Canzone, nazione, regione
Sono in molti a sostenere che la canzone, la canzone in italiano, abbia svolto un’importante funzione di integrazione culturale in un Paese con una lunga storia di frammentazione alle spalle e una scarsa diffusione dell’alfabetismo ancora nei primi decenni del Novecento. Attraverso la canzone anche chi non aveva familiarità con la lingua italiana poteva misurarsi con una sintassi, una grammatica e un vocabolario che erano nazionali (La lingua cantata, 1994; Parole in musica, 1996; Antonelli 2010). In questo senso, la canzone avrebbe ricoperto in questi ultimi decenni un ruolo politico cruciale contribuendo – in termini quantitativamente ingenti stando alle ore (e agli orari) di trasmissioni radiofoniche e televisive dedicate a essa, oltre che alle vendite di dischi e alla diffusione di manifestazioni canore dal vivo – alla costruzione della nazione, alla produzione dell’italianità.
Che in Italia la canzone sia fenomeno tutt’altro che marginale è del resto cosa nota. A ricordarci la sua rilevanza, la sua ubiquità, basterebbe l’esempio di un capo del governo (di origini lombarde e comunque milanese di adozione) appassionato di canzoni in dialetto napoletano tanto da comporle e interpretarle (e registrarle su disco ufficiale), e di un premio Nobel per la letteratura che di canzoni nella sua lunga carriera ne ha scritte e cantate e incise a decine. L’immagine internazionale dell’Italia passa poi come noto anche da classici della canzone come “’O sole mio” e “Volare” (ovvero “Nel blu, dipinto di blu”), dalla celebrità di cantanti (lirici, ma che non disdegnavano affatto di cantare canzoni) come Enrico Caruso (1873-1921), Beniamino Gigli (1890-1957) e Luciano Pavarotti (1935-2007), e naturalmente dallo stereotipo dell’italiano suonatore di mandolino che tanto infastidiva Benito Mussolini. Ma la canzone non è certo genere specificamente italiano, e anzi proprio dall’invasione di canti, voci e suoni, ovvero canzoni straniere e dai modi della loro ricezione, è dipesa buona parte della storia moderna (anche) della canzone italiana.
Nonostante la sua ubiquità, o forse proprio per questo, l’oggetto ‘canzone’ resta peraltro concettualmente sfuggente. Ci accontenteremo qui di una definizione minima, essenziale, che identifica come canzone qualunque «composizione di musica e testo» che abbia le proprietà di essere breve e di contenere ripetizioni (Fabbri 2001, p. 552). Se la brevità è un tratto di non facile applicazione (quanto breve? cosa distingue una lunga canzone da un breve pezzo di musica da camera?), la struttura ripetitiva è una delle proprietà necessarie della forma canzone (R. Middleton, Studying popular music, 1990; trad. it. 1994). Una terza caratteristica, non essenziale al concetto di canzone, ma presumibilmente alla sua persistenza ed esistenza nel mondo contemporaneo, è la connessione con il disco o più precisamente con l’incisione fonografica.
Ovviamente, anche prima dell’avvento della tecnologia del disco esistevano canzoni, componimenti brevi di musica e testo o parole. Eseguite dal vivo o tradotte in notazioni su carta (sotto forma di spartiti a stampa, fogli volanti, canzonieri e quant’altro), le canzoni erano espressioni culturali ben note anche a chi ha vissuto prima dell’invenzione del fonografo. Ma se le canzoni non necessitano di registrazione per esistere, è però soprattutto come registrazioni che – dagli anni Cinquanta del 20° sec., cioè dopo la sbornia radiofonica degli anni Trenta e Quaranta che ancora si basava sulla trasmissione in diretta di esecuzioni dal vivo – sono entrate nelle case e nelle vite dei milioni di italiani che le hanno ascoltate e ancora le ascoltano, così come dei miliardi di altri esseri umani che attraverso canzoni registrate e riprodotte (o trasmesse) fanno esperienza di musica nel mondo. Se c’è quindi qualcosa che incarna quella che è chiamata, con un anglicismo ormai entrato nell’uso anche in Italia, popular music, questa è indubbiamente la canzone: breve composizione di parole e musica con una caratteristica struttura ripetitiva, tipicamente registrata su supporto (il disco, il file, ecc.) e che si diffonde nello spazio attraverso la riproduzione di quelle stesse registrazioni che ne permettono anche la conservazione ovvero l’archiviazione – e quindi la collezione, la catalogazione, lo studio anche filologico.
Emerge talvolta il dubbio che alla canzone si presti sin troppa attenzione, che altre siano le cose importanti cui ci si dovrebbe dedicare. Da una prospettiva sociologica tuttavia, che è il punto di vista da cui qui la affronteremo, la canzone è a tutti gli effetti un’istanza, una manifestazione, di quella categoria di ‘fatti sociali’ che l’etnologo francese Marcel Mauss (Essai sur le don, 1925; trad. it. 2002) ha felicemente qualificato come ‘totali’: fenomeni che seppur specifici e apparentemente minimi – come il dono, per es. – sono in relazione con così tanti altri fenomeni da consentire, se ben analizzati, di gettar luce su una gran quantità di dimensioni e livelli del mondo sociale. In effetti, con i suoi tre minuti e mezzo di parole e suoni, una canzone è capace di evocare o chiamare in causa un mondo intero. Non c’è fenomeno sociale in senso lato che possa sfuggire alla presa di una canzone, e non c’è canzone che non possa almeno in astratto essere considerata nei termini delle sue relazioni con la sfera politica, economica, artistica, linguistica, religiosa, e così via. Non per nulla esiste una canzone politica come una canzone religiosa, una canzone d’arte (o che si presume tale) come una canzone ‘di malavita’. Esistono canzoni sull’emigrazione e canti migranti. Anche i criminali, anche i carcerati, anche la mafia (in Italia come in altri luoghi) hanno le loro canzoni. E se non risulta esistere, è vero, una canzone economica o una canzone giuridica, esiste però senz’altro un’economia della canzone, così come un diritto (tipicamente, quello d’autore) applicato al mondo della canzone. Né va tralasciato il fatto che le rivoluzioni si sono fatte anche con le canzoni (e non solo “La Marsigliese” o l’“Internazionale”) e che il rapporto tra canzone e poesia, ovvero il problema della natura più o meno poetica della canzone e del carattere più o meno musicale (cioè cantato) della poesia, è un topos che accompagna la storia della cultura occidentale da decenni se non da secoli (S. La Via, Poesia per musica e musica per poesia, 2006; L. Zuliani, Poesia e versi per musica, 2009).
Dire che la canzone è fatto sociale totale non significa dunque negare che sia anche fatto estetico: e questo per la buona ragione – se non bastasse che in quel carattere ‘totale’ è incluso evidentemente anche il lato estetico – che non esiste discorso sul bello che non sia discorso intersoggettivo, storicamente dato, e – senza con questo necessariamente scomodare Pierre Bourdieu e la sua critica sociale del (giudizio di) gusto (La distinction. Critique sociale du jugement, 1979; trad. it. 1983) – socialmente condizionato. Già il semplice fatto che sulla qualità, ovvero bellezza, della canzone – sulla canzone come genere e sulle singole canzoni come istanze del genere – ci sia confronto e dibattito, apparentemente infinito, mostra quanto la canzone anche come fatto estetico sia radicata in contesti che sono sociali nella misura in cui presuppongono agenti sociali, ossia interazioni e relazioni sociali (di condivisione, di conflitto, di dominio, ecc.) tra gli stessi.
È questo fatto sociale totale che andremo a descrivere, a raccontare, ad analizzare, nelle pagine che seguono, ponendo l’accento su tre aspetti che ci sembrano soprattutto rilevanti. Il primo è come la canzone, questa forma culturale sui generis, si sia intrecciata nella sua vicenda con la modernizzazione economica e politica italiana, specialmente quella innescata dalla fine della guerra e dalla caduta del fascismo, ma anche evidentemente dall’integrazione del Paese in un’economia-mondo e più in generale in un sistema culturale internazionale egemonizzato dagli Stati Uniti, assurti al rango di superpotenza. Il secondo tema, al precedente strettamente legato, è quello del ‘carattere italiano’ di questa canzone, cioè il suo esprimere, rappresentare qualcosa che sia più della somma delle varie partizioni regionali (e dialettali) in cui quell’espressione geografica che anche è l’Italia si è storicamente manifestata per secoli. In altre parole, ci chiederemo in che senso, e in quali modi, la canzone abbia contributo a produrre quella ‘comunità immaginata’ (B. Anderson, Imagined communities. Reflections on the origin and spread of nationalism, 1983; trad. it. 1996) che è la nazione, e in particolare la nazione italiana. Il terzo tema è quello dei rapporti tra canzone e ‘arte’ (ossia ‘poesia’), che affronteremo qui non attraverso analisi filologiche e comparazioni di testi o valutazioni critiche, ma chiedendoci come la canzone, o meglio quella che sino a poco tempo fa si usava chiamare senza indugi ‘canzonetta’, abbia potuto guadagnare – e questo almeno dagli anni Novanta del secolo passato – quello statuto simbolico, quella legittimità culturale e intellettuale tale non solo da far meritare ad alcuni dei suoi protagonisti lauree ad honorem e insegnamenti universitari, ma anche da renderla necessario oggetto di approfonditi studi per meglio comprendere la realtà del Paese.
Soprattutto a partire dalla fine degli anni Cinquanta alla canzone infatti cominciarono a prestare attenzione oltre a casalinghe e studenti, segretarie e operai, sarte e impiegati – insomma la ‘gente comune’ che componeva il pubblico per antonomasia della canzone negli anni dell’immediato dopoguerra – anche critici e studiosi, scrittori e poeti, musicisti ‘colti’ e filosofi, ovvero illustri nomi della cultura nazionale come Pier Paolo Pasolini (1922-1975), Umberto Eco, Tullio De Mauro.
Si rende tuttavia necessaria un’importante, ulteriore, precisazione: se non c’è dubbio che inizialmente proprio la sua diffusione capillare negli strati più ‘popolari’ della società italiana abbia reso la canzone un fenomeno sufficientemente serio da reclamare le attenzioni non solo dei governi, che già ai tempi del fascismo ne avevano colto con precisione la rilevanza sociale e politica e la forza come mezzo di propaganda (P. Cavallo, P. Iaccio, Vincere! Vincere! Vincere! Fascismo e società italiana nelle canzoni e nelle riviste di varietà (1935-1943), 1981, 20032), ma anche degli intellettuali e in particolare di quelli di sinistra, dei progressisti, è peraltro anche vero che non ci sarebbero probabilmente né una storiografia della canzone, né una sociologia e né tanto meno una musicologia specializzata (la cosiddetta musicologia popular) senza l’emergere di una generazione di studiosi che di canzoni (anche canzoni italiane) si sono nutriti nella loro infanzia e adolescenza e che da allora non hanno smesso di ascoltarle.
La canzone è stata a lungo considerata nella migliore delle ipotesi un fenomeno di costume, nella peggiore una forma di evasione minore e spesso deviata e deviante, sull’onda di noti (pre)giudizi adorniani che hanno trovato nel nostro Paese facile presa: è del 1959 la traduzione del celebre saggio sul ‘carattere di feticcio in musica’ (T.W. Adorno, Dissonanzen, 1956; trad. it. 1959) che avrebbe offerto la base teorica del primo importante studio, naturalmente molto critico, sulla canzone anche nel nostro Paese, dall’inequivocabile titolo Le canzoni della cattiva coscienza (Straniero, Jona, Liberovici et al. 1964).
Solo dai primi anni Novanta circa la canzone ha acquisito in Italia quel riconoscimento che altri tipi di espressione culturale, anche musicale, godono da tempo (si pensi all’opera, e in generale alla musica colta da camera o da chiesa, ma anche al ‘canto popolare’ come elemento portante del patrimonio folclorico studiato da demologi ed etnomusicologi). Anche per questo le nostre conoscenze del fenomeno sono ancora piuttosto approssimative, e devono spesso basarsi su una lettura strategica e sintomatica di materiali originariamente scritti per altri fini, come autobiografie, articoli di quotidiani o stampa specializzata (ovvero di categoria), saggi divulgativi, note di accompagnamento di dischi, interviste, e più recentemente siti web e blog. Oltre a queste fonti, praticamente infinite, ne esistono altre, più sistematiche e più organiche – i vari ‘dizionari’ della canzone, in particolare il Dizionario della canzone italiana (1990) e il Dizionario completo della canzone italiana (2006) o le numerose e variegate ‘storie’ (Borgna 1985, 1992; Baldazzi 1989; Berselli 1999, 2007; Liperi 1999; Pivato 2005; Prato 2010; Santoro 2010; Facci, Soddu 2011; Piazzoni 2011; La canzone italiana, 1861-2011, 2011; Manconi 2012; Nobile 2012) – ed è a esse che soprattutto faremo selettivamente e criticamente affidamento in queste pagine, il cui obiettivo è tracciare le linee essenziali di una sociologia storica (o se si preferisce una storia sociologica) della canzone italiana dal 1950 a oggi.
In particolare si cercheranno di identificare le principali strutture e i più decisivi eventi – ovvero quel genere di accadimenti che hanno generato trasformazioni delle strutture – attraverso cui la canzone italiana si è manifestata, si è realizzata e, per così dire, si è fatta essa stessa ‘mondo’ con una sua almeno relativa autonomia, che è poi condizione per la sua agency, per la sua efficacia storica (sulla canzone in quanto documento storiografico per la comprensione del più ampio mondo sociale e politico cfr. Peroni 2001; Pivato 2002). Inevitabilmente, questa esplorazione ci condurrà a enfatizzare, insieme a quella temporale, la dimensione territoriale del fenomeno, il suo radicamento nelle culture locali (regionali, urbane) ma anche nei luoghi che proprio al loro legame con la canzone devono una parte almeno della loro identità – Napoli, Roma, Genova, Bologna, Sanremo. E ci spingerà a interrogarci ancora una volta sui rapporti tra centro (o più centri) e periferia (periferie), sulle differenze territoriali, e sulla natura di una identità nazionale che nella canzone rivela le sue fragilità ma anche le sue peculiarità.
Prima di una canzone italiana, in Italia ci sono state le canzoni regionali, canzoni cioè identificabili per il loro radicamento in una cultura locale, fosse essa la cultura di un’area geografica o quella di un insediamento urbano. Di questa cultura locale, l’elemento linguistico – il dialetto – è naturalmente componente essenziale. Rientrano nel primo caso esperienze come quelle della canzone piemontese, o lombarda, o toscana, o siciliana – aggettivi che rimandano a differenze di lungo periodo nell’organizzazione socio-economica e nella storia politica dei territori preunitari. Rientrano nel secondo tradizioni urbane fortemente connotate e anche internazionalmente riconosciute come quella della canzone napoletana, ma anche esperienze di minore influenza e notorietà ma pur sempre rilevanti come quelle, tra le altre, romana, milanese, fiorentina e torinese.
