canzone popolare e lingua
Va chiarito preliminarmente che in ambito musicale l’aggettivo popolare può avere almeno due significati. Nel primo, equivale all’inglese popular (o pop): la locuzione musica popolare (popular music) è dunque contrapposta a musica colta o classica. Nel secondo, equivale all’inglese folk (folk music, folk song) e vale «etnico» o «delle classi subalterne». In quest’ultimo significato, per canzone popolare si intende la produzione di un determinato popolo (per es., le canzoni popolari sarde) o di una determinata classe sociale e, di solito, in una determinata epoca. In questa voce si intende canzone popolare nella prima accezione, annoverando nel genere tutta la produzione vocale cosiddetta commerciale o leggera, dal rock, al rap, alla canzone d’autore.
È sempre più difficile distinguere, oggi, l’italiano della grande canzone d’autore da quello della poesia, per via dei contorni assai sfumati della seconda e del crescente valore sociale assegnato alla prima. Molti sono, del resto, i poeti che hanno scritto per cantanti: Pasquale Panella con Lucio Battisti, Roberto Roversi con Lucio Dalla, Manlio Sgalambro con Franco Battiato, Alda Merini con Milva. Numerosi sono anche i poeti del passato messi in musica dai moderni cantautori: Edgar Lee Masters da Fabrizio De André (Non al denaro non alla terra né al cielo, 1971) e Yeats da Angelo Branduardi (Branduardi canta Yeats, 1986).
Nel ripercorrere sinteticamente la storia dei rapporti tra lingua e canzone in Italia, va riconosciuto un ruolo fondamentale al principale Festival della canzone italiana, quello di Sanremo, dal 1951. La canzone sanremese continua a rappresentare, infatti, il termine di paragone per saggiare temi, stilemi, lessico e strutture linguistiche più in linea con la tradizione (Arcangeli 1999) e, sull’opposto versante, le soluzioni alternative (di solito) della canzone d’autore, di quella d’impegno sociopolitico e di quella sperimentale. Tipici della tradizione sanremese sono i versi semplici e cantabili, perlopiù tronchi (anche al plurale, contro le norme morfologiche odierne: «un delicato mazzolin di fior», “Sotto l’ombrello”, 1954, di Casiroli) e ricchi di monosillabi talora usati a mo’ di zeppa («Volare ... oh, oh! / cantare ... oh, oh, oh, oh!», “Nel blu dipinto di blu”, 1958, di Modugno-Migliacci), le rime baciate o alternate ed estremamente prevedibili (cuor / amor), la riduzione lessicale (con parole che gravitano soprattutto intorno alla sfera amorosa), morfologica (perlopiù le prime due persone singolari e plurali) e sintattica (periodi in genere d’un’unica proposizione e ricchi di ripetizioni).
Non mancano, beninteso, le eccezioni, soprattutto tra i brani ai livelli più bassi della classifica. Spicca il ruolo di Domenico Modugno, che fa da spartiacque tra la fase antica e quella moderna della canzone italiana: “Nel blu dipinto di blu” segna infatti alla fine degli anni Cinquanta il passaggio dal sogno d’amore sommesso e lirico all’espressione dell’amore a voce spiegata, a metà strada fra tradizione melodica italiana e nuovi ritmi americani, con lessico e sintassi nel contempo concreti e sfuggenti, tra realismo e surrealismo, tra poesia e libera affermazione della sessualità, dal momento che il volo è chiara metafora del coito (Borgna 1985: 142).
Fatte le dovute differenze, per es. per quanto riguarda lo scarso uso, nella canzone, di arcaismi e di termini difficilmente comprensibili, la canzone prima di Modugno presenta più di un tratto in comune con il linguaggio operistico, con il quale condivide la stereotipia e certo antirealismo, e con quello dei romanzi d’appendice, della stampa periodica rosa e del cinema pre-neorealistico (straordinario veicolo di canzoni d’amore, a partire dal primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore, 1930, di Gennaro Righelli, con il celebre brano di Bixio e Cherubini: “Solo per te, Lucia”), ovvero con i testi di consumo tra Ottocento e prima metà del Novecento. È noto, infatti, come il livello culturale medio dei destinatari di un prodotto di massa sia (o forse, più giustamente, fosse) inversamente proporzionale rispetto al livello di formalità (scolastica) dello stile impiegato in quel prodotto, perlopiù refrattario all’innovazione, alla designazione piana e colloquiale, al regionalismo e al plurilinguismo.
