la conoscenza generica di melodie dei varî riti è sufficiente a rivelarne la fondamentale parentela. D'altra parte, lungo i secoli, i varî riti s'influenzarono a vicenda; esempio palese è la diffusione degl'inni ambrosiani nelle varie liturgie, mentre per esempio, canti sicuramente romani entrarono nel canto ambrosiano. In complesso tutto quanto si conosce di canto liturgico è in uno stato d' imprecisabile impurità, sia per le influenze reciproche fra i varî riti, sia per le inevitabili infedeltà che presenta la trasmissione delle melodie attraverso tanti secoli, per via orale o per copie di manoscritti.
Il canto liturgico latino consta di melodie contenute nei libri liturgici: graduale, antifonario, responsoriale, ecc., melodie che si eseguiscono da sacerdoti, cantori solisti, e dal coro all'unisono. A solo scopo pratico (non si sa da quando) tali melodie si accompagnano con l'organo e ora anche con l'armonium, per sostenere le voci. In tutte le varietà di canto liturgico vi sono due grandi categorie di stile: sillabico, cioè una sola o pochissime note per sillaba, e vocalizzato, cioè dove ogni sillaba porta più o meno abbondanti gruppi di note; questi due stili si trovano fino nei più antichi documenti e nelle più remote notizie.
Ecco un saggio di melodia sillabica preso dal canone della messa mozarabica:
Ecco un saggio di una melodia vocalizzata presa da un'antifona gallicana ancora in uso a Lione:
Caratteri stilistici. - Il canto liturgico è a base ornamentale; vi si distinguono canti con testo in prosa e canti con testo in poesia. I primi sono nati da formule melodiche (più o meno ricche) che segnavano con ornamenti le cadenze all'interpunzione dei testi sacri (tradizione ebraica); quindi le stesse formule passano da un testo all'altro indifferentemente, tanto che ancora oggi, con nove formule salmodiche, si cantano 150 salmi, con uno stesso tono di vangelo, tutti e quattro i vangeli, ecc. Il canto dei testi in poesia è fondato sulla strofa, di cui una formula melodica si ripete per tutte le strofe, qualunque sia il senso delle parole cantate. Spesso, anzi, si cantano su una stessa melodia parecchi inni, di carattere espressivo diverso. Ma, secondo il carattere e l'importanza d'un dato canto, e secondo la solennità della festa in cui ricorre, le stesse formule si fanno più solenni e più ornate, e ogni genere di canti ha un formulario proprio. Cfr. le 5 varianti sul Kyrie, Ferie, Feste semplici, semidoppie, doppie e solenni. Sicché il canto liturgico ha per base indipendenza dal senso delle parole, e, d'altra parte varietà e buona proporzione nella loro ornamentazione melodica.
Perciò la composizione del canto liturgico (fino dalle origini) si può ritenere fondata sull'ornamento e variazione di formule tradizionali regolate dal senso tonale con un procedimento alfine a quello dei nomoi greci. D'altra parte l'uso di tali formule tradizionali e l'indipendenza dal senso delle parole implicano il ricorrere anche frequente di alcuni canti, pur molto elaborati e artisticamente perfetti, con testi diversi. P. es., il bellissimo graduale gregoriano Iustus ut palma florebit ritorna 22 volte nell'anno liturgico, con testi quanto mai diversi; tutte le antifone gregoriane di modo IV, in la, hanno una stessa melodia, e gli esempi si potrebbero ripetere, anche per il canto ambrosiano. Già nella Bibbia si trovano indicazioni per cantare un salmo sul tono di un altro canto.
Si è detto che il canto liturgico è, nella sua base, indipendente dalle parole; ma, nel millennio della sua storia, compaiono melodie strette, nell'espressione, a un loro testo poetico, né si può escludere che alcune di esse siano abbastanza antiche, come il bellissimo introibo Exurge Domine gregoriano (segni di quello che fu poi il Rinascimento si trovano qua e là anche ben prima); poi, col volgere dei secoli, anche il canto liturgico, che, come si è detto, accolse continue varianti, dovette farsi sempre mobile e comunicativo. Ma quando la musica in genere divenne efficacemente espressiva riguardo ai testi, il canto liturgico stava irrigidendosi e morendo.
Come i varî riti nella fondamentale unità d'idioma musicale presentano ognuno un dialetto proprio, così, nell'interno d'ogni tradizione, sulla base d'un'unità globale, le melodie prendono aspetti sempre diversi da paese a paese, da chiesa a chiesa, da congregazione a congregazione; dunque: varietà nell'unità, adattabilità nella costanza. In ciò la tradizione liturgica è simile a quella della musica popolare. Tale varietà si nota nelle diverse lezioni delle melodie, ed è verosimile esistesse anche nella maniera di eseguire.
Ritmica. - Gli studî, anche pregevoli, sulla ritmica del canto liturgico non hanno condotto ancora a risultati sicuri: in massima non pare troppo imprudente affermare che, per base, il ritmo del canto liturgico tradizionale non doveva essere a battuta. Ma se esso fosse misurato o no, e in caso affermativo, in qual maniera esso fosse misurato, nessuno può dire con sicurezza. Come si è già accennato, è verosimile che i canti si eseguissero in più maniere. Nella stessa tradizione scritta, si trova che metà dei codici reca le note sole, mentre un'altra metà reca segni e lettere che indicano valori di lunghezze o brevità. Alcune notizie accennano, d'altra parte, a riconosciute differenze d'esecuzione, per es. quelle della chiesa di Metz. Forse, in tanta fluttuazione, vi furono due grandi categorie di maniere d'eseguire, una senza misura, e un'altra maniera più concreta, a misura abbastanza esatta, con note lunghe e brevi, analoghe alla durata (quantità) delle sillabe nel linguaggio, ma indipendentemente da questa quantità, già allora sparita. Così parecchie note, e lunghe, possono trovarsi su sillabe prosodicamente brevi, mentre talvolta su sillabe prosodicamente lunghe non v'è che una nota sola. Uno dei rari documenti in argomento è la tradizione mantenutasi sino a pochi decennî or sono (e che ora si va ripristinando) nella chiesa milanese, di cantare gl'inni di metro giambico in battuta a tre tempi.
Un'osservazione che non si può non fare è che, in genere, nel canto liturgico latino l'accentuazione delle parole ha parte assai diversa che nella musica odierna (l'argomento è importante, perché verosimilmente da ciò deriva l'accentuazione di gran parte della musica anche polifonica del Medioevo). Le melodie sembrano nascere dall'accentuazione della frase e del periodo piuttosto che da quella della parola; e più il canto si orna, più si stacca dall'accento per seguire vie puramente musicali, pur senza mai contraddire l'accentuazione; fino all'assoluta musicalità di canti, come il versetto alleluiatico gregoriano Pascha nostrum immolatus est Christus, dove l'accento delle parole si può dire non abbia alcuna parte nella vitalità del magnifico pezzo. Nel canto ambrosiano melodie simili s'incontrano a ogni passo.
È anche notevole il fatto che, nella salmodia (v.), fondata sull'accento e che forma il nucleo primo del canto liturgico, hanno valore soltanto gli accenti finali di frase e di periodo; tutti gli altri passano inosservati. Non mancano nemmeno formule salmodiche (tanto gregoriane quanto ambrosiane) dove le note si applicano alle ultime sillabe delle frasi e dei periodi, trascurando l'accento. Finora non esistono studî sull'evoluzione del valore dell'accento nel canto liturgico, e nel canto in genere.
Tonalità. - La base tonale del canto liturgico è la cosiddetta teoria degli otto modi (octoechos), i quali hanno nomi greci, ma che finora nessuno è riuscito a connettere in maniera convincente coi corrispondenti modi greci antichi. (Gli otto toni - sistemati, secondo alcune testimonianze, già nel sec. VI - sono indicati, oltre che col numero ordinativo, protus, deuterus, tritus, tetrardus, seguito dalla classificazione: autentico o plagale, anche coi nomi di dorico, ipodorico, frigio, ipofrigio, lidio, ipolidio, misolidio e ipomisolidio, come si esporrà nell'apposito quadro). Anche tutte le chiese orientali hanno ognuna il suo octoechos coi relativi nomi greci, esprimenti sempre modi diversi; il rapporto fra gli otto modi medievali latini e quelli greci è dunque un problema simile a quello presentato da tutti gli altri sistemi tonali di canto liturgico dell'Oriente. Forse è prudente pensare che quei nomi greci esprimono soltanto il desiderio comune a tutti i teorici medievali, di riallacciarsi alla gloriosa eredità ellenica, verosimilmente non bene conosciuta e chi sa come trasformata.
Dapprima si considerarono soltanto quattro modi, che mettevano capo rispettivamente a re, mi, fa, sol, ognuno con una scala di 11 note.
Poi le melodie che si estendevano dalla finale o tonica alla sua ottava superiore, e che si dissero autentiche, si distinsero dalle melodie che si estendevano dalla 5ª sopra alla 4ª sotto la finale o tonica, e che si dissero plagali. Allora i quattro modi primitivi si sdoppiarono in otto, così:
Questi modi erano concepiti con criterî ben diversi da quelli odierni e incomparabilmente più esteriori; si direbbe che avessero quasi soltanto lo scopo di classificare i canti, specialmente per poter connettere le antifone coi toni dei salmi a esse spettanti. Difatti Oddone di Cluny spiega che non si può decidere del modo prima di aver sentito l'ultima nota (perciò tonica); ed è proprio tale soltanto (escluso il senso odierno di riposo) quello più grave dei modi autentici, la sua 8ª non è tonica, e le melodie non vi finiscono mai. L'estensione, sia per gli autentici sia per i plagali, ha una nota in più al disopra e al disotto. Alla fine si tocca la nota sotto la tonica in tutti i modi, eccetto il V ed il VI propter subiectam imperfectionem, diceva Guido d'Arezzo (onde si consigliava di scendere al re grave, chiudendo re-fa invece che mi-fa).
Grande importanza aveva la dominante o nota di recitazione (escluso il senso moderno di centro tonale di movimento). I modi autentici avevano per dominante la 5ª della tonica, e i plagali la 3ª, così:
Intorno al 1000, fors'anche per influenza della pratica dell'organum vocale a quarte parallele (specialmente nella tradizione gregoriana), s'incominciò ad avvertire che, in rapporto col fa, il si era "corda mobile" (nota di moto), su cui non conveniva insistere come nota di recitazione, e tanto la dominante del III come quella dell'VIII modo furono portate a do. (Così quei due modi, col rapporto mi-do e sol-do ricevettero forte impronta di do maggiore, terminante sulla 3ª nel modo III e sulla 5ª nel modo VIII). Quasi per conseguenza di ciò, anche il modo IV spostò la sua dominante da sol a la, prendendo abbastanza netta impronta di la minore discendente (v. tonalità). Invece nella Chiesa milanese, benché spostamenti di tal genere non siano, mancati, in genere le dominanti di si rimasero al loro posto.