È dall’intreccio di queste tradizioni locali diverse tra loro e diverse rispetto alla tradizione ‘alta’ o ‘colta’ della romanza da salotto (di cui fu maestro nella seconda metà dell’Ottocento il compositore abruzzese Francesco Paolo Tosti) e ancor prima dell’aria operistica – che si diffonde con il successo anche popolare di compositori come Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi (1813-1901) e Giacomo Puccini (1858-1924) – che sarebbe germogliata la canzone italiana, in un processo di durata pluridecennale. Un contributo determinante venne da almeno altre due influenze: la canzone politica e patriottica da un lato (le cui radici non sembrano andare tuttavia molto più indietro del Risorgimento), e la canzone che possiamo identificare facilmente, seppure impropriamente, come ‘internazionale’, ovvero, e questo almeno dagli anni Dieci del Novecento, la canzone americana e quella francese, e dagli anni Sessanta anche quella inglese; si tratta di repertori nazionali che sono però anch’essi inseriti in circuiti culturali inter- e transnazionali, e quindi a loro volta soggetti a molteplici influenze e scambi, per es. da e con i Paesi coloniali, le cui musiche hanno spesso offerto spunti ed elementi anche per la produzione di canzoni nella metropoli. Seguendo Philip Ennis (The seventh stream. The emergence of rocknroll in American popular music, 1992), potremmo considerare queste influenze alla stregua di ‘flussi’ (streams) e affermare che la canzone italiana è l’esito della loro confluenza e combinazione in un composto inevitabilmente instabile, cui solo una buona dose di idealizzazione può garantire una precisa identità. È alla luce di una simile genealogia, che qui daremo in gran parte per nota limitandoci a rapidi cenni esplicativi quando se ne presenterà l’occasione, che si può comprendere l’affermazione di Daniele Ionio, uno dei primi critici a occuparsi seriamente di canzoni: «La canzone italiana non esiste» (1969, p. 63). Esiste però una genealogia, un insieme di storie e vicende che si sono combinate facendo emergere alla superficie ciò che ancora sul finire degli anni Sessanta si poteva vedere in modo confuso e parziale.
Gli storici della canzone italiana (campo di studi che ha preso forma solo nel corso degli anni Ottanta) concordano oggi nell’individuare nei primi del Novecento, e in particolare nel primo dopoguerra, il costituirsi di un repertorio di canzoni che possono dirsi ‘italiane’, non solo per scelta linguistica (ciò che in prima istanza le distinguerebbe dalla canzone napoletana), ma anche per caratteristiche che le identificano come corpus omogeneo, differenziandole tanto dalle arie operistiche e dalle romanze (tipicamente borghesi) quanto dai repertori regionali e popolari/popolareschi. Artefici di questa produzione sono un manipolo di autori – parolieri e compositori – che pur muovendo da tradizioni locali (Napoli soprattutto, dove si era costituito sin dalla fine del 19° sec. un piccolo mondo di editori e una rete di relazioni stabili tra cantanti, poeti-parolieri, compositori, impresari) lavorano alla costruzione di un repertorio di respiro nazionale, quando non internazionale: tra questi spiccano indubbiamente E.A. Mario (autore tra l’altro della “Leggenda del Piave” ma anche di “Vipera” oltre che di classici napoletani) e Cesare Andrea Bixio (autore nel 1940 del celeberrimo “Mamma”, ma già prolifico compositore di canzoni di successo negli anni Venti e Trenta con “Il tango delle capinere”, “Violino tzigano” e la celebre “Vivere”), e con loro i fratelli Bixio e Bruno Cherubini (da Rieti), il romano Dino Rulli, il comasco Angelo Ramiro Borella, il torinese Luigi Miaglia, cui si aggiungeranno negli anni i milanesi Vittorio Mascheroni, Giovanni D’Anzi, Alfredo Bracchi e Giuseppe Perotti (in arte Pinchi), il palermitano Mario Ruccione, il romano Umberto Bertini, il napoletano ma milanese di adozione Nicola Salerno. A volte in competizione tra loro (celebre quella tra Bixio e Mario), ma facilmente inclini alla collaborazione (a coppie, a volte a trio), questi uomini – a parte casi rarissimi (come quello di Paola Marchesi) gli autori sono infatti tutti di genere maschile – hanno gettato le basi di un repertorio, quella della canzone italiana o ‘all’italiana’, che alla fine della Grande guerra praticamente ancora non esisteva.
Tra i protagonisti di questa prima stagione figurano anche autori che erano spesso pure interpreti delle loro canzoni (senza essere ancora definiti ‘cantautori’), come il napoletano Armando Gill, il fiorentino Odoardo Spadaro e il futurista (anch’egli napoletano) Rodolfo De Angelis. Il caffè-concerto, il teatro di varietà, il tabarin e, dal 1924, soprattutto le stazioni radiofoniche sono i luoghi tipici in cui si eseguono e per cui si scrivono canzoni (anche) in italiano. L’influenza esercitata da modelli stranieri, soprattutto balli e ritmi, è comunque forte, testimoniata dai titoli stessi di molti dei successi di quegli anni (per es. “Scettico blues”, “Tango delle geishe”, “Tango della gelosia”, “Fox-trot della notte”).
Una spia dell’ancora limitata presenza della canzone italiana nell’Italia degli anni Venti la possiamo trovare in Antonio Gramsci (1891-1937), che nei suoi Quaderni quando scrive sulla musica italiana (e lo fa tipicamente considerandola come segnale di un più ampio «problema nazionale») fa riferimento solo al melodramma operistico, citando Verdi, Puccini e Pietro Mascagni. Non sfuggiva però a Gramsci l’importanza della canzone(tta) per la formazione del gusto popolare: «una quistione alla quale forse non si dà tutta l’importanza che si merita è costituita da quella parte di “parole” versificate che viene imparata a memoria sotto forma di canzonette, pezzi d’opera, ecc.». Per aggiungere subito dopo: «È da notare come il popolo non si curi di imparare bene a memoria queste parole, che spesso sono strampalate, antiquate, barocche, ma le riduca a specie di filastrocche utili solo per ricordare il motivo musicale» (Quaderni dal carcere [1975], 2007, p. 2345). A differenza di molti suoi epigoni, Gramsci aveva ben chiaro che le canzoni non sono solo testi, parole, ma appunto ‘parole in musica’ in cui la musica finisce per avere più importanza. Non sfuggiva a Gramsci la potenziale influenza politica della canzone, in particolare di quella jazz:
Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l’avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato degli jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici; a) si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico (Lettere dal carcere, 1965, pp. 179-80).
Queste intuizioni non si tradurranno mai tuttavia – a differenze di quanto accadde per il folclore e ancor di più per il romanzo popolare – in una più distesa e feconda riflessione sul ruolo delle ‘canzonette’ e in generale della musica che già allora si chiama leggera nella cultura popolare e nazionale, ovvero in quella cultura massmediatica che prese forma in Italia negli anni del fascismo grazie alla combinazione di progresso tecnologico e politica di massa. Il regime fascista seppe infatti riconoscere alla canzone, almeno dalla metà degli anni Trenta, un ruolo per nulla secondario nel meccanismo di costruzione del consenso, basta pensare a canzoni propriamente ‘di regime’ come “Faccetta nera”, “Ti saluto vado in Abissinia”, “Giovinezza”, “Inno dei sommergibili”, peraltro firmate dagli stessi autori (Ruccione e Pinchi) che scrivevano poi ballabili e canzoni sentimentali o d’evasione, anche se non prive di un seppur velato potenziale critico come “Pippo non lo sa” e “Maramao perché sei morto” (entrambe del milanese Mario Panzeri). È però solo dopo la caduta del regime e l’ingresso nell’età repubblicana che la canzone come genere guadagna un suo spazio (relativamente) autonomo e una sua identità anche istituzionale.
Nel 1951 nasce a Sanremo, cittadina balneare che stava cercando un rilancio turistico negli anni del dopoguerra, il Festival della canzone italiana. Non era la prima volta che si organizzavano iniziative simili in Italia: nell’agosto del 1936, a Rimini, si era svolto un ‘Concorso’ (altre fonti dicono ‘Festa’) della canzone italiana trasmesso dai canali della radio e replicato nel 1937. A Sanremo, invece, c’è memoria di un festival di canzoni napoletane nel 1931. A regime caduto, nel 1948, venne organizzato a Viareggio, in Versilia, il primo Festival canoro nazionale, iniziativa replicata anche l’anno seguente, e poi interrotta per ragioni economiche. Come si può notare, la canzone è tipicamente associata già in queste prime esperienze festivaliere a cittadine turistiche e balneari: un’associazione non priva di implicazioni sul piano semiotico e sociologico. Festival di canzoni dialettali, su base urbana o al massimo regionale, esistevano poi da tempo: tra queste la celebre Festa di Piedigrotta a Napoli (ufficialmente dal 1883 ma sulla scia di una festa religiosa con presenza musicale annessa di antica origine), la Festa di San Giovanni a Roma (dal 1898), la Festa della canzone genovese.
Ma il Festival sanremese che prende avvio nel 1951 sarà la prima istituzione (cioè la prima organizzazione duratura) specificamente dedicata alla promozione e diffusione di una canzone italiana – un genere di produzione culturale in effetti ancora da codificare nella sua specificità nazionale. Sulle origini del Festival esistono più narrazioni. Secondo una di queste, probabilmente quella che meglio rende conto di alcuni importanti sviluppi successivi, fu un’idea di un giovane consigliere comunale sanremese, Amilcare Rambaldi, militante nelle fila del partito socialista, al quale era stato affidato l’incarico di elaborare un piano di sviluppo turistico della cittadina ligure. Il suo progetto prevedeva un festival specificamente dedicato alla canzone, e organizzato sul modello del vicino Festival di Cannes: una competizione dunque tra un certo numero di canzoni precedentemente selezionate, una delle quali sarebbe risultata vincitrice. Del piano di sviluppo non se ne fece poi nulla, ma l’idea di un festival della canzone italiana era ormai lanciata e qualcun altro – le cronache ufficiali indicano l’allora direttore artistico del locale Casino municipale, il giornalista e paroliere Angelo Nizza, celebre autore di una trasmissione radiofonica di grandissima fortuna ai tempi del regime, “I quattro moschettieri” (1934-37) – avrebbe provveduto a realizzarla, mantenendo il format della gara con l’aggiunta, che si sarebbe rivelata decisiva per il successo dell’impresa, della trasmissione via radio e quindi con il sostegno dell’ente radiofonico di Stato, ovvero del governo che quell’ente controllava.
Iniziato in sordina, già nel 1953 il Festival aveva acquisito la fisonomia del media event, dell’evento mediatico su cui si concentrano le attenzioni di stampa e opinione pubblica. Il passaggio dalla radio alla televisione non fece che potenziare questa centralità. In breve, Sanremo, il Festival della canzone italiana, sarebbe diventato nel bene e nel male, con alti e bassi, l’istituzione chiave del mondo della canzone in Italia, quella intorno a cui si costruiscono e si decidono carriere e successi – anche quando Sanremo viene intenzionalmente evitato, o boicottato. L’impatto è tale che presto si forma, nell’immaginario della critica musicale ma anche in quello degli ascoltatori comuni, l’idea di uno standard, la canzone sanremese appunto, vale a dire il modello (ideale e idealizzato) della canzone che al Festival si presume abbia successo (Agostini 2006).
Si è soliti sostenere – è un leit motiv se non un ritornello di tutta la storiografia della canzone – che gli anni del secondo dopoguerra rappresentano un momento regressivo nella storia della canzone in Italia, il momento in cui, per dirla con Stefano Pivato (2002, p. 79), «la canzone merita quell’aggettivo di ‘leggera’» come mai era stato. Si fanno comparazioni con i successi italiani di quegli anni – “Vola colomba”, “Grazie dei fiori”, “Vecchio scarpone” – e quanto accadeva in Francia (con gli esordi di Georges Brassens e Jaques Brel), in Brasile (con i primi samba del poeta Vinicius De Moraes) e negli Stati Uniti (dove Muddy Waters stava canonizzando il rhythm’n’ blues e Ray Charles ‘inventava’ il soul). Una lettura più pacata e credo metodologicamente più solida suggerisce però di evitare confronti inappropriati: anche in Francia, in Brasile e negli Stati Uniti infatti erano altri poi all’epoca i successi commerciali, e in Italia in quegli stessi anni si cantavano e registravano canzoni diverse da quelle di Sanremo. È sufficiente ricordare in questa sede Domenico Modugno, le cui prime canzoni solo apparentemente folk, apprezzate dalla critica ma non dal pubblico, risalgono al 1953; o Fred Buscaglione, autore e interprete di canzoni assolutamente atipiche nel contesto della musica leggera italiana dell’epoca, peraltro portato all’attenzione dell’industria discografica che contava e quindi al successo da un campione della tradizione come Gino Latilla. È più opportuno cercare piuttosto una qualche plausibile spiegazione a quelli che sono i due elementi centrali, e cioè la cifra stilistica delle canzoni che hanno vinto le prime edizioni sanremesi e il predominio incontrastato di quattro, forse cinque interpreti per tutti i primi anni del Festival, chiedendosi poi che conseguenze ciò abbia avuto sulla canzone italiana.
Quanto alla cifra stilistica, belcanto e retorica sono forse i due tratti essenziali della produzione in questione. Il culto del belcanto che la canzone di Sanremo degli anni Cinquanta incarna perfettamente con le voci di Latilla e di Claudio Villa era in fondo recente, risalendo alla seconda metà degli anni Trenta e alla politica culturale in senso rigorosamente ‘autarchico’ promossa dal MinCulPop. Era diventato un dovere persino politico ricondurre la canzone a valori e modelli che fossero ‘autenticamente’ italiani, ovvero a quella tradizione del melodramma ottocentesco che all’Italia aveva dato fama mondiale, sottraendo quindi la produzione di canzoni alle influenze musicali e ritmiche straniere, del jazz soprattutto. Si trattava, in altre parole, letteralmente di inventare una tradizione per la canzone italiana; messe comprensibilmente da parte le tradizioni regionali dialettali, che dell’assenza di una identità nazionale erano sintomo e conseguenza, questa tradizione poteva trovarsi solo andando a pescare nel passato – un passato neanche troppo remoto del resto, benché le radici dell’opera, e del belcanto che ne era poi l’elemento più rilevante in questo contesto, risalissero al 17° sec. – ciò che aveva dato all’Italia come unità culturale la sua identità musicale, facendola divenire, come recitava il titolo di un libro del raffinato e originale critico musicale Bruno Barilli, Il Paese del melodramma (1930). Da qui la sollecitazione da parte del regime alle voci più apprezzate della lirica perché si misurassero con la canzone (Beniamino Gigli, Tito Schipa, Gino Bechi, ecc.), da qui però anche lo strepitoso successo per tutti gli anni Trenta di un interprete come il fiorentino Carlo Buti (il ‘piccolo Caruso’), che aveva sì dovuto apprendere i rudimenti del belcanto per dare una qualche educazione alla sua calda voce tenorile ma che non aveva mai perduto l’ispirazione popolare e la tecnica appresa come stornellatore. Più tardi sarà proprio la voce di Buti a costituire un modello anche per il ‘reuccio’ della canzone del dopoguerra, il romano Villa.
Rispetto alla retorica dei testi, al carattere tra il melenso e l’evasivo delle parole di queste canzoni, ma anche alla standardizzazione degli arrangiamenti orchestrali (di cui era responsabile più di ogni altro il maestro Cinico Angelini, direttore dell’orchestra RAI della canzone e di fatto indiscusso plenipotenziario della musica leggera di quegli anni), basterebbe rileggere certe pagine gramsciane sul gusto melodrammatico e letterariamente pomposo del ‘popolo’ italiano, inquadrandole nel clima e nel carattere della vita politica di quegli anni di faticosa ricostruzione, per dare ragione – se non estetica almeno sociologica – di questo repertorio. Un repertorio, è comunque il caso di ricordare, che includeva canzoni melense e retoriche sin che si vuole, ma capaci di circolare nel mondo e di alimentare la reputazione canora e musicale della nazione (“Mamma”, capostipite di tutte le canzoni sanremesi dedicate alla famiglia, ha avuto un successo planetario, nonché decine e decine di covers: cfr. C. Bixio, F. Bixio, S. Ambrogi, Mamma. Alle origini di uno stereotipo italiano, 2007).