Del primo periodo della canzone italiana si segnalano almeno le frequenti apocopi, l’insistito uso di metafore (➔ metafora), spesso fantasiose, e di riferimenti esotici
Bei fiori carnosi
son le donne dell’Avana
hanno il sangue torrido
come l’Equator.
Fiori voluttuosi
come coca boliviana
chi di lor s’inebria
ci ripete,
ognor
va cantando:
“Creola ... creola ...”
(“Creola”, 1925, di Ripp)
le strutture speculari tra due membri sintattici imperniati l’uno sul pronome io o mio, l’altro su tu o tuo («Tu con me... / Io con te ...», “Tu con me”, 1960, di Ballotta-Amurri), le inversioni sintattiche: «tutta sfolgorante è la vetrina», «entra con la mamma la bambina», «pieni di pianto ha gli occhi» (“Balocchi e profumi”, 1929, di Mario; Borgna & Serianni 1994: 6).
In un genere vocale basato sul facile ascolto, è ovvia, a tutte le altezze cronologiche, la spiccata presenza di giochi fonici, dalle assonanze alle allitterazioni. Alcuni di questi fenomeni avranno tenuta duratura nella storia della canzone, anche in luoghi apparentemente insospettabili come gli innovatori testi di Mogol per Battisti, pieni di inversioni: «Molto se vuoi tutto non puoi» (“Donna selvaggia donna”, 1978: Telve 2008: 7).
Ogni generalizzazione è però rischiosa, in quest’ambito, data l’origine assai composita della canzone italiana, che intrattiene debiti di lingua e di stile almeno con le tradizioni regionali (soprattutto napoletana, romana e milanese), con il melodramma romantico (almeno Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti), con le romanze da salotto, con l’operetta, con i canti patriottici e politici, con i numeri del caffè concerto e del varietà e altro ancora (Borgna 1985: 3-37).
Già dai primi anni Trenta prendono vita modi espressivi decisamente più dimessi, liberi dai retaggi stilistici del melodramma (ma non da quelli tematici, sempre rotanti attorno al perno dell’amore), che proseguono, con il solito notevole ritardo delle forme popolari, le istanze di svecchiamento inaugurate da ➔ Giovanni Pascoli, Vittorio Betteloni e i Crepuscolari:
Fiorin fiorello
l’amore è bello
vicino a te!
Mi fa sognare,
mi fa tremare,
chissà perché ...
(“Fiorin fiorello”, di Mascheroni e Mendes, 1933)
Il lessico è ad altissima disponibilità, la sintassi è ridotta al minimo e quasi solo coordinativa, tutto deve essere agevolmente memorizzabile, cantabile, prevedibile, rassicurante nel riconoscimento delle attese.
Rispetto a quelli lirico-amoroso e politico, i coevi filoni comico-realistico, nonsense ed espressionistico-cabarettistico presentano maggiore originalità, soprattutto nei terreni onomatopeico e neologistico:
Nel Parapapà
nell’anno tre
regnava il vecchio marajà Perepepè.
Egli tien per cortigiane
tutte le parapagiane,
quindi l’uomo lì non può
fare mai il poropopò!
(“Nel Parapapà”, 1931, di De Angelis)
Dopo le innovazioni musicali e linguistiche apportate alla canzone italiana da Modugno, dagli urlatori (da Mina ad Adriano Celentano), da Fred Buscaglione e da altri, un’ulteriore tappa fondamentale è segnata dal successo dei cantautori (la prima attestazione del sostantivo è del 1960; Borgna 1985: 163), perlopiù genovesi (Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Bruno Lauzi, De André, Sergio Endrigo: Jachia 1998: 36-105), che, in contrapposizione con l’esibita noncuranza formale dei testi urlati, ne rivitalizzano lo stile, talora sotto l’influenza di esempi stranieri (dal jazz alla canzone francese), mediante uno svecchiamento delle metafore, una nuova attenzione alla quotidianità e alla sfera intimistica e un impiego critico e talora ironico della tradizione letteraria: «si sentono echi di Gozzano e Montale, di Saba e Pavese, di Caproni e di Sbarbaro. O del surrealismo francese» (Borgna 1985: 167). Tra gli ultimi esponenti della scuola genovese è Paolo Conte, dalla «parola rara e specialissima [...], estratta dagli ambiti più disparati, riesumata da un vocabolario andato, goffamente rediviva e ironizzata, tra il tecnicismo e il forestierismo a volte volutamente opaco» (Borgna & Serianni 1994: 161), come in “Hemingway”, 1996:
Oltre le illusioni di Timbuctù
e le gambe lunghe di Babalù
c’era questa strada ...