In tutti gli otto modi è sempre legittimo l'uso del si bemolle, che nelle edizioni odierne è esattamente indicato, mentre anticamente si applicava a gusto dei cantori, volta per volta. L'uso del bemolle (che per i teorici medievali non modifica il carattere dei varî modi!) trasforma i modi I e II in re minore (non alterato o discendente), e i modi V e VI in fa maggiore. I due modi maggiore e minore esistevano dunque non si sa fin da quando, ma la teoria li ignorava; e nemmeno quando il Glareano introdusse i modi di la e di do ognuno con autentico e plagale, portando così i modi da otto a dodici nel suo Dodecachordon (1547) quei modi furono riconosciuti come maggiore e minore, sibbene come altri quattro modi nuovi, simili agli otto più antichi.
D'altro lato, il si bemolle rende le scale di re, mi e fa uguali a quelle di la, si e do:
sicché i modi di la, si, do, venivano classificati (prima di Glareano) come I-II, III-IV, V-VI trasportati. Di regola, i canti si scrivevano nei toni di base, cioè il I-II in re, il III-IV in mi, ecc.: il trasporto in la, si, do, per solito aveva uno scopo. La scrittura tradizionale non conosceva altra alterazione che il si bemolle; ma quando si voleva introdurre nei modi I-II quello che sarebbe stato un mi bemolle (impossibile a scrivere), la melodia si portava da re a la, e allora il semitono re-mi bemolle si scriveva con la-si bemolle, così:
Parimente se si voleva introdurre nei modi III-IV quello che sarebbe stato un fa diesis (che non si poteva scrivere) si portava la melodia da mi ancora a la:
Ma perché la scala di la sia uguale a quella di mi, bisogna che in la il si sia bemolle; invece si alternava il fa diesis col fa naturale.
Con tali trasporti, il canto liturgico dispone d'una scala complessiva di 10 note: do, re, mi♭, mi nat., fa, fa diesis, sol, la, si♭, si nat. Questi trasporti si trovano già attuati nei codici, ma qua e là i teorici accennano anche ad altri che si facevano per abitudine. Non è escluso che, come l'uso dei trasporti e del bemolle, anche altre alterazioni cromatiche venissero tramandate per una tradizione orale che si andò poi perdendo. A ogni modo non si può non notare come lungo i secoli il canto liturgico si sia mantenuto più diatonico del canto profano e della polifonia (per quanto sia tutt'altro che facile decidere in simili incerte materie). Pare infatti che la musica ficta sia stata applicata assai più alle musiche che si andavano componendo che non al canto liturgico adoperato a sé e quale canto fermo o fratto.
Considerando poi la realtà delle melodie, è chiaro che vi sono non di rado canti nettamente maggiori o minori, come nei modi V-VI uguali a fa maggiore e I-II uguali a re minore non alterato, quando il si è sempre bemolle (espresso o sottinteso), o come in molti canti di modo VII-VIII che sono veramente in tono di sol maggiore, di cui si evita soltanto la sensibile ascendente fa diesis.
Queste sono melodie gregoriane che terminano sul riposo della tonica modale. Ma molto spesso canti di modo III-IV sono in do maggiore, che chiudono su mi terza della tonica, oppure in la minore non alterato, che restano sospesi sulla dominante. Così pure molti canti di modo VIII sono del più schietto do maggiore che rimane sospeso sulla dominante sol. Non mancano nemmeno canti in modo I-II che sono in realtà in do maggiore, e restano sospesi su re 5ª di sol, dominante di do maggiore (tonica armonica); così come non mancano canti di modo IV con si bemolle costante, i quali altro non sono che canti in re minore non alterato, che rimangono sospesi su mi 5ª di la, dominante di re. Insomma se si considera la possibilità che i due modi maggiore e minore non finiscano sempre sulla nota tonica, in senso moderno, ma o finiscano chiudendo (com'è ovvio) anche sulla sua 3ª, oppure rimangano sospesi sulla dominante, o sulla sua 3ª o sulla sua 5ª; una volta postici da questo ragionevolmente largo punto di vista, si può dire che quasi tutte le melodie liturgiche entrino nel quadro della tonalità maggiore-minore.
Su queste basi tonali il canto liturgico fonda le sue melodie con grandissima libertà. I canti irregolari sono molti, e non mancano quelli che nemmeno i redattori delle odierne edizioni di libri liturgici hanno potuto classificare. In generale anche la tonalità presenta la stessa fluttuazione della tradizione melodica e di quella ritmica: si trovano canti che in un manoscritto sono in un modo e in un altro manoscritto sono in un altro, talvolta non essendovi mutata che la sola nota finale, quella che decide del tono, e per ciò tonica. D'altra parte non esistono studî sulla tonalità del canto mozarabico né di quello ambrosiano, dove la consuetudine arcaica di non scrivere quasi mai il bemolle fa incomode le osservazioni, specie allo stato attuale, ancora assai imperfetto, dei libri liturgici.
Scrittura. - Se ne distinguono due grandi categorie: una a lettere e una a segni, note o neumi, categorie ricche di suddivisioni e famiglie specialmente numerose nella scrittura a note o neumi (v. notazione).
Storia. - Tutte le testimonianze romane dei primi secoli cristiani lamentano il tramonto della musica ellenistica, mentre confessano l'intensissima pratica in Roma di una musica che non poteva non aver subito l'influenza orientale.
La lingua così degli ebrei della dispersione come della grande maggioranza dei cristiani era la greca, e questo fatto spiega come i cristiani, anche durante il sec. III, pregassero e cantassero in greco. È plausibile che nelle prime manifestazioni del canto liturgico cristiano, concretatesi spesso in ambienti gnostici, concorressero influenze sia ebraiche, sia orientali, sia greche - specialmente per quest'ultima zona d'influenze - nei rapporti fra parole e musica. Il fondo della liturgia è costituito infatti dal canto dei salmi tradotti in prosa e da letture della Bibbia (la musica ellenica, che si sappia, non conobbe canti con testo in prosa); canti che si fanno recitando su una nota, con cadenze melodiche alle interpunzioni, in tutto alla maniera ebraica. D'altra parte questi canti recitati passano attraverso una gerarchia di ornamentazioni a base di sempre più abbondanti vocalizzi; altri canti, di carattere più lirico, hanno il vocalizzo non come ornamento, ma come sostanza musicale. Fatto questo di verosimile origine orientale e africana. Tale fusione di tradizioni diverse si diffuse col cristianesimo in tutta l'Europa, prendendo varietà di caratteri secondo l'origine degli apportatori delle tradizioni stesse e il carattere dell'ambiente in cui si trapiantavano; ecco formarsi i quattro principali dialetti con le loro suddivisioni.
Così a Milano, nel sec. IV, S. Ambrogio introdusse (ossia fece introdurre non si sa da chi) il canto vocalizzato alla maniera orientale (S. Agostino l'ammirava e lo contrapponeva alla maniera prescritta da S. Atanasio, per cui i salmi si cantavano poco più che pronunciandone il testo): e anche allo stato attuale il canto ambrosiano (come la liturgia a cui appartiene) ha spiccate affinità con l'Oriente. Le melodie sillabiche sono spesso molto asciutte e incisive, e le melodie vocalizzate molto diluite con andamenti poco incisivi che spesso procedono per gradi. Questi due caratteri opposti dànno all'ambrosiano carattere solenne ed arcaico. D'altra parte lo stesso S. Ambrogio compose inni sul metro dimetro giambico, introdusse, dapprima a scopo non liturgico, l'uso di inni, verosimilmente cantati su melodie popolari preesistenti. Gl'inni ambrosiani si diffusero subito dappertutto, ed entrarono poi nella liturgia (in quella gregoriana non prima del sec. IX). Era un nuovo elemento introdotto nel canto liturgico, elemento di carattere popolare, in confronto ai salmi e agli altri canti presi dalla Bibbia.
Fra il sec. VI e il VII, S. Gregorio Magno faceva (o faceva fare da altri) tutt'un'opera di organizzazione, di riforma, di ritocco della liturgia e pertanto anche del canto, su cui non si hanno che notizie malsicure. Ma buon numero di canti della versione gregoriana si trovano anche nel canto ambrosiano in una versione palesemente più arcaica. Segue, per es., un Confrattorio ambrosiano confrontato con la Comunione Gregoriana di testo uguale, eccetto una minima variante all'inizio:
È impossibile determinare se il gregoriano derivi dall'ambrosiano o se tutt'e due attingano a una fonte comune. A ogni modo pare certo che S. Gregorio abbia utilizzato cose preesistenti, introducendovi dei ritocchi. Comunque sia, la riforma gregoriana non si diffuse senza qualche difficoltà. La Chiesa milanese vi resistette ostinatamente, fino ad oggi, e si hanno notizie d'altre resistenze locali di minor conto in altri siti d'Italia (Capua, abbazia di Farfa).
In Spagna, nel 633, S. Isidoro di Siviglia fece sanzionare dal concilio di Toledo la liturgia visigota detta mozarabica; la quale, pure perdendo gradatamente terreno dietro la spinta di quella gregoriana, non è ancora spenta.
Per quel che riguarda il canto gallicano, in mancanza di notizie concrete ricorderemo che S. Ireneo, vescovo di Lione nella seconda metà del sec. II, era asiatico e si circondava d'orientali, essendo in continuo rapporto con l'Asia. D'altra parte i Galli erano ostinatamente attaccati alle loro tradizioni, che in parte passarono cristianizzate nel Medioevo francese. D'altro lato dovettero esservi rapporti abbastanza intensi con la tradizione ambrosiana se il Duchesne (Les origines du culte crétien) poté dire che al sec. V Milano era il principale centro del movimento gallicano. Certo che, quasi allo stesso momento, S. Ilario - esule per molti anni in Asia Minore - e S. Ambrogio introducono inni secondo la tendenza orientale; e scambî di testi e di melodie (come fra canto ambrosiano e gregoriano) si trovano anche fra canto gallicano e ambrosiano. Per es. l'antifona gallicana Venite populi, di cui si è citato poco fa l'inizio, figura come Transitorio nel giorno di Pasqua della liturgia ambrosiana.