La presenza ingombrante per quasi tutti gli anni Cinquanta di quattro o meglio cinque figure – ai nomi di Nilla Pizzi, Villa, Luciano Tajoli e Latilla si dovrebbe aggiungere anche il citato Angelini – è l’effetto visibile di quella che è forse la vera anomalia dei primi anni di vita repubblicana postfascista, cioè il controllo che lo Stato, ovvero i governi in carica (tutti rigorosamente democristiani), sono in grado di esercitare sul mondo della canzone, se non di diritto di fatto tramite la radiofonia (l’Ente italiana per le audizioni radiofoniche, EIAR, nel frattempo divenuta RAI) e il suo braccio discografico, la Cetra, azienda istituita dal regime sin dal 1933 per cui incidono la Pizzi, Togliani, Villa e il Quartetto Cetra – che peraltro rispetto al modello dominante (retorica e belcanto) rappresenta già una rottura. Tuttavia, sostenere che la canzone di quegli anni fosse «canzone di Stato» (La canzone italiana, 1861-2011, 2011, 2° vol., p. 540) è cosa ben diversa. La Cetra non operava comunque in regime di monopolio, e doveva fare i conti con diverse altre aziende discografiche che pure operavano sul mercato: la Durium, nata a Milano nel 1935, l’inglese EMI-Voce del padrone, presente in Italia dal 1931, la Fonit, fondata nel lontano 1911 a Torino, e la Phonotype operativa a Napoli addirittura dal 1901 con il nome Società fonografica napoletana (a Milano dal 1912 esisteva la Società nazionale del grammofono, che poi si fuse con la Columbia e quindi con la Voce del padrone). Spazio per variazioni, e anche innovazioni, potenzialmente non mancavano.
Dai primi anni Cinquanta un nuovo genere si costituiva del resto all’incrocio tra canzone e teatro, al riparo, almeno relativo, dal potere di controllo di radio e televisione: la commedia musicale. Nata come evoluzione della ‘rivista’ – a sua volta trasformazione del cosiddetto avanspettacolo –, la commedia musicale è stata il vettore di influenze straniere nel conservatore mondo della canzone italiana: jazz in primis (grazie al contributo in particolare di Gorni Kramer, Lelio Luttazzi e Armando Trovajoli, quest’ultimo anche compositore di musiche da film oltre che direttore d’orchestra), ritmi afroamericani e caraibici, e canzone americana (da Broadway). Principali esponenti di questo genere di canzone negli anni Cinquanta sono Renato Rascel e il Quartetto Cetra, ma è nella coppia autoriale, ovvero nella ‘ditta’ formata da Pietro Garinei e Sandro Giovannini che il genere ha i suoi vati, con il citato Kramer come terzo uomo dell’impresa. Tra i maggiori successi del trio nel campo della canzone si ricorda “Domenica è sempre domenica” (1957), divenuta celebre anche perché sigla del programma televisivo, tutto dedicato al mondo della canzone,“Il Musichiere”(F. Liperi, I padri di Rugantino. Storia delle canzoni di Garinei e Giovannini, 2011).
Una vera canzone italiana era, ancora nel secondo dopoguerra, tutta da costruire, e quel poco che esisteva erano le basi gettate negli anni Venti e soprattutto Trenta dagli autori radiofonici (i vari Bixio, Mario Panzeri, Vittorio Mascheroni e altri ancora); inoltre, dei due modelli orchestrali esistenti alla radio sin dagli anni Trenta e per tutti i Quaranta, ovvero quello jazzato di Pippo Barzizza e quello orchestral-sinfonico di Angelini, era il secondo ad avere radici nella storia musicale e culturale italiana; il Festival di Sanremo era poi, e a lungo sarebbe stato, una propaggine del sistema di governo con tutte le responsabilità ma anche le opportunità che questo comportava per il mondo della canzone. Alla luce di queste considerazioni non può dunque apparire così strano, atipico e deplorevole che a vincere le prime edizioni siano state colombe, fiori e papaveri, cantanti con voci impostate, calde e suadenti, in una parola melodiose. Senza contare che quelle che arrivavano a essere eseguite sul palco di Sanremo erano una selezione anche drastica delle canzoni che venivano presentate. Il numero delle canzoni vagliate annualmente dalla commissione selezionatrice era davvero notevole: 240 nel 1951, 310 nel 1952, 412 nel 1955, 405 nel 1956, circa 4000 nel 1957 (quando si consentì anche a chi non fosse legato contrattualmente a un editore musicale di presentare canzoni), 350 nel 1959, 339 nel 1963. Ancora 303 nel 1970, il loro numero scese a 126 nel 1974 e se nel 1978 erano poco più di 30 per 14 posti (Aragozzini 2013), questo accadeva solo perché la scelta della commissione non cadeva ormai più sulle canzoni ma sul cantante in quanto principale ‘prodotto’ (con la sua voce, il suo repertorio, il suo personaggio) e investimento dell’industria discografica.
Occorreva comunque istituire uno standard perché fosse possibile romperlo o criticarlo. E infatti Sanremo sarebbe stato almeno dal 1958 – anno della prima grande rottura, quella delle vittoria solo in parte inattesa di Modugno con “Nel blu, dipinto di blu” – il terreno di confronto, se non di battaglia, tra due opposti schieramenti: quello della tradizione, rappresentato dalla canzone cosiddetta sanremese, che altro poi non è che una variazione della canzone radiofonica che si definisce nel corso degli anni Quaranta a partire dal ripiegamento autarchico imposto dal regime anche alla produzione ‘canzonettistica’, e quello della novità (o della modernità), rappresentato da un indefinito e indefinibile ‘altro’ che si presenta all’orizzonte venendo da ovunque – da fuori (spesso è così) ma anche dal corpo stesso della produzione canora italiana, dal suo evolversi e parcellizzarsi, dal suo riprodursi mai perfettamente e sempre lasciando quindi spazi per le innovazioni, anche piccole. Il 1958 è l’anno del primo grande scontro tra l’establishment (Villa, Pizzi, Latilla ecc.) e l’‘altro’ che aveva assunto le sembianze di un trentenne pugliese andato a Roma per fare l’attore e che intanto si dilettava e trovava di che vivere scrivendo e interpretando canzoni in un dialetto che era un misto di pugliese, siciliano e napoletano. All’attivo aveva già qualche successo, anche come autore sanremese (con “Musetto”, presentata nel 1956 ma interpretata da altri). La rivoluzione simbolica di Modugno è tutta in un testo onirico, in un arrangiamento più jazz che sinfonico (Modugno preferì servirsi della seconda orchestra, non quella di Angelini ma di Semprini, più ‘moderna’ appunto) e in una performance – il celebre gesto di apertura delle braccia al momento del ritornello – che erano sufficienti a ‘rompere’ con il modello, con lo standard, del resto troppo fresco e ancora labile per essere davvero infrangibile (su Modugno e la sua vittoria a Sanremo nel 1958, e più in generale sulla sua carriera artistica che non è mai stata confinata alla sola canzone cfr. M.C. Zoppa, Nel blu, dipinto di blu. Modugno, 1958. «Volare» e il sogno possibile, 2008).
Da allora, il Festival è il luogo in cui si riproduce questa tensione mai risolta e in fondo irrisolvibile tra una ‘tradizione’ che non è però immobile ma si evolve variamente incorporando elementi di novità, e un ‘nuovo che avanza’ che si appresta a essere fagocitato selettivamente nella tradizione. E così già nel 1960 la vittoria va a una canzone, “Romantica”, interpretata per la gara da un rappresentante della tradizione come Rascel, autore del pezzo, e da un esponente del ‘nuovo’, Tony Dallara, un ‘urlatore’, cioè un giovane seguace della nuova moda musicale giunta dagli States, il rock’n’roll: la distinzione ‘tradizione contro moderno’ si intreccia del resto facilmente con quella ‘vecchio contro giovane’, come è ovvio (Agostini 2006). Due anni dopo, a dimostrazione di come la canzone italiana potesse assorbire i colpi e prodursi in sempre nuove sintesi, Modugno e Villa erano già in condizioni di poter concorrere in solido, con una canzone (“Addio... addio”) del ‘Mimmo nazionale’ (assai significativo il soprannome), vincendo insieme l’edizione festivaliera di quell’anno.
La storia del Festival, la storia organizzativa, culturale, sociale, politica, e naturalmente canora, di un’istituzione come Sanremo non può essere qui ripercorsa neanche per sommi capi (una vera e propria storia del Festival ancora manca; si rimanda per una prima, seria approssimazione a Facci, Soddu 2011, e alla recente compilazione enciclopedica di Aragozzini 2013). Ci accontenteremo di fornire qualche dato statistico: 1860 canzoni in concorso dal 1951 al 2013; 1050 i cantanti/interpreti; quattro è il numero massimo di vittorie di uno stesso interprete e sono solo due quanti ci sono riusciti (Modugno e Villa); 15 il numero massimo di partecipazioni dello stesso interprete (a detenere il record sono in tre: la ferrarese Milva, il napoletano Peppino di Capri, e il toscano Toto Cutugno); sono comunque 19 gli interpreti che hanno partecipato ad almeno 10 edizioni (il che suggerisce in effetti una certa tendenza alla riproduzione), 674 hanno solo una partecipazione alle spalle (il che suggerisce che la tendenza alla riproduzione non è mai stata tale da bloccare il ricambio e la varietà). In questi sessant’anni di storia della canzone italiana sono sfilati sul palco del Festival, trasmessi dalla radio e dalla televisione ogni anno a svariati milioni di italiani, gli stili e i generi più diversi, dal rock’n’roll al beat (con l’Equipe 84, i Dik Dik e altri ‘complessi’ come si diceva allora), dal progressive (variante del rock inglese fortemente ispirata alla tradizione sinfonica e operistica, per questo particolarmente congeniale al ‘gusto’ italiano: cfr. F. Mirenzi, Rock progressivo italiano, 1997) alla discomusic, dal reggae al rap (Plastino 1996; Pacoda 2000), dalla canzone napoletana classica a quella neomelodica. Nel frattempo la canzone all’italiana si è andata consolidando, se non come identità estetica – perché nessuno è ancora riuscito a definire in cosa consista esattamente, dal punto di vista musicologico, la canzone tipica di Sanremo, il presunto canone del Festival per antonomasia della canzone italiana (cfr. Facci, Soddu 2011, p. 256) –, almeno come referente superficiale di un discorso sempre più denso e stratificato che ad altro tipicamente rimandava, fosse quest’altro lo stato di salute dell’industria musicale nostrana, o più in profondità quello della vita morale e dell’identità nazionale.
Per quanto rilevante, il Festival di Sanremo era poi solo una delle tante iniziative che l’ente radiofonico di Stato, presto anche televisivo, avrebbe lanciato, o aiutato a lanciare, negli anni Cinquanta. Nel 1953 veniva fondato il Festival della canzone napoletana, ovviamente a Napoli, anch’esso su impulso della RAI. Nel 1954, con l’avvio delle trasmissioni televisive, partiva subito anche il primo programma musicale, “L’orchestra delle quindici”, inaugurato da un musicista e cantante napoletano, Renato Carosone, le cui canzoni swingate e ironiche ben poco avevano a che fare con il modello sanremese. Nel 1956 nasceva “Canzonissima”, programma di varietà – anch’esso in forma di gara di canzoni – abbinato alla lotteria di Stato e destinato a diventare, nel giro di un decennio e almeno sino alla metà degli anni Settanta, il programma di punta della televisione pubblica, quello con il pubblico più vasto e più fedele; è dell’anno successivo il celebre “Il musichiere”, competizione non tra canzoni ma tra (ri)conoscitori di canzoni, che genererà anch’esso un suo festival, cessato a seguito della morte tragica del conduttore Mario Riva (per una ricostruzione puntuale della presenza di musica, e quindi di programmi dedicati al mondo delle canzoni, nella storia della televisione italiana, si veda L. Bolla, F. Cardini, Macchina sonora. La musica nella televisione italiana, 1997).
In effetti, di festival l’Italia del secondo dopoguerra è gravida. Le manifestazioni, tipicamente gare canore anche se poi lo specifico format poteva ingegnosamente variare, si moltiplicano; le statistiche, non ufficiali, parlano di 500 manifestazioni l’anno, o a star stretti di 350, una per ogni giorno dell’anno. I più cauti ne contano circa 150. Ce n’era per tutti i gusti. Nel 1956 ad Assisi viene lanciata la Sagra della canzone nova, festival per canzoni a contenuto religioso (ovviamente cristiano-cattolico) a dimostrazione della funzione sociale che alla canzone si riconosceva anche dagli ambienti ecclesiali. L’anno successivo inizia la sua lunga vita il Festival per voci nuove di Castrocaro Terme, in Romagna, specificamente dedicato agli esordienti e che sarà nei due decenni successivi trampolino di lancio per generazioni di cantanti. Sempre nel 1957, al Palazzo del ghiaccio di Milano si tiene il primo Festival nazionale del rock’n’roll (che vedrà l’esordio di un giovanissimo Adriano Celentano). La manifestazione si ripete negli anni seguenti a Genova (1958), San Severino Marche (1959), Ancona (1960), Roma (1961), Verona (1962), Bologna (1963) e Firenze (1964), suggerendo una geografia di penetrazione del rock, o meglio della sua versione originaria come rock’n’roll, fortemente caratterizzata in senso territoriale: di fatto, resta completamente fuori il Mezzogiorno, inclusa quella metropoli che pure aveva offerto, già nel 1954, il primo terreno di ricezione del rock in Italia, Napoli, con la sua base NATO (sulla ricezione del rock’n’roll nell’Italia di quegli anni si veda però A. Portelli, L’orsacchiotto e la tigre di carta. Il rock and roll arriva in Italia, «Quaderni storici», 1985, 58, pp. 135-48).
Nel 1961 Teddy Reno, affermato cantante passato all’imprenditorialità discografica, lancia, su imitazione di Castrocaro, il Festival degli sconosciuti di Ariccia, nell’omonima cittadina laziale (per la cronaca, da qui inizierà la carriera di Rita Pavone, cantante icona degli anni Sessanta). Nel 1962 parte il Cantagiro che, sul modello del popolarissimo Giro d’Italia ciclistico (ma anche raccogliendo l’eredità dei fascistissimi Carri di Tespi, strumenti della diffusione dell’italico melodramma nella provincia), porta canzoni e cantanti in ogni regione d’Italia per fare tappa finale a Fiuggi, in provincia di Frosinone. Nel 1964 è la volta di Un disco per l’estate, manifestazione organizzata dall’Associazione fonografici italiani (AFI) con la RAI, la cui serata conclusiva si tiene a Saint-Vincent, in Valle d’Aosta. A Roma dal 1964 (ma per soli quattro anni) si tiene il Festival delle rose della canzone italiana, organizzato dalla casa discografica RCA Italia (sede italiana dell’americana RCA corporation). Nello stesso anno e con maggior fortuna si lancia il Festivalbar, anch’esso manifestazione itinerante la cui serata finale si tiene però all’Arena di Verona. A pochi chilometri, nel 1965, nasce la Mostra internazionale di musica leggera di Venezia, che sul modello della più fortunata Mostra cinematografica premia le migliori canzoni in gara con Gondole d’oro e d’argento (al posto di Leoni).
Cittadine grandi e piccole hanno la loro rassegna, il loro festival, senza contare le manifestazioni itineranti che portano il verbo della canzone in ogni regione (F. Pampolini, Festival, 1962-1975. Gli anni d’oro delle gare canore e del 45 giri, 2011). Comunque, sono una decina le manifestazioni davvero significative, quelle che funzionano come trampolino di lancio di canzoni e cantanti. Entreranno anch’esse nell’immaginario degli italiani dell’epoca, grazie alla sinergia mediatica garantita dalle riprese televisive e dal collegamento radiofonico, e in qualche caso dal cinema attraverso il filone dei cosiddetti musicarelli (venivano chiamati così a Roma i film spesso di cassetta centrati sulle vicende più o meno fantasiose di cantanti sulla cresta dell’onda; ricordiamo qui, per pertinenza, Sanremo: la grande sfida, di Piero Vivarelli, e Urlo contro melodia nel cantagiro ’63, di Arturo Gemmiti, con Enrico Maria Salerno nel cast). In effetti, non può sottovalutarsi il ruolo svolto, nella costruzione del ‘fenomeno canoro’ e di un mainstream della canzone in Italia, dal cinema, negli anni Cinquanta e Sessanta ancora potente mezzo di diffusione e propagazione di immagini, valori e certamente anche suoni. Dal 1930, anno del primo film sonoro prodotto in Italia (dall’eloquente titolo La canzone dell’amore, per la regia di Gennaro Richelli), a tutti gli anni Sessanta, da Mamma (1941, regia di Guido Brignone, con la celebre canzone omonima a fare da sostegno sonoro al passaggio centrale e di maggior impatto dei film) sino appunto a quello che è stato riconosciuto, per la coerenza e la continuità con cui venne prodotto, come vero e proprio genere cinematografico, il musicarello appunto, il mondo sonoro della canzone ‘converge’ con la narrazione cinematografica e con la visione filmica, in un gioco di reciproco rafforzamento.
Il controllo pubblico sul mondo della canzone attraverso radio ed etichetta discografica di Stato è comunque destinato a non durare, perché il secondo dopoguerra vede l’espansione del mondo discografico, con la nascita di tutta una serie di nuove case ed etichette. Nel 1948 nasce a Milano la CGD, fondata dal già citato Teddy Reno; l’anno dopo viene fondata a Roma, anche con capitale Vaticano, la RCA italiana, che metterà sotto contratto un giovanissimo Modugno. Sempre nel 1949 a Milano viene fondata la Carisch Dischi (ramo discografico delle omonime edizioni). Nel 1956 è la volta della Italdisc, fondata ancora a Milano da Davide Matalon, discografico che lavorava dal 1953 presso la CGD, e che lancerà di lì a poco Mina (nelle vesti di ‘urlatrice’, ovvero cantante rock) ma anche uno dei personaggi centrali nella riscoperta del folk in Italia, il cantastorie foggiano Matteo Salvatore. Nel 1957 nasce a Milano, con sede anche a Torino, la Fonit-Cetra come fusione della Fonit, una delle prime case nate in Italia (nel lontano 1911), con la Cetra, l’azienda discografica di Stato.
È del 1958 la costituzione, quale costola discografica delle prestigiose e influenti Edizioni Ricordi, della Dischi Ricordi, che verrà affidata a un giovane Nanni Ricordi, reduce da una breve ma importante esperienza di studio e lavoro negli Stati Uniti: sarà una figura centrale per la nascita del fenomeno dei cantautori, almeno nelle loro varianti milanese e genovese, ma anche per il folk revival (è lui a portare lo spettacolo di canzoni popolari Bella ciao al Festival dei due mondi di Spoleto, di cui era nel frattempo divenuto direttore artistico, nel 1964) e, negli anni Settanta, per l’avventura della discografia indipendente, con la fondazione dell’etichetta. L’ultima spiaggia, centro di raccolta per quella che sarà l’estrema propaggine della canzone alternativa, prima del riflusso degli anni Ottanta (cfr. C. Ricordi, Ti ricordi Nanni? L’uomo che inventò i cantautori, 2010). Ancora a Milano, ormai a tutti gli effetti la capitale dell’industria discografica nazionale, nasce nel 1959 la Jolly (quale etichetta della SAAR fondata l’anno prima da Walter Guertler, un editore e discografico svizzero attivo sin dal 1948) che lancerà Celentano con il 45 giri “Il tuo bacio è come un rock” (prima posizione nella hit parade del 1959). Nel 1964 è la volta della Ariston, branca discografica delle omonime edizioni, che il paroliere Carlo Alberto Rossi aveva fondato nel 1949 insieme al fratello e a un imprenditore ungherese che molto avrebbe fatto nel campo dell’editoria musicale e non solo, Ladislao Sugar. Sarà proprio Sugar, nel frattempo uscito dalle edizioni dei fratelli Rossi, ad acquistare la CGD, fondendola con le Messaggerie musicali, da lui già fondate nel 1938, e costruendo così uno dei pilastri della distribuzione editoriale e discografica dell’ultimo quarantennio del secolo. Nascono infine anche case discografiche di partito: tra queste ricordiamo almeno I dischi del sole (legate alle edizioni L’Avanti!), che garantiscono un canale di trasmissione mediatica al folk revival e alla canzone politica.
In breve, è il «mondo della canzone» (Ionio Prevignano 1969) nella sua forma industriale, capitalistica, quello che si costituisce a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, un mondo composito, stratificato, in cui operano artisti (o aspiranti tali), spesso da poco usciti dall’adolescenza quando non ancora adolescenti come Rita Pavone e Gianni Morandi (e Gigliola Cinquetti, che cantava non per niente “Non ho l’età”), ma soprattutto editori musicali, imprenditori e produttori discografici (in qualche caso ai primi legati per ragioni aziendali e legali), impresari di festival e manifestazioni canore varie, oltre a testate periodiche specializzate (come «Sorrisi e canzoni d’Italia», che nasce nel 1953 per trasformarsi di lì a poco in «TV sorrisi e canzoni») e spazi dedicati nei mass media – alla radio ovviamente, ma sempre di più anche alla televisione e sulla stampa quotidiana. Il caso di «TV sorrisi e canzoni» (cfr. 60 anni di TV sorrisi e canzoni. Una storia italiana: 1952-2012, 2012) è emblematico della continuità che lega questo ambiente della canzone alle tradizioni risalenti a quell’universo di cantanti e musicisti ambulanti che della canzone erano stati protagonisti per tutto l’Ottocento e nella prima metà del Novecento, prima che la diffusione della radio e del disco e l’avvento della televisione li svuotassero inizialmente di funzioni e poi di significato: il mondo dei cantastorie. Benché diffusa in tutta Italia, questa figura ha forti connotazioni regionali: Emilia-Romagna, Sicilia, Calabria, Piemonte e Lombardia sono le regioni più ricche di tradizione, quelle da cui provengono gli esponenti di punta di questo mondo, un tempo affollato, che nel corso del Novecento va riducendosi ed emarginandosi, a seguito della crescente diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e in ragione inversa alla diffusione dell’alfabetizzazione. Quello del cantastorie è in realtà un vero e proprio mondo, con le sue regole, le sue pratiche, le sue tecniche, i suoi valori e i suoi simboli. Al centro di questa particolare produzione culturale c’è, almeno dalla metà del 19° sec., il rapporto tra cantastorie e tipografo: perché quanto a dominanza orale, la cultura, di cui il cantastorie è parte e vettore, non rinuncia alla stampa e quindi alla scrittura. Si radica qui il fenomeno dei ‘fogli volanti’, ovvero riproduzioni a stampa dei versi e spesso anche della musica delle canzoni, prima forma di industria musicale, certo ancora primordiale e tutt’al più artigiana, su cui si appoggia la canzone, non necessariamente quella popolare o folclorica.
I fogli volanti circolano un po’ ovunque in Europa dagli inizi dell’Ottocento. Diffusi nelle piazze, nei mercati, nelle fiere, essi
erano stampati e prodotti in tipografie di diversa caratura economica – da quelle a gestione familiare a quelle con una fisionomia quasi aziendale – e contenevano materiali ideati da autori spesso di estrazione popolareggiante che mantenevano quasi sempre l’anonimato. Se un prodotto riscuoteva un certo successo sul pubblico alfabetizzato, questo faceva da cassa di risonanza per gli stati più bassi che apprendevano oralmente il componimento, lo trasformavano, secondo le modalità tipiche del codice popolare, e lo rimettevano in circolazione (P. Scialò, Storie di musiche, 2010, p. 336).
A Napoli, dove hanno il nome di ‘copielle’, questi fogli costituiscono il mezzo principale attraverso cui si diffonde, si divulga e si impone, grazie ai venditori ambulanti e soprattutto ai ‘posteggiatori’, ovvero formazioni musicali da strada, quella che diventerà appunto la ‘canzone napoletana’, fenomeno di costume ma anche solida realtà economica, come vedremo in un prossimo paragrafo. Quello delle tipografie specializzate nella stampa (che poi non è mai solo stampa ma anche preparazione, redazione, illustrazione) di fogli volanti è un mondo che esiste e funziona ancora negli anni Trenta del Novecento, concentrato in alcune zone del Paese, soprattutto nell’Italia centrale, e secondo modelli produttivi di tipo artigianale. Ma non tutti si accontentano di sopravvivere, e qualcuno cercò di compiere il salto verso la modernità che avanza. È il caso appunto di Campi di Foligno, che da tipografia (la sua attività nel campo inizia nel 1892) si stava trasformando in casa di edizione producendo e commercializzando non solo lunari, calendari e almanacchi, ma anche periodici specificamente dedicati al mondo delle canzoni: nasce così «Sorrisi e canzoni», testata destinata a un enorme successo commerciale, erede del meno impegnativo, ma comunque già innovativo «Canzoniere della radio», lanciato nel 1939 dallo stesso tipografo-editore per intercettare e soddisfare, ma anche alimentare se non creare, una domanda diffusa di testi di canzoni e notizie su chi le canzoni le componeva e soprattutto le cantava: una domanda che univa le classi cosiddette subalterne a quelle piccolo borghesi e medie di ogni regione d’Italia, tutte ugualmente esposte al potere comunicativo del nuovo mezzo radiofonico.
Rispetto ai fogli volanti, i rotocalchi sfruttano principi di diffusione che sono già quelli propri dell’industria culturale. Ma è sul terreno aperto da quei vecchi mezzi di comunicazione che si fonda il loro successo. E così lo stesso editore che ancora fornisce, e in posizione dominante, gli strumenti di lavoro dei cantastorie è lo stesso che mina alla radice la loro ragione d’essere, il loro ruolo, la loro posizione. Le trasformazioni in atto non sono dunque da intendersi solo come negazione, come perdita: si può anzi dire che esse siano la condizione stessa per il recupero, la ‘riscoperta’ della canzone popolare come fatto culturale e il suo passaggio da pratica quotidiana a oggetto di studio e investimento intellettuale.
Insomma, mentre la canzone popolare perdeva le sue originarie funzioni sociali di intrattenimento, ma anche di informazione e di comunicazione pubblica (attraverso i cantastorie e il loro ruolo di commentatori le comunità rurali accedevano agli eventi del più ampio mondo storico-sociale), essa acquisiva nuove funzioni e inediti significati. Da epitome di un mondo che si stava perdendo si trasformava in risorsa insieme estetica e intellettuale, ma anche morale e politica, per progetti di rinnovamento e intervento sulla stessa canzone commerciale, alla ricerca di un’autenticità e un valore anche artistico, oltre che politico e culturale, che troveranno coagulo negli anni Settanta con la definizione e successiva istituzionalizzazione della cosiddetta canzone d’autore.
L’effetto combinato di questa serie di iniziative e attività, nel corso degli anni Cinquanta, è quello che all’epoca, cioè alla fine del decennio, dopo nove edizioni di Sanremo, veniva ormai chiamato il ‘fenomeno canoro’, fenomeno complesso e straordinariamente esteso, capace di mobilitare masse, di muovere capitali, di richiamare le attenzioni del governo e presto anche degli intellettuali, appartenenti alla destra come (e soprattutto) alla sinistra.
Cosa questo fenomeno significasse in termini economici, ovvero industriali e professionali, è presto detto:
Tremila canzoni annue, duemila dischi nuovi, all’anno, trecento case editrici, cinquanta case discografiche, cinquecento cantanti che incidono dischi: poche cifre che illuminano le strutture di quella attività umana che nel mondo e in Italia – cui le cifre stesse si riferiscono – è diventata un fenomeno dalla portata enorme, un fenomeno per tutte le tasche e per tutti i ceti: la canzone (D. Ionio Prevignano, Io, la canzone, 1962, p. 9, corsivo aggiunto).
Questa la situazione nei primi anni Sessanta, quando il ‘fenomeno canoro’ acquista, sull’onda del boom economico e della modernizzazione culturale – oltre che della costituzione anche in Italia come nel resto del mondo occidentale di quella nuova categoria sociale, ‘i giovani’, destinati di lì a poco a diventare i principali anche se non esclusivi consumatori di canzoni –, una fisionomia intuibile ma difficilmente quantificabile.
È a Milano che, almeno a partire dagli anni Trenta (ma Bixio sposta le sue edizioni musicali da Napoli a Roma già nel 1923), si concentra l’industria della canzone in Italia. La distribuzione territoriale delle strutture produttive e distributive mostra però un policentrismo che ripete nel campo della canzone dinamiche riscontrabili anche in altri settori di produzione culturale, come per es. il cinema. In effetti, sono questa dispersione e questa frammentazione nello spazio a rendere difficile definire una canzone italiana, un modello di riferimento, un centro di gravità, che non sia la proiezione di una idea, o meglio di uno stereotipo. Luoghi diversi con storie diverse, gruppi diversi, logiche aziendali anch’esse diverse. Torino è sede della principale orchestra radiofonica di musica leggera (l’Orchestra della canzone, appunto, diretta dall’influentissimo maestro Angelini). La Liguria può contare sull’evento di Sanremo, che poi è anche un’istituzione di rilievo nazionale e quindi non riducibile allo spazio dei pochi giorni di durata della manifestazione; vi è inoltre la forza propulsiva di una città di mare come Genova, incubatrice negli anni Cinquanta di una delle più influenti se non della più influente ‘scuola’ di cantautori (con Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Fabrizio De Andrè e successivamente Ivano Fossati, Francesco Baccini, Max Manfredi), ma anche di alcune delle più significative esperienze da band come i New trolls (nel campo del rock), dei Matia bazar (pop sofisticato) e dei Ricchi e poveri, uno dei gruppi vocali di maggior successo della storia della canzone italiana.
Più defilato, il Veneto ha avuto un ruolo significativo per la diffusione della canzone attraverso le iniziative soprattutto estive che ai due principali centri della regione fanno capo, il Festivalbar a Verona e la Mostra di musica leggera a Venezia, senza con questo dimenticare rappresentanti storici della canzone italiana come Le orme, il primo gruppo di progressive rock a raggiungere un successo commerciale, e una ricca scena cantautorale localizzata specialmente a Verona – e del resto, come si dirà, è proprio nel principale quotidiano della città veneta che per la prima volta si è immaginato qualcosa come una ‘canzone d’autore’. Scendendo lungo lo stivale troviamo Castrocaro, ben posizionata nel cuore di una regione (l’Emilia-Romagna), che alla canzone ha contribuito soprattutto con cantanti e orchestre da ballo, nonché gruppi beat e cantautori. Bologna sarebbe poi diventata negli anni Settanta e Ottanta una delle capitali della canzone d’autore – con Francesco Guccini, Lucio Dalla, Claudio Lolli, e in parte lo stesso Vasco Rossi che sul capoluogo emiliano gravita dalla natìa Zocca –, ma anche centro di irradiamento della cultura rock nelle sue varie anime, incluso il punk e quell’autentica ‘specialità’ italiana che è stato il rock demenziale, di cui è esponente storico il gruppo degli Skiantos guidati dal recentemente scomparso Roberto «Freak» Antoni (cfr. Non disperdetevi, 1977-1982. San Francisco, New York, Bologna, le zone libere del mondo, a cura di O. Rubini, A. Tinti, 2003).