Comunque sia, a questa doppia base orientale-gallica si sovrappose la liturgia, e perciò il canto gregoriano, introdotto in Francia, anche a scopo politico, da Pipino e da Carlomagno, soffocò la tradizione gallicana che ebbe però qualche centro di resistenza abbastanza deciso, per custodire almeno in parte qualche tradizione fino ai nostri giorni. È noto infatti come ancora nel sec. XIX don Prospero Guéranger, abate di Solesmes, combattesse gli avanzi di rito gallicano in nome dell'unità di rito romano. Tali azioni, se soffocarono il canto gallicano, furono feconde per l'evoluzione della musica e del canto liturgico stesso in genere. Difatti, proprio in seguito alla forzata diffusione del canto gregoriano in Francia, all'età carolingia, ebbe luogo quella fase intensamente creativa, animata da spirito novatore, che produsse le sequenze e i tropi con la loro derivazione profana: l'arte trovadorica in testo e musica, i drammi liturgici, il corale tedesco, ecc. Nel sec. XIX, dall'azione del Guéranger, nacque la restaurazione del canto liturgico in genere. In Inghilterra il canto gregoriano venne introdotto da cantori allievi dello stesso S. Gregorio. Per altri particolari sui canti gregoriano, ambrosiano, gallicano, mozarabico, vedi le relative voci.
Da quanto si è detto riesce chiaro che soltanto il gregoriano fra i quattro principali dialetti di canto liturgico, ebbe una vita veramente prospera e un fecondo sviluppo. In generale, col declinare del senso della comunità nei cristiani e col lento sostituirsi del senso del valore individuale, la liturgia, e per questo anche il canto liturgico, si andarono cristallizzando; mentre attorno alle melodie tradizionali, divenute sempre più immobili, andava nascendo (non si sa fin da quando, ma le prime notizie precise si hanno nel sec. IX) e poi sviluppandosi la polifonia (v.). Tutto l'interesse e l'amore si rivolsero a ciò che i musicisti intessevano attorno al canto liturgico, mentre a questo rimaneva il valore di elemento di culto. Questo processo di lenta estinzione della tradizione medievale di canto liturgico si può dire durasse fino al '500; dopo, spente chi sa da quanto tempo quasi tutte le voci della tradizione orale, si decompose anche la tradizione della copiatura o riproduzíone per la stampa delle note dei canti. Questi già nel sec. XVI parevano intollerabili e bisognosi d'una riforma anche a uomini come il Palestrina, che però non ebbe animo di compiere l'opera di ritocco già iniziata.
Ridestatosi, specialmente in Francia, l'interesse per il canto liturgico, col generale movimento di studi archeologici attuatosi fra il sec. XVIII e il successivo, tutta l'attenzione venne rivolta al canto gregoriano, d'uso quasi universale; e soltanto di riflesso si studiarono anche gli altri rami della grande tradizione comune. Perciò, anche il poco che si sa sulle altre locali tradizioni deriva dagli studî gregoriani, e verosimilmente ne è influenzato.
Concludendo, il canto liturgico latino è una corrente musicale d'origine orientale-africana, venuta in Europa e adattatasi alla sensibilità dei varî paesi. Formò il nucleo dell'arte musicale stessa di tutto il Medioevo, tanto sacra quanto profana. Recò: la base tonale, durata, evolvendosi, fino al totale affermarsi dei due modi maggiore e minore fra il sec. XVII e il XVIII; l'uso di testi in prosa; la più completa indipendenza della musica dalla declamazione della parola nel vocalizzo come sostanza musicale. Fu, nella sua esecuzione a più voci (v. diafonia e falsobordone), il germe della polifonia (v.) a cui servì di modello per le varie cantilene che vi s'intrecciano; le servì da appoggio, le diede i proprî motivi come temi, e prima di eclissarsi le lasciò lo spirito in retaggio. Resuscitata nel sec. XIX la tradizione liturgica medievale, tornò a circolare nell'intensissima vita della musica moderna, recandovi frutti di cui ora è impossibile misurare l'esatto valore anche (forse più che per qualunque altra) per l'arte profana, sotto tutti i lati: tonale, ritmico, melodico, estetico.
Canto liturgico orientale. - Per canto liturgico orientale s'intende il canto liturgico bizantino, greco-slavo, armeno, siriaco, maronita, copto e abissino, rimanendo inteso che questo canto è identico, in uno stesso rito, per le comunità unite alla Chiesa romana e per quelle che ne sono separate, naturalmente con le variazioni inevitabili nelle differenti liturgie.
Se ci si volge a esaminare gli elementi comuni a questi diversi sistemi musicali ci si accorge che il primo di questi elementi è l'esistenza di tre categorie di melodie, dette: irmologica, stichiarica e papadica. Dappertutto, infatti, s'incontrano canti in stile sillabico, che sono eseguiti con rapidità; altri un poco più ornati, che comportano un'esecuzione più lenta; e infine altri, molto ornati di melismi, la cui esecuzione è lentissima.
Altro elemento comune a tutti i riti orientali è la presenza di due scale che sembra non siano esistite nella musica greco-latina e che invece si trovano spesso in tutte le tradizioni arabe, ebraiche, indiane e cinesi: le scale di re autonomo e di do autonomo, la prima con fondamentale re e note modali fa e la e la seconda con fondamentali do e con modali mi e sol. Quest'ultima si presenta spesso sotto forma trasportata di fa con si bemolle. Ecco un esempio bizantino di re autonomo (J. B. Rebours; Traité de psaltique, Parigi 1906):
Si osserverà che il si bequadro è qui abituale e veramente caratteristico. Questo costituisce appunto il re autonomo, distinguendolo da un la autonomo trasportato. Nel canto liturgico orientale, quando il si bemolle non è il segno di una vera trasposizione, è, come in questo caso, un semplice cromatismo d'attrazione destinato a evitare il tritono. Questa impressione di tritono, dal quale gli antichi Greci non rifuggivano affatto, è evidentemente evitata dai sistemi musicali d'Oriente, compresi l'ebraico, l'arabo, l'indiano e il cinese, nonché il canto gregoriano in Occidente.
Passiamo ora a un modo di re armeno (Bianchini):
Nel seguente esempio si presenta un canto nel modo 1°. Bisogna notare qui una proprietà comune a tutti i riti che conoscono un octoechos, cioè un'organizzazione di otto modi (per es. i Bizantini, gli Armeni, i Siriaci): in capolista sempre si trova un modo di re. E siccome il canto gregoriano, anch'esso, ha come primo modo quello di re (mentre la prima e principale scala greco-latina era la dorica, o modo di mi), si può vedere in questa proprietà un fatto d'origine orientale.
Esempio di re siriaco:
Modo di re caldeo:
Modo di re copto (Rebours, p. 175):
Dopo il modo autonomo di re, quello di do è frequentissimo in tutte le musiche d'Oriente.
Un esempio bizantino (Rebours, p. 175):
Un esempio armeno (P. Bianchini, Chants liturgiques de l'Église arménienne, Venezia 1877):
Si noti che questo pezzo in maggiore conclude giovandosi di un semitono ascendente, fatto, anche questo, comune a tutti i sistemi musicali d'Oriente. Per conseguenza, se è giusto dire che la tendenza delle scale modali greco-latine era discendente, si può asserire che quella delle scale liturgiche orientali è spesso ascendente. E ciò è tanto vero, che la sensibile alterata si ritrova sempre anche nel minore; caso frequente anche nella musica ebraica, araba e indiana, contro la norma che nel minore vieta d'alterare la sensibile.
Nel seguente esempio (modo di do siriaco trasportato in fa con finale la) troviamo un altro fatto comune a tutti i sistemi musicali d'oriente: indipendenza della nota finale in rapporto alla fondamentale. La cadenza finale insomma, quando non si posa sulla fondamentale, preferisce di solito la 3ª o la 5ª, cioè gli altri due gradi della triade modale, ma può benissimo, a volte, fermarsi su altri gradi della scala.
Modo autonomo di do caldeo trasportato in fa:
Terminiamo con questa melodia abissina raccolta dal Villoteau (v. F. J. Fétis, Histoire génerale de la musique, Parigi 1869-1896):
Quest'ultimo pezzo fornisce l'occasione di parlare di un nuovo fenomeno comune a tutta la musica orientale: la moltiplicazione delle fioriture: notine, gruppetti, trilli, ecc., che ricorrono a ogni istante, soprattutto nello stile ornato, e, d'altra parte, l'introduzione di cromatismi (alterazioni di semitono) o di chroai (alterazioni inferiori al semitono). Vi sarebbe molto da dire riguardo alle note abbassate o elevate, che entrano più o meno regolarmente nella struttura delle scale stesse, cosa che si verifica in molti sistemi musicali. Ma siccome questo non è un caso assolutamente generale, poiché i Copti, come sostengono alcuni autorevoli scrittori, hanno in tutti i loro toni una perfetta diatonicità, così è preferibile astenersene. Si osservi nondimento che invece (a testimonianza del Parisot) tutti i toni maroniti si sono arabizzati, e perciò abbassano sempre almeno il mi e il si: cosa che del resto non impedisce l'esistenza del re e del do autonomi allo stato perfetto: come provano i due esempî seguenti (J. Parisot, Rapport sur une mission scientifique en Turquie d'Asie, Parigi 1899, pp. 161 e 168):
Quanto agli elementi generali del ritmo, tutti i sistemi musicali liturgici sono concordi, e principalmente nella divisibilità del tempo: come dimostrano i pochi esempî sopra indicati. Del resto tutte le tradizioni antiche s'accordano su questo punto.
Basti osservare che nella musica vedica, assai anteriore alla nostra era, l'unità di tempo, chiamata krasva (breve), corrisponde al laghu della teoria sanscrita e vale un mātrā, cioè un tempo. Valori di durata inferiore sono il quarto di tempo, anumātra, e la semi-mātrā. (cfr. J. Grosset, Inde, in Lavignac, Encycl. de la musique). Nelle diverse trascrizioni delle melodie liturgiche orientali è quindi lecito usare i nostri segni musicali moderni. La base del ritmo liturgico è una base misurata dove i valori relativi delle note stanno fra loro in proporzioni matematiche. Da ciò è derivato l'uso di distinguere due casi nell'esecuzione: il caso più frequente, in cui il rigore della scansione va fino al martellamento: e il caso nel quale, invece, il "tempo rubato", o ad libitum, è spinto a volte fino all'estremo (specialmente in recitativi e in canti ricchi di fioriture). Per conto nostro reputiamo opportuno segnare le indicazioni di battuta: 2/4, 3/4, 5/4, ecc., seguendo naturalmente le alternative del ritmo per i pezzi a scansione martellata; e contentarci, invece, delle indicazioni di lunghezza: minime, semiminime, crome ecc., per i pezzi nei quali prevale il rubato.