Lasciando da parte l’Umbria, dove pure si è tenuto per anni il Festival delle canzoni religiose di Assisi e dove nascerà nel 1973 il principale festival jazz italiano, Umbria jazz, che anche a certa canzone darà spazio, si arriva così nel Lazio dove, oltre a Fiuggi (tappa finale del Cantagiro) e al Festival degli sconosciuti di Ariccia, troviamo il mondo – ancora importante per tutti gli anni Sessanta e parte dei Settanta – della commedia musicale stabilmente piantato al romano Teatro Sistina. A Roma ha sede poi non solo la principale casa discografica internazionale operante in Italia, la RCA, ma anche due dei più influenti spazi in cui è venuta costruendosi in Italia una ‘cultura della canzone’: il Piper club (la celebre discoteca da cui emergeranno protagonisti della canzone italiana come la veneziana Patty Pravo, negli anni Sessanta, e il romano Renato Zero, nei Settanta) e il Folk studio, piccolo locale fondato nei primi anni Sessanta che diventerà poi, sotto la guida di Giancarlo Cesaroni, sede non solo di eventi cruciali per la storia del folk nostrano, come per es. la prima performance italiana di un giovanissimo e pressoché sconosciuto Bob Dylan, ma anche fucina e palestra di quella che diventerà nota come la scuola romana dei cantautori – quella di Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Rino Gaetano tra gli altri, tutti sospesi in effetti tra il Folk studio e il mondo discografico che fa capo alla RCA e ai suoi satelliti (cfr. M. Becker, C’era un volta la RCA. Conversazioni con Lilli Greco, 2007; M. Gaspari, Penso che un mondo così non ritorni mai più, 2009). La RCA è indubbiamente un’importante fucina di artisti e idee: da qui ha iniziato Modugno nel 1953, da qui prenderà le mosse nel 1960 il fenomeno dei cantautori, un neologismo inventato proprio negli uffici della casa discografica dal suo direttore artistico, Vincenzo Micocci, e dal suo direttore generale, Ennio Melis, per dare una etichetta merceologica ma anche una plausibile identità artistica a cantanti non particolarmente dotati vocalmente che però avevano il merito di cantare ciò che essi stessi scrivevano, come Gianni Meccia, Nico Fidenco, Edoardo Vianello (cfr. V. Micocci, Vincenzo io t’ammazzerò. La storia dell’uomo che inventò i cantautori, 2009). E dopo Roma naturalmente c’è Napoli: un mondo a sé, che per la sua rilevanza storica, la sua complessità e la sua forza propulsiva richiede una trattazione a parte.
Storicamente, come prodotto moderno e quindi industriale o almeno commerciale, la canzone italiana nasce a Napoli. La canzone napoletana è in effetti una ‘componente’, o meglio una matrice identitaria, della canzone italiana; è anche da Napoli e dalla canzone napoletana che si è evoluta non solo e non tanto una canzone identificabile come italiana, ma anche e soprattutto una prima base istituzionale per il mondo della canzone. Anche questo va messo in conto alla canzone melodica italiana, alla canzone sanremese degli anni Cinquanta: il doversi comunque misurare e posizionare rispetto a una tradizione già consolidata, capace di raccogliere il lascito del melodramma e della romanza e coniugarlo con l’identità forte di un luogo, di uno spazio, di una cultura che era urbana ma anche regionale, fortemente caratterizzata e riconoscibile. Una tradizione che già poteva contare su un’aura di ‘artisticità’ grazie alla sua associazione all’opera di letterati e poeti, incluso il ‘nazionale’ (e nazionalista) Gabriele D’Annunzio, che avevano prestato le loro capacità ‘d’autore’ a un genere, la canzone, che seppur minore, a Napoli sembrava trovare più legittimità culturale che altrove (sulla vicenda della canzone napoletana la letteratura è ormai ingente: cfr. almeno Stazio 1991; De Simone 1994; La canzone napoletana 2011; Vacca 2013; La canzone napoletana 2013).
La prima canzone italiana, stando alle convenzioni storiografiche, sarebbe la celebre “Santa Lucia”, originariamente scritta in dialetto napoletano e poi tradotta/adattata in lingua italiana (e questo già nel 1848, tredici anni prima dell’unificazione). A rendere un poco più complicate le cose, bisognerebbe però ricordare che a scrivere la canzone è un compositore ed editore di origini francesi, Teodoro Cottrau, e che a tradurre in italiano il pezzo nel 1850 è un tal Enrico Cossovich, un colonnello di marina di origine dalmata (sic) che si dilettava di poesia e di giornalismo (La canzone italiana, 1861-2011, 2011). Ma il legame tra canzone napoletana e canzone italiana ha altre buone ragioni che dobbiamo ricordare. La prima e più importante è che intorno alla canzone napoletana, ovvero a Napoli, si costituisce già nella seconda metà del 19° sec. un vero e proprio ‘mondo sociale dell’arte’ (nel senso di H.S. Becker, Art worlds, 1982, trad. it. 1996) ovvero una rete di relazioni sociali stabili tra individui e organizzazioni dediti – anche professionalmente – alla produzione e circolazione della canzone. A Napoli nascono le prime case editrici musicali che investono sulla canzone, che costituisce uno degli ingredienti basilari della tradizionale Festa di Piedigrotta, creando le condizioni per la nascita di autori come Salvatore di Giacomo, Libero Bovio, Ferdinando Russo, E.A. Mario, Ernesto Murolo. Sono le case editrici a occuparsi di trovare gli interpreti più adatti per eseguire e portare al successo le canzoni scritte da questi autori. Qualche dato: nel 1876 il barone Ferdinando Bideri fonda la casa editrice omonima, che pubblica tra gli altri futuri classici come “’O sole mio” e “’O surdato ’nnammurato” ed è in grado di offrire al pubblico una canzone nuova a settimana grazie al pool di parolieri e musicisti sotto contratto; nel 1901 il paroliere Francesco Feola e il musicista Giuseppe Capolongo fondano la casa editrice La canzonetta, che pubblica canzoni come “Munasterio ’e Santa Chiara”, “Reginella” e, nel secondo dopoguerra, “Malafemmena” di Antonio De Curtis, in arte Totò che, pur privo di educazione musicale (come del resto molti dei grandi autori di canzoni), aveva spiccate doti di melodista; nel 1903 Francesco Curci, proprietario di un negozio di musica, fonda le edizioni musicali Curci, che nel 1958 porteranno Modugno a Sanremo. Napoli è anche sede di una delle prime tre case discografiche italiane (la Società fonografica napoletana, dei fratelli Esposito, che nasce nel 1901 e nel 1911 cambia nome prendendo l’attuale Phonotype), ed è polo di attrazione per investimenti stranieri (con la sede italiana della tedesca Polyphon, che diretta da Ferdinando Russo introdurrà nel mondo della canzone napoletana tecniche di produzione e forme contrattuali molto più rigide ed efficienti di quelle tradizionali).
Da un lato autori, cantanti, impresari, editori, strumentisti ed esecutori di vario genere, inclusi i celebri ‘posteggiatori’, ovvero musicisti ambulanti che operano in formazioni, dall’altro eventi rituali, spazi e imprese dedicati all’esecuzione, alla performance e, a partire dal 1901, anche alla registrazione delle canzoni. Sarà questo mondo che si va consolidando negli ultimi quattro decenni dell’Ottocento (e che nel 1880 si può dire già dotato di una sua precisa fisionomia) a formare nel primo decennio del nuovo secolo la prima cellula di quella che diventerà poi la canzone italiana. Non è un caso che alcuni dei più influenti autori ‘storici’ della canzone italiana siano originari di Napoli e dintorni: tali sono i già citati Bixio – l’autore delle celeberrime “Tango delle capinere”, “Vivere” e “Mamma” – che a Napoli e a stretto contatto con la scena napoletana iniziò la sua carriera, e Giovanni Ermanno Gaeta, in arte E.A. Mario – autore della “Leggenda del Piave” e di “Vipera”, ma anche di svariate ‘tammurriate’ (tra cui la “Tamurriata nera”, canzone del 1945 in cui si affronta in chiave ironica la questione delle nascite di bambini di colore negli ospedali napoletani, a seguito della presenza di soldati afroamericani in città ai tempi della Liberazione), oltre che di numerose raccolte di poesie in napoletano. Nel corso delle loro lunghe carriere (che dall’età giolittiana approdano a quella repubblicana), autori come Bixio e Mario hanno scritto e composto canzoni sia in dialetto sia in lingua, per cantanti napoletani e per cantanti di altre regioni. Nel secondo dopoguerra, i loro brani hanno concorso sia a Sanremo sia al Festival della canzone napoletana (e prima a Piedigrotta), che erano, in effetti, due competizioni canore formalmente distinte ma con forti contiguità, come dimostra il confronto tra gli elenchi dei partecipanti alle due manifestazioni: chi cantava canzoni in italiano – Pizzi, Togliani, Latilla – poteva essere chiamato a interpretare canzoni in dialetto napoletano, pur non avendo competenze linguistiche né radici in questo senso. In napoletano (anche se un napoletano ibrido) cantava anche Modugno nelle sue prime prove di autore e cantante, prima di andare a Sanremo e vincere con “Nel blu, dipinto di blu” – brano che avrebbe cambiato come noto le strutture simboliche e sociali della canzone italiana.
Non che non ci fossero distinzioni tra le due canzoni, quella napoletana e quella italiana. Con la lingua, e quello che potremmo chiamare l’orizzonte di aspettative del pubblico, potevano cambiare i registri, gli stili, i modi. Così, gli stessi autori quando scrivevano in napoletano potevano permettersi di essere più realistici, meno retorici, di quando componevano in italiano (è il caso di Mario, la cui “Tammurriata nera” è stilisticamente e linguisticamente antitetica alla “Leggenda del Piave”). Una sempre più nitida distinzione tra canzone napoletana e canzone italiana prende forma comunque nel momento in cui si dedicano festival separati all’una e all’altra, in cui peraltro sono poi gli stessi interpreti e spesso anche autori a circolare, in una sorta di simbiosi che perpetua l’antico modello (risalente almeno al periodo romantico) del canto napoletano come simbolo metonimico del carattere nazionale, naturalizzato, degli italiani (A. Rostagno, Canto, popolo, nazione, regionalismo: concetti in continuo mutamento, in La canzone napoletana, 2011, p. 59). Certo ci sono innovazioni nella canzone napoletana del secondo dopoguerra: tra queste quelle apportate da Renato Carosone, che contamina pesantemente la tradizione con innesti swing e blues provenienti da oltreoceano (F. Vacalebre, Carosonissimo, 2011). Sono entrate nel canone della canzone italiana benché in dialetto pezzi come “Maruzzella”, “Tu vuo fa’ l’americano” e “’O sarracino”, le ultime due composte con il paroliere Nisa, ovvero Nicola Salerno, napoletano di origine ma da tempo insediato professionalmente a Milano, alla Ricordi.
Sino a tutti gli anni Cinquanta la canzone napoletana mantiene tuttavia un’omogeneità di fondo, che si manifesta nei suoi riferimenti e nelle sue convenzioni, oltre che in una sostanzialmente unitaria, interclassista, base sociale. Poi, con gli anni Sessanta, le cose cambiano. Anche a Napoli il beat e poi il rock prendono piede, si diffondono e impongono come modelli di riferimento e non più semplicemente come fonti di esotici innesti. E c’è la scoperta del folk come musica autenticamente popolare, premoderna, di matrice rurale. Fa anche qui la sua comparsa la figura del cantautore, che a Milano, Genova e Roma si era originariamente costituita grazie all’incontro, come si è accennato, di una nuova generazione di autori con un manipolo di imprenditori e operatori discografici che agivano su scala nazionale alla ricerca di nuovi spazi di mercato ma anche in qualche caso con un progetto culturale. A partire dagli anni Sessanta, il mondo un tempo unitario della canzone napoletana si differenzia, e si costituisce come spazio strutturato di posizioni e di distanze, in breve come ‘campo di produzione culturale’ (P. Bourdieu, Raisons pratiques, 1994; trad. it. 1995). Quattro mondi distinti, variamente integrati e parzialmente comunicanti, ma anche separati da tensioni e opposizioni, si trovano a interagire – in certi casi apertamente e volutamente, in altri tacitamente e persino inconsapevolmente – in questo nuovo sistema di relazioni insieme sociali e musicali.
Il mondo della canzone napoletana classica diventa dopo gli anni Sessanta del Novecento una sorta di ‘museo immaginario’ (L. Goehr, The imaginary museum of musical works, 1992), in cui si conservano tutti quei brani e quegli autori (parolieri-poeti e compositori) entrati nel canone, peraltro in movimento. Il repertorio canonizzato funziona come oggetto di studio e, per cantanti e musicisti, come una fonte di standard a disposizione di tutti, con qualche rara reinterpretazione che trasforma e innova (per es. Beppe Barra) ciò che la maggior parte degli altri semplicemente riproduce ed esegue, nei limiti dei propri mezzi espressivi. Si misurano con questo repertorio, contribuendo alla loro consacrazione ovvero canonizzazione, interpreti autorevoli come Roberto Murolo e Sergio Bruni, scomparsi entrambi nel 2003, considerati gli autentici eredi della canzone napoletana delle origini (origini che poi si allungano sino al secondo dopoguerra). Naturalmente, prima di entrare nel ‘museo immaginario’ della canzone napoletana classica molte di queste composizioni sono state oggetto a loro volta di tensioni e opposizioni: per es., “Luna rossa” (scritta nel 1950 da Vincenzo De Crescenzo e Antonio Vian, e portata al successo anche internazionale grazie a Villa e soprattutto a Frank Sinatra) venne in origine considerata un cedimento al gusto americano, con il suo tempo di beguine. Insomma, il mondo della canzone napoletana ‘classica’ (che gli storici della canzone datano al 1880, considerando come preclassica la canzone della fase precedente) è un insieme di stili e ritmi, una stratificazione di temi e moduli, accomunati dal fatto di essere stati selezionati come ‘il meglio’ ed essere quindi entrati in un canone – le canzoni consacrate, che non si mettono in discussione. Al centro di questo mondo, storicamente, stavano le cosiddette Piedigrotte – un ‘sistema’ di produzione e circolazione le cui origini sono ottocentesche se non precedenti, a metà strada tra rituale religioso e struttura d’impresa, e in cui trovavano posto autori, editori, musicisti, cantanti e ascoltatori-spettatori – e poi, dal 1952 e sino al 1970, il Festival della canzone napoletana, lanciato sull’onda di Sanremo sempre dalla radio-televisione pubblica. Ridottesi o quanto meno riallineatesi le basi editoriali, è oggi un mondo composto soprattutto da musicisti e cantanti-interpreti, oltre che da svariati milioni di appassionati dispersi nel globo. La circolazione della canzone classica napoletana trascende infatti, e questo già dai primi del Novecento, i confini locali e persino nazionali, ed è dal secondo dopoguerra parte integrante del repertorio di cantanti di formazione sia classico-lirica sia pop (soprattutto internazionale: da Elvis Presley alla israeliana Noa).