Il vedere la melodia orientale attraversata da stanghette di misura non deve, del resto, recar sorpresa: i teorici indiani dell'epoca vedica hanno sempre parlato di misure a tempi diversi. Quelli dell'epoca sanscrita han continuato a dire la stessa cosa. Anzi, da molti secoli, le loro battute sono comprese in caselle molto simili a quelle della nostra musica moderna. Se ne può vedere un esempio nello studio, citato sopra, del Grosset. Ecco le prime tre battute di una melodia del sec. XIII, la quale nella sua integrità "comprende - dice l'autore - 12 misure a 4 tempi".
Possiamo del resto provare direttamente l'esistenza secolare di una misura, non solamente di specie variata, per un sol pezzo, ma anche di specie unica, confrontando fra loro le tradizioni dei tre riti di lingua assira: siriaco, caldeo, maronita, i quali hanno molti testi liturgici in comune. Al principio del sec. XIX, un prete siriaco dettò al Villoteau la seguente melodia:
Nel 1897 il Parisot ne trasse, presso i Maroniti, questa versione:
Siccome i Maroniti e i Siriaci sono completamente separati gli uni dagli altri, almeno dal tempo delle Crociate, è chiaro che la nostra misura ternaria è databile a un'epoca anteriore a queste; possiamo anzi risalire a un tempo ben più remoto. Vi sono oggi dei ritmi usati simultaneamente dai Siriaci, dai Caldei e dai Maroniti; ora la scissione dei Siriaci e dei Caldei rimonta al concilio d'Efeso (431).
Il ritmo quinario così caratteristico citato più sopra, per il pezzo caldeo in do autonomo, è uno dei ritmi che son comuni ai tre riti di lingua siriaca.
Del resto anche l'uso di strumenti a percussione e proprî della danza, per accompagnare la melodia orientale, uso del quale ci informano i monumenti più antichi, chiarisce a sufficienza la natura dal ritmo musicale tradizionale. Quando nel Gerontikon l'abate Pambon (circa 317-367?) risponde a un discepolo che gli racconta ciò che ha veduto e sentito in Alessandria riguardo ai monaci, che non "sono venuti nel deserto per cantare agitando le mani, e sollevando il piede", non descrive forse quello che oggi osserva il Badet nei cantori copti, i quali indicano cioè ogni tempo della melodia col piede, la mano, o la testa? Quando Teodoreto (Haeretic. fabul. compend., IV), parlando della lotta sostenuta da S. Atanasio contro i meleziani, nota il loro uso di battere le mani e ballare cantando, non descrive forse ciò che avviene anche oggi in Abissinia, dove i chierici cantano e ballano al suono dei tamburi e dei cimbali? (Coulbeaux, Missions catholiques au XIXe siècle).
La manifestazione esteriore del ritmo per mezzo dei movimenti del corpo è una caratteristica del canto liturgico orientale, il quale non accetta il sostegno di strumenti melodici mentre soltanto gli strumenti a percussione sono tollerati, anche ai giorni nostri, e non in tutti i riti. Tanto meno vi è polifonia vocale, poiché non si può dare questo nome all'ison bizantino, specie di pedale che si fa sentire in tempo e in controtempo.
Due consuetudini comuni a tutti i riti orientali sono poi la nasalità e il tremolio. Nel 1877 il Bourgault-Ducoudray, studiando il canto bizantino, scriveva: "può esservi stata un'epoca in cui il più alto ideale della musica consisteva, per gli orientali, nel cantare con intonazione nasale; oggi la prevalenza del gusto europeo rifugge da questa bizzarria considerandola una mostruosità, e reclama energicamente una emissione vocale naturale". Non è credibile, veramente, che tale "bizzarria" sia considerata come una "mostruosità" da tutti gli Europei viventi in Oriente. In un seminario orientale - per citare un esempio - quello di S. Anna in Gerusalemme, tenuto dai Padri Bianchi del cardinale Lavigérie, gl'insegnanti si erano sforzati d'istruire gli allievi secondo nuovi principî, ma furono costretti a riprendere l'antico modo e gli stessi insegnanti francesi sono oggi costretti a salmodiare con voce nasale, per conservare ai canti un carattere orientale. Nel 1899 il Badet osservava lo stesso uso presso i Copti: e questa pratica può essere considerata come caratteristica del canto liturgico orientale giacché essa si ritrova in tutti i sistemi musicali d'Oriente. Riguardo poi al tremolio, il Fétis (Hist. gén. de la musique, I, p. 253) vi discerne una conseguenza della cattiva qualità di voce nei popoli orientali, ma è preferibile attribuire questa caratteristica a una forma voluta d'espressione; consacrata, forse, da un'abitudine immemorabile. I Sāman sacri indiani sembrano esigere questa forma d'espressione che il Lord (1630) aveva già constatata e definita: singing or quavering (cantando o gorgheggiando).
Bibl.: Per il canto liturgico latino: oltre la raccolta Paléographie musicale pubblicata dai benedettini di Solesmes, v.: Cabrol e Leclercq, Dictionnaire d'arch. chrét., s. v.; M. Férotin, Le Liber Ordinum en usage de l'Église Wisigothique et Mozarabe d'Espagne du Ve au XIe siècle, Parigi 1904; P. Ferretti, il Cursus metrico e il ritmo delle melodie gregoriane, Roma 1913; A. Gastoué, Les origines du chant romain et l'art grégorien, Parigi 1907; A. Aubry, Nots sur le chant mozarabe, in Iter hispanicum, Parigi 1908; id., Der mozarabische Kirchengesang und seine Überlieferungen, in Spanische Forschungen der Görres-gesellschaft, I (1928); G. Prado, Mozarabic Mel., in Speculum, 1928, pagina 218 segg.; N. Rousseau, L'École grégorienne de Solesmes, Tournai 1910. - Sul canto liturgico bizantino: J. B. Rebours, Traité de psaltique, Parigi 1906; sull'armeno: P. Bianchini, Chants liturgiques de l'Église arménienne, Venezia 1877; sul siro-caldeo: J. Jeannin, Le chant liturgique syrien, Parigi 1913; sul maronita: J. Parisot, Rapport sur une mission scientifique en Turquie d'Asie, Parigi 1900; sul copto: J. Blin, Chants liturgiques des Coptes, Cairo 1888; sull'abissino: J. A. Villoteau, Description de l'Égypte, Parigi s. a.; J. Grosset, Inde, in Lavignac, Encycl. de la musique; F. J. Fétis, Hist. gén. de la musique, IV, Parigi 1874.
Canto fermo.
Il canto fermo (lat. cantus firmus o cantus planus o musica plana; fr. plain chant; sp. canto llano; ingl. plain song), è il canto liturgico latino tradizionale, a lunghe note di valore imprecisato. Tutti i teorici medievali, parlando di polifonia, fanno risaltare l'opposizione fra canto fermo e musica misurata. Se questa maniera d'intendere (e quindi d'eseguire) le melodie liturgiche corrisponda alla tradizione genuina e antica non si può ora né affermare né negare con certezza; ma un notevole complesso di ragioni e d'indizî pare escluderlo. Sulla parte avuta dal canto fermo nella polifonia, v. contrappunto; discanto.
Canto fratto.
Il termine di canto fratto (lat. cantus fractus o cantifractus) non è stato ancora bene studiato storicamente. Nel Medioevo dovette nascere dall'arte di frangere voces, ossia variare il canto gregoriano per via d'ornamento, suddividendo i valori delle note gregoriane. (Procedimento analogo a quello dell'ornamentazione d'una melodia semplice, che si trova nell'Ars nova italiana del '300, passa poi nella scuola borgognona, e di là nella prima scuola fiamminga). La prima testimonianza di tale concetto che coincide con quello di coloratura e di diminuzione (v.) viene da Rob. de Handlo (1326; in Coussemaker, Script., I). Il canto fratto fu verosimilmente un'umile polifonia a 2 o a 3 voci, con note di diverso valore, anteriore all'affermarsi dello stile imitativo alla fine del '400. Ne esistono tuttavia sopravvivenze nelle chiese secondarie italiane, con libroni scritti a tarde note mensurali; sopravvivenze in cui canto fratto, contrappunto, falsobordone, coloritura, diminuzione si confondono. Difatti nel 1520 J. Galliculus diceva (Libell. de compos. cant.) del contrappunto: quem fractum ac floridum nominant, quando scilicet diversarum figurarum quantitates super notulas plani cantus modulantur.... Non è verosimile che alludesse a questi concetti S. Ambrogio, quando raccomandava (De officiis, I, 84) di cantare con voce non fracta; certo intendeva "non sdolcinata" secondo il corrente senso latino, tanto che aggiungeva nihil femineum sonans.
Canto popolare.
Per il canto popolare pare che valga veramente l'immagine hegeliana dell'uccello di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo: quando esso nell'Europa romanza e germanica aveva già avuto nei secoli XIV-XVI (naturalmente con differenze fra paese e paese, anzi fra regione e regione) la sua più ricca fioritura, ed era stato nel Seicento e nel Settecento più o meno sostituito da un'artificiosa poesia popolareggiante, ecco farsi innanzi, con l'amore del popolare, del primitivo, del naturale che caratterizza il preromanticismo, e col meraviglioso svolgimento delle scienze storiche nel sec. XIX, amatori, filologi e storici a raccogliere e a studiare quel ricco patrimonio di poesia di tono minore, sia per amore della poesia stessa, sia in servigio di una scienza anch'essa nuova, anche se non ben definita: il folklore.
Cominciarono, primi, gl'Inglesi. Nella seconda metà del Seicento, passata la moda delle canzonette d'importazione francese e italiana, tornarono in onore le antiche ballate; e intorno al 1650 fu messa insieme la grande raccolta manoscritta che doveva formare la base delle Reliques of ancient Poetry (1765) del Percy. Nel 1711 l'Addison nello Spectator richiamava l'attenzione su Chevy Chase e giudicava che l'epica di queste vecchie ballate non sfigurasse al confronto con l'epica virgiliana. Amici letterati dell'Addison si compiacquero nell'imitare ballate, e nel 1723 comparvero a Londra due volumi di una Collection of old ballads, ai quali se n'aggiunse un terzo nel 1725. Press'a poco contemporaneamente in Scozia il gusto e l'imitazione delle vecchie poesie e melodie popolari divennero generali, mentre in Inghilterra già nella prima metà del secolo la poesia popolare era venuta di moda.
I tre libri delle Reliques del Percy erano stati messi insieme con una certa cura, per quanto non si possa parlare di un'elaborazione che corrisponda alle esigenze filologiche: solo una minima parte dei canti pubblicati erano schiettamente popolari, e l'editore non s'era fatto scrupolo di tagliare, modificare, interpolare e alterare in un modo o in un altro il testo: arbitrio e acrisia che gli furon rimproverati da J. Ritson nelle Observations on the History of English Poetry (1782). Raccolte di canti popolari si susseguirono d'allora in poi sempre più numerose: gli Ancient and Modern Scottish Songs (1769, 2ª ed. 1776) del Herd sono, nonostante le loro deficienze, la prima raccolta attendibile fondata sulla tradizione orale. In Scozia, fra altri, attese amorosamente a raccogliere canti popolari il Burns, e Walter Scott ne seguì l'esempio, aiutato da molti amici: The Minstrelsy of the Scottish Border (1802-3), per quanto non priva d'arbitrio, segna un progresso sulle precedenti sillogi; ma solo dopo il 1824 a un interesse esclusivamente letterario subentrò, per opera di raccoglitori scozzesi quali lo Sharpe, il Buchan, il Motherwell, il Kinloch, la cura di un'esatta riproduzione della tradizione.
L'esempio del Percy e gli accenni del Lessing ai dainos lituani rafforzarono l'amore del Herder per il popolare e il primitivo, spingendolo a ricercare canti dei popoli più diversi, antichi e moderni. Per il Herder la poesia è senz'altro popolare: la primitiva poesia greca "visse nell'orecchio del popolo, sulle labbra e sull'arpa" dei cantori, "fu il fiore dell'individualità di un popolo". "Il più grande cantore dei Greci, Omero, è insieme il più grande poeta popolare", egli scrisse; e in questo appartiene a quella critica romantica che, cominciata con la filosofia del Vico e finita con la filologia di un Lachmann e di un Paris, cercò d'interpretare come popolari i poemi omerici, la Bibbia, i Nibelunghi, la Chanson de Roland. Il Goethe, sotto l'impulso del Herder, raccolse canti alsaziani (Lipsia 1778-79), e fino ai suoi anni più tardi s'interessò ai canti popolari romanzi, neo-ellenici, slavi, ma non pare che prestasse fede a quell'origine collettiva e misteriosa in cui credettero A.W. Schlegel, i Grimm e l'Uhland della Geschichte der altlieutschen Poesie (1830). La fede in questa mitica nascita della poesia popolare tramontò poi rapidamente; già il Hegel faceva distinzione fra l'origine individuale ch'è del canto popolare non meno che della poesia d'arte e la semplicità dei suoi motivi, per la quale il poeta si perde nell'oggetto, cosicché anche "la più concentrata intimità del sentimento" assume l'aspetto di un moto dell'anima popolare; e l'Uhland negli studî posteriori sugli Alte hoch- und niederdeutsche Volkslieder si ricredette e ammise l'origine individuale del canto popolare.
Ma oltreché quale poesia, il canto popolare fu studiato e apprezzato come documento e testimonianza storico-morale dei popoli (non delle plebi: la distinzione fra popolo e plebe è già nel Herder e nel Bürger). Il Goethe (recensione delle Spanische Romanzen tradotte dal Beauregard Pandin) diceva d'intendere per canti del popolo canti che contrassegnano le caratteristiche di un popolo e "ne rappresentano felicemente, se non tutto il carattere, certi tratti fondamentali ed essenziali"; il Hegel (Vorlesungen über Ästhetik, III, Berlino 1838, p. 462) osservava che essi in parte mantengono viva la memoria d'imprese e di avvenimenti nazionali, in parte esprimono immediatamente i sentimenti e le situazioni delle varie classi sociali, la vita in contatto con la natura e le più prossime relazioni umane. Questo carattere nazionale, che già stette a cuore all'Arnim nella preparazione del Des Knaben Wunderhorn, fu messo anche vivamente in rilievo dal Tommaseo (il quale tradusse con potente efficacia anche canti illirici", quei canti che, pubblicati da Vuk Stefanović Karadžić, suonarono all'Europa del principio dell'ottocento come la più profonda e commossa voce del popolo serbo), e fu sempre assai considerato e studiato nel secolo scorso, il secolo delle rivendicazioni nazionali (si pensi per l'Italia alla Storia della poesia popolare italiana del Rubieri, Firenze 1877, ch'è, per questo rispetto, conclusiva).
Col sorgere della filologia nel senso moderno, verso la metà del secolo passato, a un interesse esclusivamente o prevalentemente letterario venne a porsi a lato, e parzialmente a sostituirsi, un interesse preponderantemente storico-filologico. Costantino Nigra fondava, fra il 1854 e il '60, la comparazione dei canti popolari e con i suoi Canti popolari del Piemonte (1888) dava l'esempio di un'edizione condotta con le più severe regole filologiche, pubblicando di uno stesso canto più versioni e lezioni diverse, indagandone la storia, disegnando per il primo le linee dello svolgimento della poesia popolare nei paesi romanzi (a eccezione della Romania, le cui tradizioni anche qui sono altre); S. Grundtvig nei suoi Danmarks gomle Folkeviser (1853-90) e poi il Child con le sue English and Scottish popular Ballads (1882-88) fornirono altre opere insigni per sicurezza di metodo e per ampiezza di sguardo storico. L'esempio di questi maestri non fu vano: innalzandosi sulla folla dei raccoglitori, valenti studiosi volsero le loro indagini anche a questo campo della letteratura per illuminarne i complessi problemi, per l'innanzi non visti né sospettati. Basterà qui fare i nomi, in relazione ai problemi della poesia e del canto popolare italiano, del D'Ancona e del Paris, del Novati e del Barbi.
"Si fa così spesso il nome di canto popolare, e non si sa sempre con chiarezza che cosa con ciò si debba pensare": così il Goethe nel 1823, con tanto maggior ragione in quanto che allora, mentre da una parte si mitizzava l'origine della poesia popolare, se ne allargava dall'altra il concetto fino a comprendervi l'epopea greca e la germanica. Ma il Hegel con sicuro intuito osservava che il canto vero e proprio è "quello destinato ad essere cantato o semplicemente canticchiato fra sé e sé e in brigata"; "i canti popolari... hanno bisogno del canto che li accompagni"; "canti che non vengono al loro tempo generalmente cantati sono di rado genuini" (Vorlesungen cit., III, pp. 460-62). Aveva già detto il Herder che "essenza del Lied è il canto, non la pittura: la sua perfezione è riposta nell'andamento melodico della passione o del sentimento".
Sempre la poesia popolare è stata posta in relazione o identificata col canto, anche se per lungo tempo la raccolta delle melodie è stata trascurata perfino da grandi studiosi, certo soprattutto per il fatto che raccoglitori e filologi di rado erano insieme anche musici o potevano valersi sicuramente di musici. Il canto popolare intanto s'identifica quindi con la poesia popolare in quanto non c'è schietta poesia popolare che non sia cantata; ciò che è in relazione col fatto che propria della poesia popolare è "l'immediatezza della gioia e del dolore"; che essa non ha bisogno "di molto contenuto, di un'interiore grandezza e altezza, ché, al contrario, dignità, nobiltà, gravità di pensieri sarebbero solo di ostacolo al piacere di esprimersi immediatamente" (Hegel); che il "tono popolare" è dato da "quella semplicità e ingenuità di sentimento" della quale ha così bene ragionato il Croce. Il canto popolare non è distinguibile dalla poesia popolare, la quale è tale non perché creata collettivamente dal popolo né perché confinata fra le classi sociali inferiori (anche se questa possa essere la condizione dei tempi più moderni, che per tale rispetto conservano più che non innovino o creino originalmente, a differenza di altri tempi nei quali la diversità fra poesia popolare e poesia d'arte era meno forte, e la poesia non era fatta soltanto per esser letta), ma perché esprime sentimenti lievi e generalmente umani o narra con semplicità di accento avvenimenti e leggende senza che vi si mostri spiccatamente e indissolubilmente l'individualità del creatore. Il progredire delle indagini, mentre ha mostrato che all'origine di ogni canto c'è sempre un individuo poetante, che la fioritura di generi di poesia popolare coincide con epoche di diffusa cultura poetica nelle quali "la poesia viveva di vita reale presso ogni classe, e le sue condizioni presso il popolo erano tali da potersi perfezionare e raffinare assai, non per precetti o per istudio dotto o teorico, ma per fatto di esperienza e di felice disposizione poetica dell'animo di tutti" (D. Comparetti, in Rassegna settimanale, 21 luglio 1878, p. 47), ha provato anche che la distinzione fra poesia popolare e poesia d'arte se da una parte è meramente psicologica, non d'essenza ("c'è solo una poesia, la schietta, vera; tutto il resto è solo approssimazione e apparenza", Goethe, recensione [1828], dei Dainos pubblicati da L. J. Rhesa), dall'altra, storicamente, tende a ridursi di molto. Si è anche visto che per questo suo tono e fondamento psicologico e per le sue origini e i modi attraverso i quali vive e vien trasmessa innovandosi, la poesia popolare è legata strettamente al canto, è indissolubile dal canto e dalla melodia, anch'essi, naturalmente, "popolari", e sottomessi alle stesse vicende della vita delle parole. Dal suo contenuto psicologico e dal suo tono poetico, dalla sua indissolubile unione con la melodia (anzi, dalla sua subordinazione alla melodia), il canto popolare riceve la sua caratteristica e prende i modi della sua diffusione e persistenza. Il predominio della melodia è stato più volte messo in rilievo: e chiunque ha sentito cantare canti popolari o li ha raccolti, ha notato come dal ricordo della melodia venga risvegliata la memoria delle parole; come venendo meno questa memoria il testo verbale sia alterato e la capacità poetica del cantore supplisca alle lacune; come uno stesso testo possa venire adattato a una nuova melodia assumendo una nuova andatura. Naturalmente, quel che vale per le parole vale anche per le melodie: anch'esse si mutano; anch'esse sono spesso, particolarmente all'inizio e alla fine, contaminate; anch'esse accolgono facilmente formule melodiche; anch'esse, adattandosi a nuove circostanze, cambiano la loro andatura.
Il predominio della melodia sulla parola è dunque una prima causa della trasformazione del testo di un canto popolare che - non avendo diritti di autore e non essendo normalmente affidato alla tradizione scritta, fatto com'è per essere non letto ma, appunto, cantato - si trasforma e varia in maniera incomparabilmente più profonda e più rapida che non poesie d'arte, anche prima che fossero generalmente diffuse la scrittura e la stampa. Se già nell'antichità classica si cercò di restituire testi alla loro forma genuina, di fare edizioni critiche che riproducessero l'originale o si avvicinassero quanto più era possibile all'originale, nessuno ha mai preteso di ricostruire la forma originaria di un canto popolare. La critica dei testi popolari cerca soltanto di constatarne l'effettiva popolarità basandosi sul fatto ch'essi vengano largamente cantati, di assegnarne - quando e come è possibile - l'origine, di fissarne l'area e i modi di diffusione, di determinarne con la maggiore larghezza ed esattezza la tradizione, che in questo caso non è comparabile alla recensione nella critica dei testi manoscritti. Di qui l'importanza addirittura essenziale della raccolta delle varie versioni di uno stesso canto e delle differenti lezioni, perché qui ogni tradizione ha valore di per sé e non rispetto a un originale o a un archetipo; qui le varianti forse più che non nella critica di testi dotti sono "studio e d'estetica e d'alta filologia" (Tommaseo, Dizion. estetico, 4ª ed., Firenze 1867, col. 758); qui le diverse lezioni di un medesimo canto sono talvolta per uno studioso più importanti di canti nuovi, come avverte il Barbi.