Il mondo di quella che possiamo chiamare canzone di ricerca prende forma alla fine degli anni Sessanta e giunge a maturazione nei primissimi anni Settanta: qui troviamo figure di artisti che sono anche intellettuali e studiosi/ricercatori, come Roberto De Simone – sicuramente la figura di riferimento in questo mondo –, Eugenio Bennato, ma anche Teresa De Sio. Al cuore di questo mondo, dal punto di vista della performance, c’è l’esperienza di collettivi musicali come la Nuova compagnia di canto popolare (NCCP) diretta da De Simone (da cui emergerà un interprete inventivo del canone come il già citato Barra), e il Gruppo operaio ’E Zezi (tra loro in contrasto proprio per la diversa concezione della ricerca anche filologica). L’approccio di De Simone è diverso da quello di Gianni Bosio, il leader della principale esperienza nazionale, ma in realtà centrosettentrionale, nel campo del folk revival, il Nuovo canzoniere italiano (vedi C. Bermani, Una storia cantata, 1997); De Simone è mosso da esigenze più estetiche che politiche, è interessato alla ricostruzione dello spirito originario delle tradizioni popolari attraverso una ricerca inedita di soluzioni compositive anche formali, sulla base di documenti scritti d’archivio e non solo orali (di questo lavoro è indubbiamente espressione esemplare l’opera in tre atti La gatta Cenerentola, del 1976, che travalica evidentemente i confini del nostro oggetto). Significativamente, sarà la rielaborazione di uno degli ultimi pezzi composti da E.A. Mario, la già citata “Tammurriata nera”, a rappresentare per il grande pubblico anche internazionale l’opera di recupero e valorizzazione della NCCP: ulteriore testimonianza di quel gioco di intrecci e di specchi tra mondi della canzone su cui vogliamo qui porre l’accento per tentare di restituire una immagine della canzone italiana non rigidamente segmentata per generi né pregiudicata dalla preferenza dello studioso per una tradizione a scapito di un’altra. La NCCP sarà a sua volta fonte di ispirazione e luogo di incubazione per progetti di innovazione folclorica: è il caso, già nel 1976, del gruppo Musicanova, guidato da Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò (entrambi provenienti dal collettivo di De Simone), che troverà un inatteso successo anche di pubblico e a livello nazionale grazie alla colonna sonora di uno sceneggiato televisivo (L’eredità della priora, 1980), il cui brano di punta, “Brigante se more”, acquisirà in breve tempo lo status di classico, tanto da fare credere a molti che si trattasse di un semplice adattamento di un pezzo tradizionale e non di un brano originale quale è, come i suoi autori hanno spesso dovuto ribadire (cfr. E. Bennato, Brigante se more. Viaggio nella musica del Sud, 2010). Questo tipo di canzone non si limita quindi a ripresentare ciò che viene scoperto dalla ricerca sul campo o d’archivio: nel rispetto degli stili e dei modi, esso inventa, compone, crea. Tra i più recenti protagonisti di questo mondo merita almeno una segnalazione una figura eccezionale come quella di Enzo Avitabile, che ha iniziato la sua carriera come jazzista e sassofonista in gruppi rock e jazz-rock per passare poi alla ricerca di sonorità e anche strumentazioni originali (i suoni delle botti percosse, quelli delle antiche corde, ecc.). Si tratta del mondo a più alto capitale simbolico, testimoniato dal riconoscimento intellettuale e artistico riservato ai suoi protagonisti: De Simone è stato direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli e, per chiara fama, del Conservatorio San Pietro a Maiella; Avitabile ha conquistato non solo diversi premi nazionali e internazionali ma anche le attenzioni di un regista di riconosciuto valore come Jonathan Demme, che gli ha dedicato il film-documentario Music life (2011).
Il terzo mondo è quello del pop-rock partenopeo, in formazione già negli anni Sessanta: qui troviamo sia il (sotto)mondo della cosiddetta scuola napoletana della canzone d’autore – come Edoardo Bennato, il primo Alan Sorrenti, la già citata Teresa De Sio, Pino Daniele, Enzo Gragnaniello – sia i diversi gruppi (come gli Showmen, Osanna, Napoli Centrale e più recentemente, legati al mondo dei centri sociali e dell’antagonismo urbano, gli Almamegretta, i 99 Posse, i Co’ sang, gli A67) che hanno animato la scena musicale popular del capoluogo campano negli ultimi quarant’anni. Con il nome di Napule’s power, e la guida del giornalista e produttore Renato Marengo, questa produzione aveva assunto negli anni Settanta le sembianze di un vero e proprio movimento artistico, in cui progetti estetici si saldavano con rivendicazioni culturali a base regionale. Anche da qui si svilupperanno nei decenni successivi i germi della canzone che si definirà etnica, in cui motivi folclorici locali si combinano con ritmi e sonorità rock ed elettroniche. Ma gli sviluppi saranno diversificati, se non opposti: dalla dance (genere verso cui scivoleranno presto, già alla fine del decennio, Alan Sorrenti e anche il percussionista Toni Esposito) al rap sino alla elettronica. Si tratta insomma di un mondo al suo interno eterogeneo per stili e generi, in cui hanno convissuto e ancora convivono esperienze distinte anche se contigue come quelle del cantautorato e delle posse, delle chitarre a 12 corde e delle sonorità elettroniche. Un mondo che pur radicato nel territorio poggia su un’economia di tipo industriale e conosce una circolazione che trascende i confini locali per farsi almeno nazionale, ma a volte anche internazionale. La contaminazione con suoni e forme non autoctone è fondamentale – che sia rock, beat, blues, jazz e più di recente rap, dub ed elettronica. Vale la pena ricordare che Napoli non è solo la patria della canzone napoletana ma anche la città italiana a più stretto contatto con la cultura angloamericana, grazie al suo porto e alla base militare americana, e che il blues, il jazz e il rock hanno trovato qui, sin dagli anni Cinquanta, radici più solide che altrove (M. Merolla, Rock’n’roll, Italian way, 2011, pp. 26-45). Si colloca nel perimetro di questo mondo, sebbene parzialmente segregato, anche quell’insieme (quel sottomondo) di cantanti, di autori, di complessi che muove da Napoli e in parte dalla tradizione napoletana per una produzione tipicamente non dialettale diretta a un pubblico nazionale (o meglio nazional-popolare), e che nel mercato nazionale della musica cosiddetta leggera (o pop) trova la sua ragion d’essere; si pensi a Peppino Di Capri (attivo dal 1958 come ‘urlatore’ con i suoi Rockers e quindi dopo il 1970, in coincidenza con la vittoria al festival di Napoli, come cantante e autore pop attento al repertorio napoletano), Massimo Ranieri (peraltro molto attivo anche come interprete della canzone classica), Peppino Gagliardi, Edoardo De Crescenzo, gli Alunni del Sole, o Sorrenti (nella seconda parte della sua carriera). Collocabile al polo opposto di questo mondo composito – esso stesso sottocampo in effetti – è invece come vedremo quella produzione di ‘canzone d’autore’ che si muove ai confini con il mondo della ricerca: i fratelli Bennato sono da questo punto di vista esemplificativi della distinzione e però anche dell’integrazione tra questi due mondi.
Infine, il quarto mondo, in effetti il più peculiare ed esotico di tutti, quello della canzone oggi detta neomelodica, un tempo chiamata anche sottoproletaria (T. Tarli, P. De Iulis, Vesuvio pop. La nuova canzone melodica napoletana, 2009; cfr. anche Di Mauro 2010). È il mondo della sceneggiata, e ancor prima della canzone cosiddetta ‘di giacca’, ma anche della canzone di malavita. Non nuova in effetti (la sceneggiata esiste dal 1919), questa canzone ha vissuto ai margini della canzone classica, come accomodamento delle sue strutture e forme verso il basso, verso il gusto dei ceti svantaggiati, verso la domanda di una traduzione espressiva ed estetica della loro esperienza di vita ai confini della legalità, e anche oltre quei confini. Una esperienza di esclusione e di sopraffazione, a volte di rassegnazione, a volte di reazione anche violenta. È il mondo della canzone che parla delle cose della vita quotidiana, sentimenti inclusi, di chi vive nei vicoli e nei quartieri popolari, con il linguaggio della vita quotidiana, che è il dialetto nella sua evoluzione e quindi contaminazione con l’italiano dei mass media. Uno dei suoi temi dominanti è la gestione della sessualità – ciò che fa di questo genere espressivo uno dei luoghi in cui registrare i cambiamenti di pratiche e valori occorsi in questi decenni nel Sud. È qui che troviamo la canzone di maggior successo commerciale e di pubblico a livello locale, all’origine di fenomeni di divismo difficilmente comprensibili – e spesso poco conosciuti – fuori dal contesto regionale: si pensi allo status carismatico, quasi leggendario, conquistato nel tempo da figure come Mario Merola, Pino Mario, Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio. Un mondo che vive sospeso tra l’underground artigianale, spesso improvvisato, e l’industria culturale ‘maggiore’, per chi riesce a compiere il salto verso il grande pubblico nazionale quando non internazionale, come è successo a D’Angelo prima e poi a D’Alessio. È la canzone napoletana che, da un punto di vista sociologico, può riconoscersi oggi come popolare, non nel senso di folcloristica, ma in quello più pregnante di espressione culturale (ed estetica) dei gusti e dei valori, delle urgenze e delle esigenze, delle classi popolari che abitano la metropoli campana; con una capacità d’influenza che si estende però in tutto il Mezzogiorno, arrivando sino alla Sicilia – i cui ceti popolari urbani trovano a Napoli e nella sua produzione le forme di espressione musicale nel campo della canzone più congeniali al proprio gusto e ai propri valori.
Provengono tipicamente dai ceti popolari – a bassa scolarizzazione – non solo i consumatori ma anche i produttori di questa canzone: parolieri, compositori, arrangiatori e cantanti inclusi (Merola era figlio di un ciabattino e ha fatto lo scaricatore di porto prima di entrare nel mondo della canzone; D’Angelo faceva il gelataio; il padre di Gigi D’Alessio lavorava in Venezuela per garantire uno stile di vita decoroso alla famiglia). L’integrazione di questo mondo nel sottoproletariato urbano è all’origine anche del legame, più volte ipotizzato e qualche volta accertato dalla magistratura, di diversi cantanti – anche di successo – con la camorra. È il caso di Merola e soprattutto di Pino Mauro, ma anche di D’Alessio, che ha ammesso di essere stato più o meno obbligato a regalare alla camorra molte canzoni. Peraltro, ci sono prove che la canzone neomelodica sia utilizzata dalla camorra anche a fini di propaganda e costruzione del consenso, oltre che per ricavarne profitti. Canzoni incise con pochi mezzi in studi di registrazione locali da musicisti locali, per etichette discografiche locali (quando ci sono, spesso sono autoproduzioni), e trasmesse da radio locali peraltro seguitissime, o antenne televisive altrettanto locali. Solo in rari casi – i citati Merola, D’Angelo, D’Alessio – al circuito locale si aggiunge col tempo quello nazionale, anche televisivo e cinematografico. Più che sul disco (o sul cinema) l’economia di questo mondo poggia però sul circuito della musica dal vivo, sia sotto forma di concerti – in piazza, in tendoni, in discoteche, più raramente in teatri – nei casi più fortunati, sia di accompagnamento musicale a feste e cerimonie (battesimi, matrimoni, comunioni). Il riferimento al mercato è dominante, incluso quello illegale delle musicassette prive di marchio SIAE, delle bancarelle, e delle ricompense in nero. Ai migliori di questo mondo, a coloro cioè che vengono riconosciuti pur con incertezze come portatori di istanze artistiche e poetiche, si apre la possibilità di un passaggio verso altri mondi – sia quello della canzone d’autore (è il caso di D’Angelo dopo gli anni Novanta) sia quello della canzone classica, e quindi dell’interpretazione più o meno creativa del canone.
Ci soffermiamo ora su un genere (un mondo, un campo) di canzone che in Italia ha acquisito una sua specifica e forte autonomia, o per meglio dire una sua identità anche istituzionale e organizzativa, oltre che – ma qui il discorso si fa più complesso – estetica: è la canzone d’autore.
Non è facile dire precisamente cosa sia la canzone d’autore: come tutte le categorie classificatorie, tanto più se fondate su giudizi di gusto come in questo caso, i confini del campo restano sfumati e sono sempre soggetti a contestazione e trasformazione. È stato sottolineato che l’espressione canzone d’autore non si limita a identificare genericamente un sottoinsieme di canzoni firmate, quelle con cui si confrontavano negli anni Quaranta e Cinquanta i cantastorie con il loro repertorio anonimo o meglio anonimizzato da fogli volanti (i cantastorie come abbiamo visto operavano per tradizione al di fuori del regime del diritto d’autore e non erano attrezzati né disposti a fare i conti con esso); con questa espressione ci si riferisce solo a quel modo di fare canzoni che presuppone o meglio implica un ‘autore’ in senso forte, in quanto personaggio dotato di capacità creativa e soprattutto di cifra artistica che lo distingue. Perché, come è stato detto e scritto infinite volte da quando è stata proposta, sul finire degli anni Sessanta, l’idea di una canzone d’autore, questa può esistere solo nella misura in cui si concede che la canzone possa essere una forma d’arte: ed è questa pretesa artistica – che può essere più o meno riconosciuta e accolta dalla critica e dal pubblico, ma deve almeno essere data e concessa da qualcuno – a definire l’appartenenza di una canzone al campo della canzone d’autore.
In altri termini, non basta che una canzone abbia un autore, occorre che questo autore sia riconosciuto da qualcuno come un artista o almeno come capace di creazione di valore artistico. È però da riconoscere che nel corso del tempo sono state classificate come canzoni d’autore anche composizioni che non sono riconducibili in senso stretto a un qualche autore singolarmente preso – e la singolarità è una delle proprietà più tipiche del valore artistico. È questo il caso di molte canzoni di gruppi e bande che operano tipicamente nell’ambito del rock, firmate da tutti o da una parte dei membri del gruppo, che esiste quindi come una sorta di autore collettivo (da qui il conio del neologismo bandautore). Ma è soprattutto il caso di quelle canzoni che nascono dalla collaborazione sistematica, quasi osmotica, di due o più autori, come nel caso delle accoppiate compositore-paroliere, la cui sinergia viene riconosciuta come produttiva di una cifra, di una identità condivisa e riconoscibile: si pensi alla coppia Lucio Battisti e Mogol, la cui opera è stata recentemente acquisita da almeno parte della critica al campo della canzone d’autore, dalla quale pure era stata a lungo esclusa (cfr. Salvatore 1997).
In questo senso, l’espressione canzone d’autore copre uno spazio semantico insieme più circoscritto e più ampio di quello occupato dalla parola cantautore, a essa strettamente associata. Più circoscritto, perché non basta scrivere e cantare le proprie canzoni per produrre canzoni d’autore: a questa stregua, anche Villa dovrebbe includersi nei territori protetti della canzone d’autore, avendo firmato diverse delle canzoni da lui interpretate, tra cui la celebre “Binario”. Più ampio, perché non è necessario essere cantautori per essere ammessi in tale campo: e questo non solo per quel principio di produzione collettiva a cui si è fatto cenno, ma anche perché questo tipo di canzone prevede poi la figura dell’interprete di canzone d’autore, che in quanto tale contribuisce con la cifra stilistica, ovvero con la ‘voce’ della sua interpretazione, alla creazione del valore artistico dell’opera: è il caso, tra le altre, di Ornella Vanoni e Fiorella Mannoia, riconosciute interpreti di canzone d’autore.
Benché l’espressione venga ormai abitualmente usata, anche dalla critica, anzi soprattutto dalla critica, per indicare, nel campo della musica popular (‘leggera’ sarebbe in questo caso quanto mai fuorviante, in quanto la canzone d’autore rifiuta l’etichetta di ‘musica leggera’), fenomeni musicali privi di confini spaziali e quindi di connotazioni geografiche, essa è a tutti gli effetti una categoria nata in Italia per rispondere a eventi italiani e solo qui ancora oggi utilizzato diffusamente. Come in Francia esiste una chanson ed esistono gli chansonniers con caratteristiche specifiche e in buona parte autoctone (che a loro volta presuppongono la storia culturale, sociale, politica della Francia in quanto nazione con una propria identità e vicenda), così si può dire che in Italia esistono i cantautori e soprattutto la canzone d’autore. Questa connotazione locale, che è poi nazionale, trova una dimostrazione indiretta nel fatto che non solo nella lingua francese (dove è in uso anche il neologismo composito auteur-compositeur-interprèt che si avvicina a cantautore), ma anche nella lingua inglese manca e continua a mancare un corrispettivo adeguato del primo quanto del secondo termine: e non è tale infatti il pur frequentemente utilizzato singer-songwriter (letteralmente «cantante e scrittore di canzoni»), che perde appunto il riferimento cruciale all’idea di autore con tutti i suoi connotati storicamente e culturalmente sedimentati. Per quanto ci siano indubbiamente espressioni musicali assimilabili per intenzione e risultato alla canzone d’autore, in senso stretto quest’ultima, in quanto schema di classificazione e categoria classificatoria, è un prodotto e una manifestazione, oltre che una spia e un indizio, della cultura e della storia italiana, invalso nel tempo a etichettare e classificare anche prodotti musicali non strettamente riconducibili a esso.