Solo questa particolare critica dei testi, solo un'accurata comparazione ci possono porre in grado di fissare la caratteristica della tradizione (che è la loro vita stessa) dei canti popolari nelle sue linee generali e nei suoi casi particolari, di liberarci da generalità astratte per seguire il flusso del corso storico. Il passaggio dall'antico modo di raccogliere e di pubblicare canti popolari alla nuova maniera critica iniziata dai Grundtvig, dai Nigra, dai Child è in certa guisa paragonabile al passaggio dalla grammatica empirica o astratta o puristica alla linguistica comparata e storica fondata dagli Humboldt, dai Bopp e dai Grimm. Ripetizioni d'immagini, di versi interi, formule, contaminazioni, paragoni costantemente ritornanti, ritornelli lirici, influenze della lingua letteraria e della poesia semiletteraria, nonché di mode linguistiche, adattamenti a circostanze diverse, la preferenza accordata a certi numeri (come il 3, e anche il 2): queste e altre caratteristiche possono essere rilevate solo sul fondamento di un'ampia raccolta e di raffronti precisi.
Canti narrativi, epici e religiosi, leggende e canti enumerativi e iterativi, canti d'amore e satirici, occasionali e di questua, soldateschi e di mestieri, canti per giochi fanciulleschi, indovinelli, preghiere e ninnenanne: ecco specie di canti cui minori varietà e distinzioni potrebbero essere aggiunte; specie, fra le quali a ogni modo è difficile, anzi impossibile, segnare linee di divisione precisa: ché, pur restando la stessa la loro forma metrico-musicale, esse potranno assumere un contenuto diverso (numerosissimi le leggende e i canti religiosi esemplati su metri profani); oppure venire adattate ad altri usi e circostanze (molti i canti epico-lirici, da danza o erotici decaduti a canti fanciulleschi; non pochi i canti di varia specie che le madri usano come ninnenanne), cambiando, o anche mantenendo, la loro andatura e melodia. Ogni distinzione astratta si rivela quindi insufficiente ad adeguarsi all'effettivo processo storico, che può essere seguito di volta in volta quando e fin dove il materiale e le testimonianze lo permettono. Qui s'indicheranno, per conseguenza, soltanto alcuni aspetti generali dello svolgimento storico del canto popolare, e alcuni generi i quali, sia per il valore artistico di molte delle composizioni che sotto di essi si comprendono, sia anche per il loro valore storico, sorpassano decisamente gli altri e minori generi destinati a usi determinati e nati in cerchie più ristrette oppure più legati alle circostanze della vita di ogni giorno, facenti parte - anzi - della vita quotidiana, e perciò più poveri, o addirittura privi, d'arte.
E innanzi tutto converrà rilevare che, se canti popolari sono sempre esistiti, poco sappiamo dei canti dell'antichità e del Medioevo; che i più antichi canti delle genti germaniche e romanze nelle forme che poi si sono continuate e sono vive tuttora risalgono ai secoli XIV e XV; che la fioritura del canto popolare presso queste genti cade, con differenze più o meno notevoli, ma insomma generalmente e approssimativamente, fra il Trecento e la fine del Cinquecento. Grandi le diversità delle forme, ma non insignificanti, neppure, le analogie e le affinità. Ché se lo strambotto e lo stornello dell'Italia centrale e meridionale sono forme indipendenti e diverse dalle coplas spagnole, dai distici greci, dagli Schnaderhüpfeln specialmente diffusi nelle regioni alpine di lingua tedesca ma in esse non localizzati, e un genere a parte formano i romances epici della Castiglia passati anche in Portogallo; la canzone epico-lirica, originaria della Francia settentrionale, è la specie di canzone più bella e diffusa non solo in Francia ma anche in Catalogna e presso le popolazioni gallo-italiche, dalle quali (e particolarmente dal Piemonte) passò poi, in misura maggiore o minore, nel resto d'Italia. Più generalmente, siccome "la maniera dei canti, la loro semplice forma, l'ingenua espressione, facilitava gli scambî fra lingue e dialetti differenti; e le melodie sono un linguaggio dovunque intelligibile" (Uhland, Schriflen zur Geschichte der Dichtung und Sage, ed. Pfeiffer, Stoccarda 1866, III, p. 9), potrebbe darsi che le somiglianze delle ballate epico-liriche delle genti germaniche col canto epico-lirico delle popolazioni celto-romanze non fossero unicamente di contenuto. Ma a parte questa questione, rispetto alla quale lo stato attuale delle indagini e le difficoltà che le sono inerenti non permettono affermazioni più precise in un senso o in un altro, è innegabile che lo svolgimento storico del canto popolare presso le popolazioni germaniche è press'a poco uguale e parallelo allo svolgimento celto-romanzo e romanzo. Certi motivi fantastici mitici e visionarî proprî della ballata germanica quale è diffusa in Inghilterra e in Scozia, nella Scandinavia, in Germania e nei Paesi Bassi (e il cui spirito vive in parte anche nei cosiddetti Cowboy Songs cantati nella California e nell'Idaho come nel Texas), sono estranei alla canzone epico-lirica romanza; i canti storici (così numerosi in Germania: si pensi a Sempach, a Die schöne Bernauerin, a Kunz von Kaafungen, ecc.) sono naturalmente altri e diversi; e s'è già accennato che il gusto per il vecchio tesoro dei canti popolari si destò fin dai primi del Settecento in paesi germanici presso letterati e critici, e passò poi ai paesi neolatini; mentre la poesia d'arte nelle lingue germaniche per circostanze ben note derivò ben più di quella romanza motivi e forme dalla vecchia ballata, e questa poesia d'arte divenne a sua volta popolare. Ma accanto a queste differenze, alcune delle quali (come le ultime) sono di cronologia e d'intensità più che non d'essenza e in fondo provano una generale unità di processo e si riferiscono al gusto letterario più che alla forma del canto popolare, non vanno trascurate le affinità, quali, in primo luogo, la somiglianza del tono e dell'andamento fra ballata germanica e canzone epico-lirica celto-romanza; il fatto che le più antiche ballate germaniche risalgono ai secoli XIV e XV in Danimarca, che ne è la patria nel Settentrione scandinavo, e che vecchie ballate inglesi come Chevy Chase e quella sulla battaglia d'Otterbourn rimontano, probabilmente, al sec. XV, alla cui seconda metà si riportano, in Inghilterra, le più antiche testimonianze di ballate popolari; e la circostanza che anche nei paesi germanici il gusto per il vecchio canto popolare diminuisce o vien meno presso le classi sociali superiori (e continua perciò a vivere quasi esclusivamente fra i volghi) nel Seicento: agli inizî del secolo in Inghilterra, alla metà in Danimarca. Se le differenze sono grandi, notevoli sono dunque le analogie e le concordanze, sicché forse, come per il generale svolgimento dell'epica e della lirica medievale, per il moto del pensiero e del gusto dal Medioevo in poi, non è del tutto fantastico pensare che anche nel canto popolare ci siano per avventura fra mondo germanico e romanzo (o celto-romanzo) relazioni più strette di quel che a prima vista, e anche sotto la suggestione del pregiudizio romantico della "nazionalità" del canto popolare, potrebbe parere.
Il canto popolare italiano. - Venendo ora a considerare più davvicino le condizioni italiane, non c'indugeremo intorno alle preghiere e giaculatorie, ai canti per giochi fanciulleschi, alle cantilene e ninnenanne; manifestazioni, queste, che sono meno significative e che interessano più gli usi e costumi popolari che non la fantasia e il sentimento quali si esprimono nel canto; e trascureremo completamente quei componimenti (quali le storie toscane in ottava rima) i quali sono recitati, non cantati, e appartengono alla letteratura popolareggiante diffusa attraverso stampe o copie manoscritte o cantastorie, non al canto popolare; e sarà appena il caso di accennare a un'antica forma di poesia popolareggiante, poco studiata ma ancor oggi viva e assai diffusa in alcune parti della Toscana (soprattutto nel Lucchese), la zingaresca, la quale metricamente consta di strofe di tre settenarî e di un quinario: i versi 2 e 3 rimano fra di loro, e così il primo settenario di ogni strofa col quinario della strofa precedente. Alcuni componimenti cantavano, e anche cantano, delle arti della "zingara", ma il contenuto di questo genere è assai vario: ci sono zingaresche religiose e altre che, lasciata la forma lirica, si sono trasformate nel contrasto e nella rappresentazione drammatica.
Per il loro valore artistico e per la loro diffusione, ci limitiamo qui a caratterizzare le canzoni epico-liriche, le leggende religiose, le canzoni enumerative e iterative, le forme del canto lirico monostrofico, e, anche, i canti di questua, cominciando dalle canzoni epico-liriche.