La genesi della canzone d’autore in quanto appunto autoctona e autonoma categoria culturale ci riporta a Sanremo, al Festival della canzone italiana (Santoro 2010): è qui che nella notte del 31 gennaio 1967 uno dei concorrenti si uccide con un colpo di pistola alla tempia. Il suo nome è Luigi Tenco, e le cronache musicali dell’epoca lo conoscono come uno dei più qualificati cantautori della ‘scuola genovese’, un insieme di cantanti, anche autori delle loro canzoni, che nella città ligure vivevano o avevano radici. Paoli, Bindi, Lauzi e De André sono i più noti del gruppo (che conta anche altri personaggi, inclusi alcuni che non cantano ma si limitano a scrivere o comporre: i fratelli Gianfranco e Giampiero Reverberi, arrangiatori di quasi tutta la loro produzione, Giorgio Calabrese paroliere di Bindi che del gruppo è quello più avvezzo alla composizione musicale e meno alla scrittura). Quella morte – non una morte qualunque, ma un suicidio, per di più accaduto nel corso del Festival e motivato da ragioni che al Festival e alle sue logiche facevano diretto riferimento – getta un’ombra scura e lunga sul mondo della musica leggera nazionale, sulla canzone italianamente intesa come fonte di evasione da parte del pubblico, e di profitti da parte dei discografici che il Festival pilotavano o cercavano di pilotare, negoziando spazi e vittorie con gli organizzatori, inclusa la radio-televisione di Stato. Chi scrive ha proposto di leggere l’evento nella chiave di un ‘trauma culturale’: perché era un intero sistema di significati a essere chiamato in causa e messo in dubbio da quel gesto – insieme tragico e apparentemente folle –, ma solo nella misura in cui alla canzone non si riconosceva che quella ‘leggerezza’ che però diventava un problema ed era esplicito bersaglio critico di intellettuali e artisti, almeno dalla metà degli anni Cinquanta. Si pensi a Cantacronache e al Nuovo canzoniere italiano, esperienze che Tenco ha ben presenti quando accetta di gareggiare sul palco di Sanremo spinto dalla sua nuova casa discografica, l’americana RCA, non a caso proponendo una sua canzone sul tema dell’emigrazione (“Ciao amore, ciao”): come è stato detto per “Nel blu, dipinto di blu” rispetto a Modugno, anche qui potremmo dire che la canzone era troppo ‘alla Tenco’ per piacere a Sanremo, ma anche troppo sanremese – a cominciare dal refrain che fornisce anche il titolo – per poter essere considerata una canzone ‘di Tenco’.
La nascita della canzone d’autore è immediatamente conseguente a quel suicidio, al trauma culturale che esso ha prodotto in una cerchia di artisti e critici musicali (per lo più giovani) che conoscevano e stimavano Tenco, e alle pratiche di riparazione che quel trauma sollecitava per essere, se non superato, almeno accomodato. Non è un caso quindi che proprio a Sanremo nasca nel 1972 – ma il progetto prende avvio sin dai mesi immediatamente successivi alla tragedia – un’associazione dedicata a Tenco (sin dal nome, Club Tenco). L’iniziativa parte da Rambaldi, lo stesso che aveva ideato e proposto il Festival all’amministrazione della cittadina balneare nel lontano 1946, il quale era convinto che qualcosa si poteva e doveva fare, non solo per difendere e diffondere la reputazione, il nome di Tenco, ma più in generale per dare un sostegno a quanti, come Tenco, credevano nella canzone come oggetto culturale e operavano per valorizzarla e qualificarla nei contenuti e nelle forme. In breve, per dare un sostegno e una ‘casa’, ovvero una base organizzativa, a quanti volessero lavorare per dare valore artistico a quell’apparentemente minore genere che è la canzone.
La categoria di ‘canzone d’autore’ venne introdotta nel 1968 da un giovane critico musicale veronese, Enrico De Angelis (che avrebbe poi operato dentro il Club Tenco sin dalla sua nascita, e preso le redini di direttore artistico alla scomparsa di Rambaldi nel 1995) per titolare una sua rubrica sul quotidiano «L’arena di Verona» (cfr. De Angelis 2009); ricevette poi un riconoscimento istituzionale quando venne scelta per dare il nome alla principale manifestazione del Club Tenco, la sua stessa ragion d’essere: l’annuale Rassegna della canzone d’autore, pensata e organizzata come seria alternativa al Festival della canzone italiana, sin dal nome. Con una scelta anch’essa indicativa del progetto culturale perseguito, e di chiara presa di distanza sia dal Festival sanremese sia dal modello commerciale dominante nel campo discografico, anche la più piccola parvenza di competizione tra gli artisti venne abolita, così come qualunque possibilità di contaminazione con la logica di mercato. Non una gara canora quindi, ma uno spettacolo con annessa consegna di riconoscimenti puramente simbolici per varie categorie di canzoni e formati: il Premio o meglio i Premi Tenco, trasformatisi dal 1984 nelle famose Targhe Tenco, conferite a seguito di un referendum tra giornalisti, critici e operatori culturali selezionati dal Club. Le Targhe vengono oggi attribuite nelle seguenti categorie (ma sono lievemente cambiate nel corso degli anni): album, canzone, album dialettale, opera prima, interprete. Sono previsti anche Premi alla carriera, e questo per artisti italiani, artisti stranieri, e anche operatori (da qualche anno è prevista anche una Targa per l’arrangiatore/musicista). A differenza delle targhe, i premi sono decisi esclusivamente dal direttivo del Club. Autofinanziamento e sovvenzione pubblica, oltre che molto volontariato, costituiscono le basi economiche su cui si reggono il Club e la Rassegna – in cui nessuno degli artisti viene remunerato. Si tratta di un modus operandi, di una strategia di gestione organizzativa che riproduce quasi perfettamente quello che Paul DiMaggio ha sociologicamente chiamato (ricostruendolo a partire da un’analisi della storia della vita culturale di Boston) il ‘modello dell’alta cultura’, che è poi la base istituzionale reale che consente di classificare come ‘cultura’ o ‘arte’, e non ‘commercio’ o semplice intrattenimento, una pratica o una produzione simbolica (P. DiMaggio, Organizzare la cultura, 2009).
A qualificare la canzone d’autore, la canzone cioè che ha diritto d’accesso alla Rassegna del Club Tenco, cosa che la rende un tipo di canzone sui generis, è la sua ‘qualità’ – termine che si presta a molteplici interpretazioni e attribuzioni, e che rimanda a quella possibilità di un’autonomia del giudizio estetico su cui si fonda la critica d’arte, e il valore artistico. L’obiettivo statutario del Club è del resto esplicito: «riunire tutti coloro che, raccogliendo il messaggio di Luigi Tenco, si propongono di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo». Gli artisti premiati (tramite premi e targhe) dal 1974, anno della prima edizione della Rassegna, sono più di un centinaio. La lista dei vincitori definisce una sorta di gotha, un libro d’oro della canzone italiana, in cui troviamo alcuni nomi storici del cantautorato – di scuola genovese (De André, Paoli, Bindi, Lauzi), milanese (Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Roberto Vecchioni), bolognese (Guccini), romana (De Gregori, Giovanna Marini) nonché ibridi, come l’astigiano Paolo Conte sospeso tra Genova e Milano – ma anche nomi della più generale canzone italiana, a cominciare da Modugno, padre di cantautori ma anche figura di ponte tra la prima e la seconda fase della storia della canzone italiana, vincitore di tre Festival di Sanremo e protagonista della cultura massmediatica nazionale se non nazional-popolare (tanto da meritarsi il soprannome di ‘Mimmo nazionale’).
Troviamo anche nomi che abbiamo già visto, nomi che hanno contribuito alla riscoperta e alla valorizzazione delle risorse folcloriche (De Simone, Straniero), o che hanno operato perché queste risorse fossero valorizzate (Dario Fo, Nanni Ricordi, Giancarlo Cesaroni). Troviamo poeti e letterati riconosciuti (ancora Fo, Nobel per la letteratura, e Roberto Roversi, poeta scrittore e organizzatore intellettuale la cui collaborazione con Lucio Dalla nei primi anni Settanta ha mostrato come si potesse combinare qualità letteraria e impegno civile con musicalità e sonorità popular). Altrettanto significative delle inclusioni sono però le esclusioni – perché è da qui che si possono identificare i confini che delimitano la ‘canzone d’autore’, distinguendola dal resto della produzione canora nazionale, almeno secondo il giudizio collettivo del Club. Protagonisti della canzone italiana come Villa, Pizzi, Tajoli, Carla Boni, Latilla, Iva Zanicchi, Celentano e persino Mina (che interprete di canzoni d’autore è certo stata anche contribuendo alla carriera di alcuni allora giovani cantautori) non trovano posto nel campo della ‘canzone di qualità’, come non lo trovano peraltro cantautori di grande successo commerciale e seguito (e spesso anche con positivi giudizi da parte della critica) come Claudio Baglioni o Riccardo Cocciante o Renato Zero – che pure non hanno mai coltivato un rapporto stretto con il Festival della canzone italiana.
Ma l’assenza più clamorosa è sicuramente quella di Battisti, ovvero del dominatore indiscusso come autore e come interprete delle classifiche di vendita (sia 45 giri sia album) degli anni Settanta, coautore – con Giulio Rapetti, in arte Mogol, uno dei più influenti e prolifici parolieri italiani della seconda metà del Novecento – di autentici classici della canzone italiana come “29 settembre” (portata al successo nel 1967 dall’Equipe 84), “Pensieri e parole”, “Emozioni”, “La canzone del sole”, “Acqua azzurra, acqua chiara”; Battisti fu anche produttore di bande di rock progressivo come la Formula 3 (guidata da Alberto Radius), e dagli anni Ottanta sino alla prematura scomparsa, avvenuta nel 1999, fu autore insieme al poeta romano Pasquale Panella di alcuni degli album più innovativi ed ermetici nella storia della musica popular italiana, come “Don Giovanni”, “L’apparenza, Hegel” (cfr. L. Ceri Pensieri e parole. Lucio Battisti. Una discografia commentata, 1996, 2008 per una discografia ragionata, e Salvatore 1997 per un’analisi musicologica della produzione battistiana con Mogol). Eppure, al ‘cantautore’ Battisti un’apertura verso il riconoscimento artistico era stata fatta già nel 1974 – lo stesso anno della prima Rassegna della canzone d’autore – dal critico musicale e produttore Renato Marengo: questi lo intervistò, approfittando di un incontro fortuito (l’intervista è stata poi ripubblicata in R. Marengo, Lucio Battisti: la vera storia dell’intervista esclusiva, 2010), presentando il ritratto di un artista non solo competente, consapevole e perfezionista ma anche impegnato, e proiettato ben al di là di ogni logica commerciale, in una esplorazione musicale sulle strutture della canzone, convergente con la ricerca di coloro che stavano lavorando per un perfezionamento di quella stessa forma insistendo più sul versante poetico ovvero testuale.
Cercare una spiegazione musicologica e tecnica, persino estetica, all’esclusione di Battisti dai territori riconosciuti (per quanto dai confini sempre incerti) della canzone d’autore non porterebbe lontano, al di là del privilegio arbitrariamente accordato – dalla maggior parte dei critici e degli studiosi, anche se non da tutti – alle parole rispetto alle musiche (cfr. De Angelis 2009; Antonelli 2010; Nobile 2012), al messaggio rispetto al tessuto sonoro. Presenze e assenze in questi territori rispondono a logiche che sono innanzitutto classificatorie, e come tali fondate su quelli che ancora Bourdieu chiamerebbe ‘arbitrari culturali’: tra questi, una certa idea, storicamente e localmente situata, di quale sia l’atteggiamento, l’habitus appropriato, la postura per risultare credibili come artisti o intellettuali, ovvero quali siano le sedi, i luoghi e i tipi di pubblico a cui ci si può legittimamente rivolgere in quella veste. In un saggio influente, Franco Fabbri (Il suono in cui viviamo, 1996) ha proposto una serie di ‘norme’ come elementi identificanti il genere della canzone d’autore – come altri generi peraltro, ciascuno con il suo sistema normativo rilevante per la relativa ‘comunità’. Come ho sostenuto altrove (Santoro 2010), si tratta di una soluzione insoddisfacente, che finisce per congelare in presunte regole e per ipostatizzare in ‘comunità’ chiuse ciò che è invece un sistema di relazioni dai confini mobili e un sistema di orientamento e disposizioni anche strategiche in gran parte contingente, quindi mutevole, guidato da una logica che è chiaramente quella della distinzione (cfr. P. Bourdieu, La distinction, cit.).
Per ragioni che hanno a che fare con la sua genealogia, la canzone d’autore si è costituita come categoria non solo estetica, ma anche e soprattutto politico-culturale: è la figura del cantautore (ma anche dell’interprete, e dell’autore) ‘impegnato’ a costituire la chiave di volta della sua identità. Questo impegno però non si fonda tanto su una precisa scelta politica: in fondo, nel campo della canzone d’autore non si è mai andati al di là di un generico orientamento ‘a sinistra’, con forti e diffuse venature anarchiche che possono trovare espressione anche in certo liberalismo radicale (non facilmente conciliabile peraltro con un’idea di sinistra), a differenza della ‘canzone politica’, in cui più diretta ed esplicita è invece per definizione quella scelta. L’impegno si traduce piuttosto nella indisponibilità a scivolare nel qualunquismo – quando non nel sentimentalismo, per quanto universalizzabile e quindi autenticamente ‘umano’ questo possa suonare (nel sentimental-kitsch, direbbe Manconi 2012) – e nel riconoscimento del valore della dimensione collettiva ovvero sociale della vita anche quotidiana. Questo riconoscimento è notoriamente assente nei testi delle canzoni di Battisti, ma non in quelli del romano Baglioni, altro dominatore di classifiche sin dal 1973 e cantautore di culto (soprattutto per il pubblico femminile), che a fatica viene però riconosciuto come esponente della canzone d’autore successiva a Tenco.
In effetti, una corretta comprensione della storia della canzone d’autore non può prescindere da un fenomeno cui abbiamo solo accennato, il folk revival, ovvero la ripresa di elementi e motivi folclorici che in Italia ebbe come fonte di ispirazione e di guida da un lato la lezione di Gramsci, dall’altro la ricerca di matrici culturali autonome per il movimento operaio e in genere dei lavoratori, su cui erano concentrati negli anni Sessanta sia intellettuali militanti (come il citato Gianno Bosio) sia ricercatori (come Roberto Leydi o Diego Carpitella, quest’ultimo tra i pionieri della ricerca etnomusicologica in Italia). Se al Nord il folk revival aveva il suo centro di aggregazione nel Nuovo canzoniere italiano e nell’Istituto Ernesto de Martino a esso associato, al Sud poteva contare su un tessuto di pratiche ancora vivo, spesso legato a una tradizione, quella dei cantastorie (e dei cuntastorie, letteralmente raccontatori di storie, figure tipicamente siciliane), che in alcune aree del Paese aveva ancora presa e ragion d’essere: è il caso della palermitana Rosa Balistreri, del calabrese Otello Profazio, e del già citato foggiano Matteo Salvatore, autori e interpreti di riconosciuto valore culturale, cui non sono mancati anche inattesi successi di pubblico e vendita, complice sicuramente anche l’attenzione che dedicava al fenomeno la televisione pubblica. La Balistreri parteciperò infatti a “Canzonissima”, dopo peraltro un’espulsione da Sanremo che molti vollero leggere anche come un rifiuto politico; Profazio, già noto per passaggi televisivi insieme a Gaber e altri cantautori negli anni Sessanta, stimato e anzi promosso da Villa che gli procurò il contatto discografico con la Fonit-Cetra, giunse a conquistare inaspettatamente nel 1974 il Disco d’oro, riconoscimento dell’industria discografica per gli autori di dischi che raggiungono il milione di copie vendute, evento mai più accaduto per un disco di genere folk almeno in Italia.