Dal punto di vista metrico, per canzone epico-lirica s'intende "la canzone coi versi ordinariamente divisi in due membretti, uguali o no, e con la cesura piana se la seconda parte finisce in ossitono, e viceversa; legati, dall'assonanza più che dalla rima, in strofe rese spesso, in apparenza, più o meno complicate dalla ripetizione dei versi o degli emistichi e dal ritornello. Per lo più queste canzoni sono o monorime, o a coppie di due versi assonanti fra loro, o a terzetti del tipo ABB per modo che se i versi assonanti sono ossitoni, il verso sciolto è piano, e viceversa" (Barbi, Per la storia della poesia popolare in Italia, in Miscellanea di studi... dedic. a P. Rajna, Firenze 1911, p. 88 n.). Una simile costruzione, mancando d'una forma fissa, consente - come nessun'altra - modificazioni e trasformazioni; la sua semplicità, la varietà del contenuto, i tratti spesso rudi ma di grande vigoria ed evidenza (caratteri che si ritrovano poi anche nelle melodie), fanno della canzone epico-lirica una forma di canto veramente "popolare", schietta e piacente. La canzone epico-lirica narra fatti storici, casi romanzeschi e familiari, per lo più tragici: la passione e la tentata uccisione del marito da parte della Donna Lombarda e la sua morte per mezzo di quello stesso veleno ch'ella voleva dare allo sposo; i tristi casi della figlia del re di Francia andata moglie a un lontano principe che la batte tre volte al dì: un giorno ella lavava i panni al canale e i suoi fratelli la prendono per cameriera e non la riconoscono, finché, rivelatasi, uccidono il feroce marito; la sorte della bella Cecilia che s'adatta a dormire col capitano per salvare la vita allo sposo e sacrifica inutilmente l'onore perché il marito viene impiccato lo stesso ed ella si chiude in una disperazione senza conforto; il caso degli scolari che sul ponte di Tolosa (o Pontoise) incontrano e baciano una ragazza e il giudice li fa impiccare: ma il potente fratello del più giovane scolaro viene e taglia la testa al giudice: "noi daremo il fuoco a Tolosa, bruceremo piccoli e grandi"; o quello della giovinetta sposa che il giorno dopo le nozze è abbandonata dal marito che parte per la guerra e sta sette anni senza tornare: passa il Moro, il gran Moro Saracino, rapisce la bella Fiorenza e la porta al suo paese finché dopo sette anni torna il marito che, non trovando Fiorenza, si mette in cammino: tre lavandaie gl'insegnano il castello del gran Moro, ed egli per penetrarvi cambia il suo abito di paggio o cavaliere in quello d'un pellegrino che chiede l'elemosina: "nel fargli l'elemosina gli ha visto il suo anello sul dito; e Fiorenza lo conobbe, ch'era il suo primo marito. Se ne va alla scuderia, monta in sella al caval grigio: - Statemi allegre, mie cameriere, io me ne torno al mio paese -. Il Moro dalla finestra si mette a piangere, e a gemere: - Averla mantenuta sette anni senza neanche toccarle un dito!"; l'atto della Monferrina (o della bella Inglese) che se ne va al castello del suo novello sposo, e nessuno dei due parla, finchè: "Guardate là - dice lo sposo - bella Monferrina, quel castello sì ben murato: io cinquanta e due Monferrine, io là dentro ho già menato: le cinquanta e due Monferrine io la testa lor tagliai: altrettanto farò, Monferrina, quando voi sarete là"; e allora ella si fa dare la spada col pretesto di tagliare una frasca per far ombra al suo cavallo, e la pianta nel cuore dell'uccisore di donne; oppure (per citare un ultimo canto) il Testamento del capitano che, ferito mortalmente, manda a chiamare i suoi soldati, e comanda che il suo corpo sia fatto a pezzi e venga diviso fra il suo re, il suo battaglione, le montagne dove ha combattuto, la sua mamma e la sua donna: un canto ancor oggi dei più diffusi e belli per epica grandiosità fra gl'Italiani. Questi, e altri simili a questi (ma non son tutti di tragedia o di morte: notissimi, fra quelli d'altra ispirazione, i Tre Tamburi e La pesca dell'anello), i motivi delle canzoni epico-liriche, semplici, eppure spesso di vivace potenza fantastica, primitive come fattura ma di energica evidenza di tratti, prive di riecheggiamenti della poesia culta e di modi della lingua letteraria, eminentemente "popolari" per l'ingenua magrezza del motivo, per il tono, l'andamento del ritmo, per la diffusione grandissima: l'unica forma di poesia epica d'intonazione antica che abbia avuto l'Italia sebbene le origini debbano esserne ricercate nella Francia d'oïl.
Il Nigra dimostrò per il primo come in Italia le canzoni epicoliriche fossero proprie delle popolazioni di parlari gallo-italici, e, a parte la mitica derivazione da un sostrato celtico, chiarì, sulla base d'una rigorosa indagine comparativa, come una parte di esse fossero esclusivamente italiane, specialmente piemontesi, e una parte anche maggiore fosse comune a tutte le genti celto-romanze della Francia, della Provenza, dell'Italia settentrionale, della Catalogna, e - secondo il Nigra - anche del Portogallo. Difficile poter indicare di volta in volta la patria originaria d'un canto, ma doversi in generale ammettere, per quanto canti possano essere giunti in Piemonte direttamente dalla Francia d'oïl, essere la Provenza (ossia la Francia d'oc) il centro di trasmissione e, verosimilmente, il più attivo luogo di produzione. Ad alcuni punti di questa ardita costruzione storica del Nigra, che nelle sue linee maestre resta tuttora fondamentale, rivolse obiezioni, che la critica ha ritenuto decisive, G. Paris, il quale mostrò come il Portogallo debba venire staccato dal gruppo celto-romanzo ed essere riunito alla Castiglia sia dal punto di vista del ritmo sia dal punto di vista della poesia popolare per i romances epici che ha in comune con la Castiglia; avvicinò maggiormente il patrimonio poetico della Francia, del Piemonte e della Catalogna (regioni più strettamente imparentate, soprattutto dal punto di vista ritmico) al tesoro epico-lirico della Spagna, della Bretagna, dei paesi germanici, della Grecia, delle genti slave e dell'Ungheria; poté affermare, fondandosi sullo studio delle assonanze e delle rime, "che la Francia settentrionale è il focolare principale della poesia popolare dei vicini paesi romanzi in ciò che essa ha di più interessante"; escluse nettamente (né il Nigra l'aveva ammessa) qualsiasi relazione fra le nostre poesie epico-liriche e le canzoni di gesta medievali per molteplici segni, soprattutto per l'andamento e lo stile delle prime e per la loro brevità che contrasta con l'ampiezza della narrazione epica.
Quanto all'origine, ammetteremo dunque che la Francia settentrionale è stata la prima patria delle canzoni epico-liriche, le quali si sono poi largamente diffuse in Provenza, in Catalogna, nell'Italia settentrionale e specialmente nel Piemonte, variamente modificandosi e adattandosi e dando, con la loro esistenza, occasione a canzoni nuove dello stesso tipo, diffusesi a loro volta in un'area più o meno ampia. E rispetto all'Italia, riconfermando che le canzoni epico-liriche hanno quale centro d'irradiazione il Piemonte, bisognerà però aggiungere che si sono diffuse (conservando di solito, come mostra l'esempio che qui diamo della Donna Lombarda, da versione a versione, il medesimo spunto melodico, nonostante varianti ritmiche e modali) ben oltre i confini dei dialetti gallo-italici; e non solo il Veneto ne ha molte, ma moltissime ne ha la Toscana, in lezioni e versioni molto numerose, come ha provato la raccolta Barbi; più o meno (per quanto bisogni stare ai risultati dei raccoglitori, non sempre intelligenti e sagaci) esse si trovano sparse in tutta Italia fino all'estrema Sicilia. La stretta delimitazione che parve esistere un tempo si è rivelata insussistente: invece che d'una linea di confine sarà piuttosto il caso di parlare d'un'intensità più o meno grande, ma d'una presenza costante per tutta l'Italia.
Quando sorse il genere delle canzoni epico-liriche? Il Nigra, fondandosi sul principio che "la poesia storica veramente popolare e tradizionale è coeva col fatto narrato" e credendo di poter identificare alcuni casi (storici?) di certe canzoni, non temette di spingersi fino all'alto Medioevo. Il Paris additò facilmente la fragilità di tale principio e provò che nessun indice interno permette di credere quelle canzoni anteriori al sec. XVI o alla seconda metà del XV; mentre le più antiche testimonianze, francesi settentrionali, si trovano in "manoscritti del sec. XVI o dell'ultima fine del XV, e in raccolte stampate nel Cinquecento". La più antica testimonianza italiana, trovata dal Barbi in una stampa del Liceo musicale di Bologna, è del 1541.
I canti religiosi raccontano fatti ricordati nella Scrittura e nei Vangeli apocrifi, leggende agiografiche ed edificanti, la vita e soprattutto le pene nell'oltretomba. Un primo gruppo di questi canti religiosi lo troviamo in Piemonte, nella stessa forma metrico-musicale delle canzoni epico-liriche: ma sono pochi e poeticamente poco notevoli. La Toscana possiede alcune leggende religiose in forma epico-lirica, che una volta dovevano essere cantate; altre, di vario genere, sulla "Passione"; leggende di santi, in endecasillabi a rima baciata, provenienti dall'Umbria e dalla Romagna, sono mal conservate perché venivano recitate, non cantate.
Grande importanza hanno, invece, i canti dell'Umbria e dell'Abruzzo (orazioni), i più numerosi e antichi e belli fra i religiosi. Sono di varia lunghezza (ma non oltrepassano i 150-200 versi) e costituiti da endecasillabi rimanti e assonanti per lo più a due a due, ma anche a tre, alternantisi con versi sciolti. Uno studio accurato di queste leggende non è stato ancora fatto, ed è difficile, dato il materiale finora pubblicato, giungere a conclusioni precise. Non è però forse lontano dal vero supporre che il metro di questi canti religiosi fosse originariamente costituito da serie di due endecasillabi fra loro rimanti o assonanti. Alla ripetizione del secondo di essi si deve essere poi sostituita la rima o assonanza con un terzo verso, mentre la labilità della memoria e la dimenticanza della precisa forma metrica possono aver generato i versi sciolti. Fra queste orazioni umbro-abruzzesi particolare rilievo assumono i canti della "Passione"; episodî d'una versione abruzzese, edita dal Finamore, sono stati parafrasati dal D'Annunzio nella Figlia di Iorio. Dall'Umbria e dall'Abruzzo tali canti si sono diffusi, anche, da una parte nel Mezzogiorno, dall'altra nel Veneto. La loro origine coincide probabilmente col fiorire della poesia drammatica e religiosa umbra.
Nettamente distinte dalle leggende e dai canti religiosi sopra descritti vanno le storie siciliane, che sono molto più tarde (certo non anteriori, le più antiche, al Cinque e Seicento): poemetti in ottave, a imitazione delle storie toscane in ottava rima, talvolta assai lunghi, e incatenati, tali cioè che l'ultimo verso di un'ottava rima col primo dell'ottava successiva. Più che a un canto popolare, ci troviamo qui davanti a una poesia popolareggiante di scarso pregio artistico, opera di compositori semicolti, il cui nome, insieme con la data e il luogo d'origine, è spesso dichiarato alla fine.
Trascurando altre canzoni, alcune delle quali assai antiche, meritano di esser poi ricordate per la loro diffusione, dovuta alla facile musicalità, le canzoni enumerative e le canzoni iterative, che hanno a fondamento il gusto dell'enumerare e del ripetere. Per canzone iterativa s'intende propriamente "un canto nel quale uno stesso motivo vien ripreso a regolari intervalli in strofe del tutto simili, fra le quali, successivamente, la differenza è data solo dal mutamento (che fa sì che il canto possa procedere) di qualche nome o di qualche particolare, e alle quali spesso, in eguale posizione, viene aggiunta una ripresa, la maggior parte delle volte progressiva, o un ritornello, che talora è insieme e ripresa e ritornello" (V. Santoli, Nuove questioni di poesia popolare, Torino 1930, p. 44). Queste canzoni, finora poco considerate e non precisamente individuate, sono state accuratamente ricercate in Toscana dal Barbi, che ne ha molte nella sua raccolta.