Il quadro che abbiamo a grandi linee tratteggiato è sufficiente per tracciare lo sfondo storico e il contesto anche socioculturale su cui provare a leggere la ricomparsa, proprio negli anni della crisi del movimento operaio e di ripiegamento delle forze della sinistra progressista, di modelli folclorici, tanto musicali che linguistici, sia nella produzione discografica su larga scala sia nella produzione indipendente che si diffonde negli spazi (i cosiddetti centri sociali) dove la protesta e la mobilitazione ancora sopravvivono (C. Branzaglia, P. Pacoda, A. Solaro, Posse italiane. Centri sociali, underground musicale e cultura giovanile degli anni ’90 in Italia, 1992). È quando ‘muore’ come progetto insieme politico e filologico, come oggetto di studio-ricerca e però anche mezzo di militanza, che il repertorio folclorico può venire fatto proprio da chi non ha ambizioni di studio e trova pure stretti i panni dell’operatore politico (A. Scholz, Neo-standard e variazione diafasica nella canzone italiana degli anni Novanta, 1998; L. Ferrari, Folk geneticamente modificato, 2003).
A inaugurare la reintegrazione di elementi dialettali e di musiche tradizionali nel mainstream discografico (in quello che ormai, dopo vent’anni, è divenuto tale) è non a caso un’opera – tecnicamente un concept album, cioè una raccolta di canzoni intorno a un’idea, un tema – di uno dei protagonisti della ‘rivoluzione conservatrice’ dei cantautori negli anni Sessanta, De André, che con “Creuza de mä” (1984) non solo recupera sonorità mediterranee, ma letteralmente inventa una lingua combinando fonti disomogenee, dall’antico genovese all’arabo. L’album, che nasce dalla stretta collaborazione del cantautore genovese con il musicista di progressive rock, poi cantautore e produttore discografico, Mauro Pagani (ex Premiata forneria Marconi, ovvero la banda rock che nel 1979 aveva accompagnato e musicalmente supportato De André in una fortunata turné in cui forse per la prima volta rock e canzone d’autore si erano dati la mano) fa incetta di premi e conquista una onorevolissima posizione anche nella hit parade, a dispetto della novità della proposta musicale e della sostanziale incomprensibilità dei testi. Torna così alla ribalta quella lingua regionale, vernacolare, dialettale che tanto aveva contribuito alla formazione della canzone italiana attraverso l’apporto delle canzoni regionali che a questa preesistevano – dalla napoletana alla romana sino alla milanese e alla piemontese – per finire però completamente emarginata e relegata tra i residui del passato nella fase di più spinta modernizzazione culturale ed economica del Paese (gli anni Sessanta).
Dopo De Andrè altri seguiranno, anche con differenti motivazioni e nel quadro di diversi progetti intellettuali – tra questi, ricordiamo qui almeno De Gregori e Marini che con l’album Il fischio del vapore (2002) ripropongono canti sociali e politici del movimento operaio e della Resistenza ma anche brani di nuova composizione che ricalcano lo stile della musica folk sia nei testi sia nelle musiche. In effetti, la coppia De André-Pagani aveva precorso, seppur di poco, i tempi: a livello internazionale la seconda metà degli anni Ottanta decreterà la nascita di una nuova categoria insieme culturale e merceologica, la world music, la ‘musica del mondo’, o meglio le musiche di un mondo che si sta globalizzando e che nella globalizzazione ha trovato una delle sue chiavi di autointerpretazione. I musicisti e autori del Mezzogiorno in particolare troveranno sintonie imprevedibili con la produzione artistica di altre aree e popolazioni marginali del mondo – siano essi gli afroamericani di New York con il nuovo linguaggio rap (evoluzione appunto afroamericana di remote tradizioni africane) o i giamaicani seguaci del culto Rasta (e cultori oltre che inventori di quel ritmo che è anche un genere chiamato reggae) o gli indiani e pakistani di Londra e di altre città industriali inglesi. Si compie in questi anni un doppio movimento: artisti, spesso gruppi, che sino a poco prima cantavano in lingua inglese (vuoi per imitazione vuoi per speranza in un più facile e diretto accesso al mercato internazionale) decidono di smettere con gli scimmiottamenti e accolgono la sfida di trovare forme di integrazione tra la propria cultura e gli stilemi (blues, country & western, ecc.) del genere: le tradizioni linguistiche regionali, i dialetti, si offrono come efficaci soluzioni al problema della lingua dei testi. Tanto più efficaci e credibili, inoltre, quando la scelta del dialetto si combina con una progettualità e un impegno politico a difesa delle minoranze (e i dialetti sono per definizione minoritari, se non per ragioni demografiche almeno per ragioni politiche) e a favore di un’alleanza, giocata anche solo sul piano simbolico, con i marginali di altre parti del globo.
Un caso esemplare è quello del gruppo di raggamuffin, ovvero rap più reggae (cfr. Plastino 1996), dei Sud sound system – gruppo formato da giovani salentini che si incontrano a Bologna negli anni dell’università, nel corso del primo importante movimento di protesta studentesco dopo il riflusso degli Ottanta, la Pantera. E a Bologna i Sud sound system si formano e da qui iniziano però una carriera, insieme artistica e sociale, che li riporterà per scelta nel Salento, per contribuire al rilancio di quelle stesse tradizioni musicali e canore che negli anni Cinquanta studiosi come Alan Lomax, Carpitella e de Martino stavano cercando di penetrare e insieme di salvaguardare. E in questa riscoperta delle radici sarà la scelta del dialetto – che era poi anche questa una riscoperta – a qualificare il loro percorso anche musicale sviluppando una tradizione testuale nuova ed autonoma «che non può essere considerata come mera imitazione passiva e acritica del modello americano» (A. Scholz, Un caso di prestito a livello di genere testuale: il rap in Italia, in Poesia cantata 2. Die italienischen Cantautori zwischen Engagement und Kommerz, a cura di F. Baasner, 2002, p. 245).
I segnali che di un recupero non effimero si trattasse si ebbero sin dal 1984 con l’introduzione da parte del Club Tenco di uno specifico riconoscimento al miglior album in dialetto, così sancendo l’accettazione della canzone dialettale nel campo della canzone d’autore ovvero ‘di qualità’. In fondo, si trattava di un passo relativamente corto per chi aveva già imparato ad apprezzare e a conoscere, oltre che divulgare, la canzone ‘di qualità’ ovunque questa si producesse, dal Brasile dei musicisti e poeti che in Italia avevano trovato asilo politico nei primi anni Settanta portando qui i loro caratteristici impulsi al sincretismo culturale (Chico Buarque, Vinicius De Moares) alla Catalogna dei cantautori che sin dagli anni Sessanta reclamavano l’autonomia culturale e linguistica della loro terra dal centralismo del regime franchista. Senza contare che lo stesso Tenco aveva espresso in più occasioni nella sua pur breve carriera l’aspirazione a ricercare nelle radici folcloriche le risorse su cui costruire una canzone autenticamente italiana (cfr. Santoro 2010).
Sarebbe certamente riduttivo voler ricondurre comunque la canzone d’autore – e in questo ambito quella dialettale – al solo mondo del Club Tenco, per quanto questo abbia una posizione centrale, grazie anche a una presenza e un’attività sul campo capillare e ormai quarantennale, che si è espressa nel tempo oltre che con spettacoli e premi anche con convegni, mostre, lezioni, presentazioni e pubblicazioni. A dimostrazione della continuità dell’impegno preso nei primi anni Settanta, il Club ha dato vita insieme al Meeting delle etichette indipendenti (MEI) di Faenza, ovvero alla principale manifestazione italiana per la musica indipendente, a La leva cantautorale degli anni zero, progetto di valorizzazione della nuova canzone d’autore italiana, che comprende concerti live e un album pubblicato nel 2010. Il successo del progetto del resto si misura anche con la sua diffusione, con la sua capacità di generare nuovi spazi, di moltiplicare le istanze di riconoscimento, di promuovere discussione. Non c’è dubbio che l’iniziativa sia riuscita, e questo già nel corso del primo decennio, a creare movimento – un movimento che è forse più intellettuale che musicale, ma che ciò nonostante ha segnato e tuttora segna in modo decisivo l’esperienza che della canzone si fa in Italia, in alcune regioni più che in altre probabilmente, almeno a giudicare dalla provenienza dei personaggi più ricorrenti e alla distribuzione sul territorio delle agenzie e delle organizzazioni che alla canzone d’autore sono ancora oggi, anzi soprattutto oggi, dedicate, in prima battuta i premi e i festival: a Milano il Festival del teatro-canzone Giorgio Gaber, il Premio Fabrizio De André e il Premio L’artista che non c’era; a Chiavari, sempre in Liguria, il Premio Bindi; nel Pescarese il Premio Pigro, dedicato alla memoria del cantautore abruzzese Ivan Graziani; a Recanati Musicultura; a Carrara il Lunezia e – unico nel Mezzogiorno – ad Aversa, in provincia di Caserta, il Premio Bianca D’Aponte.
Sono queste manifestazioni spazi importanti di promozione e consacrazione, oltre che naturalmente di ascolto e contatto diretto con gli artisti (e di incontro e scambio anche tra artisti, si intende). Ma altri sono i luoghi in cui si esprime oggi la valenza culturale, simbolica, forse anche politica, della canzone d’autore: nei convegni che si organizzano in sedi universitarie sulla canzone ‘di qualità’; nei libri che si scrivono e si pubblicano anche per prestigiosi editori sui rapporti tra poesia e canzone, o tra canzone e lingua; nelle trasmissioni televisive che al suono e al ritmo delle canzoni di De André e di Conte segnalano la tenuta di una coscienza civile e rafforzano il senso di appartenenza di generazioni diverse a un’idea, e un ideale, di nazione.
Come ulteriore effetto del suicidio di Tenco è probabilmente da annoverare anche l’istituzione, nel tempio della musica leggera, di un premio alla migliore canzone secondo il giudizio della critica, ovvero dei giornalisti musicali accreditati presso il Festival di Sanremo. Istituito nel 1982, il premio venne conferito per la prima volta alla cantante di origini calabresi Mia Martini, che l’avrebbe vinto altre due volte (nel 1989 e 1990) e che, dopo la prematura morte, avrebbe dato il suo nome al premio stesso (oggi conosciuto infatti come Premio Mia Martini). A dimostrare la stretta connessione che questo premio – questa istanza di consacrazione – intrattiene con il mondo della canzone d’autore, è la lista delle canzoni vincitrici, che include sistematicamente pezzi di cantautori presentati dagli stessi autori (come Enrico Ruggeri, Simone Cristicchi, Paola Turci, Cristiano De Andrè, Daniele Silvestri, Samuele Bersani), o da interpreti legate per scelta estetica o biografia al mondo della canzone d’autore (come Patty Pravo, la stessa Mia Martini), o ancora da band che compongono abitualmente il proprio repertorio (Matia bazar, Elio e le storie tese, Afterhours). Non diversamente da quanto accade al Tenco, anche qui si consolidano reputazioni, si costruiscono e si conservano posizioni di status, si procede a consacrazioni.
In trent’anni, questo però è il dato più significativo, la canzone che ha conquistato il premio della critica ha coinciso con quella vincitrice del Festival in soli quattro casi: sintomo evidente, come hanno osservato Serena Facci e Paolo Soddu (2011, p. 252), della «esistenza di una frattura», quella cioè tra una base maggioritaria di italiani che premiano «trend ed esigenze» da un lato, e le «nicchie del gusto» dall’altro, che il premio ha ufficializzato; ma ciò – occorre dire – è anche effetto sociologicamente atteso della diseguale distribuzione sociale, tra il grande pubblico di un media event come appunto Sanremo, del ‘capitale culturale’, ossia, nei termini ancora di Bourdieu, il patrimonio di conoscenze e sensibilità attraverso cui la canzone, in quanto oggetto culturale ovvero forma simbolica e dunque significante, viene percepita, decodificata, interpretata, valutata e appunto ‘gustata’. Ciò che l’istituzione del Premio della critica ha ufficializzato non è in fondo che il riconoscimento della canzone come oggetto culturale sufficientemente complesso e articolato da essere suscettibile di letture, fruizioni e quindi appropriazioni diverse, inclusa quella del giudizio estetico. E non è un caso che sia questo giudizio a essere in palio anche nei tanti reality-show che dagli inizi del nuovo millennio hanno popolato il mondo della canzone italiana (da “Amici” a “X factor”, passando per “Music farm” e altri programmi simili), autentici eventi mediatici seriali che se da un lato rimandano, riprendendone la formula, ai tanti festival e alle tante gare per cantanti emergenti o ‘voci nuove’ di cui era ricolma l’Italia del secondo dopoguerra, dall’altro testimoniano la costituzione in fieri di un ‘canone’ di canzoni italiane (tipicamente ‘d’autore’) intorno al quale si costruiscono reputazioni e carriere – con immancabile consacrazione sanremese, meno determinante di un tempo ma comunque ancora importante – e con cui si educa, si coltiva, si affina e si articola il gusto e il ‘capitale musicale’ tanto dei concorrenti che del (vastissimo) pubblico televisivo.
Attraverso la vicenda della canzone d’autore emerge chiaramente qualcosa che in effetti spesso si dimentica o si sottovaluta: la storia del movimento per la valorizzazione di quel genere eminentemente popolare e ‘di massa’ che è la canzone costituisce un tassello, e non dei minori, della storia della classe media nel nostro Paese, e in particolare delle sue frazioni più intellettualizzate e a elevata scolarizzazione, alla ricerca di titoli di ‘nobiltà culturale’ per un genere culturale anch’esso tipicamente medio, middlebrow direbbero gli americani, di cui appropriarsi e in cui riconoscersi.
La canzone continua probabilmente a essere ancora un oggetto – e un campo di produzione – culturale meno legittimato e meno consacrato di altri da tempo entrati nel canone e nella cultura ufficiale, ed è per questo ancora al centro di polemiche circa il suo reale valore (artistico ma anche civile, etico) e la sua dignità: polemiche che si traducono per es. nelle difficoltà che ancora esistono a inserire la canzone, anche quella ‘di qualità’, nei programmi universitari, e a farla accettare dalla musicologia e dalla critica letteraria più disciplinata, cioè meno disposta alle interferenze e più sensibile al peso del canone; è indubbio tuttavia che il suo ruolo e il suo statuto anche intellettuale siano enormemente aumentati nel giro degli ultimi venti anni. Se oggi è possibile depositare l’archivio di un cantautore presso una sede universitaria (quello di De André è all’Università di Siena), se è possibile istituire fondazioni culturali nel nome di cantautori, se è possibile pubblicare libri sulla canzone (d’autore ma non necessariamente) non solo per editori che si rivolgono specificamente al pubblico giovanile ma anche per editori generali e di prestigio, se è possibile trovare voci sulla canzone in repertori autorevoli della cultura più legittima e testi di canzoni nei libri di testo scolastici, se è comunque possibile anche all’università dedicare corsi monografici a cantautori o alla canzone d’autore o alla canzone tout court – siano essi corsi in ambito letterario, storiografico, musicologico o sociologico –, se il cantautore stesso può diventare docente universitario (Vecchioni), regista melodrammatico (Dalla) e compositore di balletti e opere (Franco Battiato), ciò è senz’altro perché la canzone (più spesso d’autore, ma non necessariamente) è ormai entrata stabilmente nel patrimonio culturale, nel capitale culturale, del nostro Paese.
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