Dei canti lirici, lo strambotto è la forma di gran lunga più importante, diffuso per tutta Italia, anche presso le genti gallo-italiche, ma fiorente soprattutto in Toscana e in Sicilia, donde l'ipotesi del D'Ancona che esso "abbia per patria l'isola, e per patria d'adozione la Toscana: che, usato con veste di dialetto in Sicilia, in Toscana abbia assunto forma illustre e comune, e con siffatta veste novella sia migrato nelle altre provincie" (La poesia popolare italiana, 2ª ed., pp. 323-24); e l'altra, che esso in origine fosse un quadernario che poi avrebbe assunto una coda, in Toscana le "riprese", e sarebbe rimasto tale e quale nel Settentrione. A questa teoria monogenetica del canto lirico italiano rivolsero obiezioni A. Ive e I. Sanesi; e il Barbi, sottoponendo a più precisa indagine le forme dello strambotto, notò che, guardando bene, esse sono tutt'altro che simili, "che il quadernario nell'Italia superiore non è quasi mai a rime alterne, ma generalmente nella forma ABCC oppure AABB; che lo strambotto romagnolo (AABBCCDD. . .) ha un procedimento tutto diverso dall'ottava siciliana, e, complessivamente, anche dal rispetto toscano; e che mentre nella canzuna (ABABABAB) il concetto viene a svolgersi con libertà per tutto il canto, nel rispetto (ABABCCDD) si deve condensare nel quadernario a rime alterne, per poi ribattere, nelle riprese, sul particolare che più importa; oppure accennare nella prima parte a circostanze esteriori, per manifestare poi il sentimento vero nella seconda". Inoltre, "anche gli usi ai quali il canto è fatto servire e il modo stesso di cantare valgono a modificare notevolmente le forme proprie di ciascuna regione: e così per accompagnare il ballo la villotta si fa doppia o tripla, o assume lunghe code; moltiplica le sue riprese il rispetto; prolunga la sua serie di distici lo strambotto romagnolo; e persino lo stornello marchigiano assume le riprese, tanto da farsi capace di esprimere i medesimi sentimenti che il rispetto e da confondersi con esso" (scritto cit., pp. 93-96). Nonostante, quindi, somiglianze e scambî, le differenze sono così notevoli da porre molto in dubbio l'ipotesi monogenetica.
A qual tempo risale lo strambotto, e a quando il patrimonio tuttora vivo di questa più importante forma del canto lirico monostrofico italiano? Il genere in sé, come inducono a credere la sua forma fissa, l'andamento della frase, il linguaggio in cui sono innegabili i segni dell'antica poesia culta d' amore, è probabile che sia nato in Toscana sotto l'influenza della lirica d'arte nel Tre e Quattrocento, quando questa lirica stessa non era patrimonio di pochi ma largamente diffusa nelle classi più alte e nella borghesia cittadina: il passaggio di forme derivate da essa anche nelle classi inferiori, le quali ne rimasero poi quasi uniche depositarie ed eredi, è un processo facilmente spiegabile e noto. Un fenomeno analogo può essere avvenuto in Sicilia, paese di vecchie tradizioni di poesia lirica volgare, dove il passaggio (continuatosi nei secoli successivi e perdurante fino ai giorni nostri) di canti dalla penna di poeti, ora culti (come il Veneziano, il Rau e altri del sec. XVII) ora rustici, alla bocca del popolo è ben documentato. Il patrimonio degli strambotti siciliani, assai più artificiosi dei toscani, è piuttosto recente, risalendo non più addietro del Cinque o Seicento; e questo si spiega con le condizioni storiche dell'isola, alquanto diverse e separate da quelle del resto d'Italia.
Per stornello (detto anche fiore, ritornello, mottetto, novella) s'intende un breve componimento lirico, destinato generalmente al canto amebeo, il quale presenta due forme principali: a) tre endecasillabi, dei quali il primo e il terzo hanno fra di loro rima o assonanza, mentre il secondo osserva la consonanza atona; b) un quinario (o altro verso breve) il quale contiene l'invocazione d'un fiore o simile, e due endecasillabi, il primo e l'ultimo verso al solito, rimanti o assonanti, il secondo con la consonanza atona. Al pari dello strambotto, anche lo stornello ha per solito un' ispirazione amorosa o di passioni (come l'odio, la gelosia, l'invidia) connesse con la vita dell'amore, con le sue gioie e le sue pene, con i suoi sogni e le sue delusioni. Sua patria d'origine è l'Italia centrale: diffuso anche per tutto il Mezzogiorno, è scarsamente popolare nel Settentrione. Le più antiche testimonianze, trovate dal Barbi, sono in codici del sec. XVII: esso pare quindi molto più recente dello strambotto. Per la sua costruzione semplicissima e musicalissima, è un genere estremamente popolare.
Una varietà o corruzione dello stornello, osservabile specialmente in Sicilia, è il distico di endecasillabi rimanti o assonanti. Tale corruzione è dovuta verosimilmente al fatto che, come è detto appresso, lo stornello suole spesso essere interrotto fra una parte e l'altra dall'inserzione di un ritornello. Questa interruzione poi ha condotto gli studiosi a considerare un distico come una forma in sé compiuta.
Quale una nuova specie di canto lirico monostrofico può essere additato il tetrastico di endecasillabi (ABAB), non in quanto esso deriva dal rispetto che ha perduto le riprese o dallo stornello al quale è stato aggiunto (letterariamente, non musicalmente) un verso, ma come una molto moderna forma poetica ormai autonoma. La quale più semplice e breve del rispetto e metricamente identica ad esso nei suoi primi quattro versi; più semplice, non richiedendo la consonanza atona, dello stornello stesso, e ad esso musicalmente identica, è venuta ad essere la più diffusa e attualmente viva tra le forme del canto lirico monostrofico in Toscana" (Santoli, Nuove Questioni, cit., p. 43)
Chi canta, spesso fra un canto e l'altro o fra una parte e l'altra dello stornello (talvolta anche dello strambotto) suole intercalare un ritornello o rifiorita, di varia forma e intonazione, a seconda dell'aria sulla quale viene cantato lo stornello. Da quest'uso di intramezzare il canto dello stornello con un ritornello è derivato il fatto comune nel Lazio, che allo stornello è stato dato il nome di ritornello: uno scambio che è passato anche presso raccoglitori come il Blessig, lo Schuchardt e altri.
Un ultimo e minore genere di canti è anche opportuno ricordare: i canti di questua intonati da brigate di giovani in varie occasioni, per lo più per l'epifania (befanata profana: v. befanata) e per l'inizio del mese di maggio (maggio lirico), nei quali i cantori, dopo i saluti e gli augurî, finiscono col domandare doni. Alcuni di questi canti sono fissi, tali cioè che vengono ripetuti d'anno in anno tali e quali, altri si rinnovano ogni anno perché riescano adatti alle varie circostanze.
Oltre alle befanate e ai maggi profani, esistono pure befanate e maggi religiosi per raccogliere offerte in suffragio delle anime del Purgatorio; e così il maggio come la befanata hanno assunto anche la forma drammatica: i maggi drammatici sono anzi la manifestazione più importante del teatro popolare toscano. Ma qui si esce fuori dei limiti del canto popolare vero e proprio per entrare in quelli della letteratura popolaresca e popolareggiante, che non è da trattare in questa sede.
Bibl.: Notizie assai abbondanti intorno al canto popolare sono contenute, per i paesi germanici, nelle sezioni relative alla poesia popolare scandinava, tedesca e olandese, inglese del Grundriss der germanischen Philol. del Paul, II, i, Strasburgo 1893, pp. 718-856, redatte rispettivamente da J. A. Lundell, J. Meier (che s'è limitato a un'amplissima bibliografia, la quale, nella 2ª ed., giunge fino al 1909), A. Brandl. - Sul concetto di poesia popolare, sul "tono popolare" nella letteratura, nonché per la critica del pregiudizio romantico del "popolare", B. Croce, Poesia "popolare" e poesia "d'arte", Bari 1930. - Un bello studio delle melodie popolari delle loro origini e trasformazioni e delle loro relazioni con la musica moderna è quello di J. Tiersot, Histoire de la chanson populaire en France, Parigi 1889. - Sulla storia del canto popolare in Italia son fondamentali, oltre al Nigra, A. d'Ancona, La poesia popol. ital., Livorno 1878, 2ª ed., ivi 1906; G. Paris, Les chants popul. du Piémont (recens. ai Canti del Nigra), in Journal des Savants, sett.-nov. 1889; M. Barbi, per la storia della poesia pop. in Italia, in Studi... dedicati a P. Rajna, Firenze 19211, pp. 87-117. - Sulla larga diffusione in Toscana delle canzoni epico-liriche, M. Barbi, Poesia popol. pistoiese, Firenze 1895; id., Per la storia..., cit.; id., Scibilia Nobili, Torino 1929; V. Santoli, Nuove questioni di poesia popolare, Torino 1930. - Sui canti religiosi, notizie in R. Magnanelli, Canti narrativi religiosi del popolo italiano, Roma 1909, e in P. Toschi, La poesia religiosa del popolo italiano, Firenze [1922]. - Per la questione della monogenesi o poligenesi del canto lirico monostrofico, oltre al D'Ancona, al Nigra e al Barbi, si veda l'Introduzione ai Canti popolari velletrani di A. Ive, Roma 1907 e le pagine di I. Sanesi, in Critica, IV, pp. 284-308; VII, pp. 51-63. - Sull'età del nostro patrimonio di canti lirici monostrofici, Barbi, Per la storia..., cit.; F. Novati, Contributo alla storia della lirica musicale italiana popolare e popolareggiante dei secoli XV, XVI e XVII, in Miscellanea Renier, Torino 1912, pp. 899-980. - Sulle canzoni iterative, V. Santoli, Nuove Questioni..., cit., pp. 43-55. - Sullo stornello, H. Schuchardt, Ritornell und Terzine, Halle 1874. - La Bibliografia delle tradizioni popolari d'Italia di G. Pitrè, Torino-Palermo 1894, aspetta d'essere continuata da R. Corso. Un supplemento per gli anni 1925-26 è stato dato da L. Sorrento in Aevum, I (1927), pp. 635-782.