Questa strada zitta che vola via
come una farfalla, una nostalgia,
nostalgia al gusto di curaçao ...
Tra tutti, è De André il più ricco di riferimenti culturali, dalla chanson de geste (“Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, 1968, scritta con Paolo Villaggio), a Cecco Angiolieri (di cui musica “S’i fossi foco”, 1969), ai Vangeli apocrifi (l’album La buona novella, 1970), inseriti in cadenze ironicamente canzonettistiche. Anche se l’amore, la solitudine e l’incomunicabilità sono i temi dominanti, non mancano aperture politico-sociali, sempre antiretoriche:
Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le “pantere”
ci mordevano il sedere
lasciandoci in buonafede
massacrare sui marciapiedi
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c’eravate
(“Canzone del maggio”, 1973, di De André)
Senza questi primi esempi di cantautori, cui andrebbero aggiunti molti tasselli, dai milanesi Giorgio Gaber e Enzo Jannacci alle precedenti esperienze di famosi intellettuali accostatisi al mondo della canzone (Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Alberto Arbasino, Italo Calvino, Franco Fortini, questi ultimi coinvolti nell’esperienza nota come Cantacronache, dal 1957, poi confluita nel milanese Nuovo canzoniere italiano), non si capirebbe la strada percorsa dalla canzone italiana fino ad oggi, da Battisti a Dalla, da Francesco Guccini a Battiato.
Proseguendo il percorso linguistico, si rileva un rinnovato gusto (dopo i fasti cabarettistici) per il nonsense, la profluvie di figure retoriche e il gioco di parole che tocca vette di originalità e di autonomia del significante con il sodalizio tra Panella e Battisti:
Uno andò saldato uno vive all’estro
uno s’è spaesato uno ha messo plancia e
fa il transaitante uno fa le more
uno sta invecchiando perché è un nobile scotch
Uno fa calzoni dai risvolti umani
Uno ha un solo naso uno ha mani e polsi
Uno è su due piedi uno è calvo a onde
uno si nasconde poi non sa in che vano sta
(“Equivoci amici”, 1986)
Ben più in linea con la tradizione poetica italiana, sebbene sempre dai toni colloquiali, erano i testi scritti, sempre per Battisti, da Mogol:
I giardini di marzo si vestono di nuovi colori
e le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori
camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti “tu muori
se mi aiuti son certa che io ne verrò fuori”
ma non una parola chiarì i miei pensieri
continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri
(“I giardini di marzo”, 1972, di Mogol)
sebbene la versificazione si mostrasse già originale, con metri sempre meno regolari (e comunque la nostra canzone ha presto imboccato la strada dell’estrema varietà metrica), aperti anche a versi dalla lunghezza e dall’accentazione atipiche:
Ma quante braccia ti hanno stretto tu lo sai
per diventar quel che sei.
Che importa tanto tu
non me lo dirai
purtroppo
(“La canzone del sole”, 1971, di Mogol)
Altro elemento rilevante è il plurilinguismo e la preziosità lessicale dei testi di Battiato, che ospitano il latino e il greco come le lingue orientali (è nota la passione del cantautore per le filosofie orientali, che ha dato vita anche all’opera lirica Gilgamesh, 1992), l’inglese e il francese, come in:
Up patriots to arms, Engagez-Vous
la musica contemporanea, mi butta giù.
L’ayatollah Khomeini per molti è santità
abbocchi sempre all’amo
le barricate in piazza le fai per conto della borghesia
che crea falsi miti di progresso
(“Up patriots to arms”, 1980, di Battiato)
il tedesco (“L’oceano di silenzio”, 1988), il siciliano (“Stranizza d’amuri”, 1979 e “Veni l’autunnu”, 1988) e altre lingue ancora, testi intrisi spesso di riferimenti dotti in versi facilmente cantabili:
Mi piacciono le scelte radicali
la morte consapevole che si autoimpose Socrate
e la scomparsa misteriosa e unica di Majorana
la vita cinica ed interessante di Landolfi
opposto ma vicino a un monaco birmano
o la misantropia celeste in Benedetti Michelangeli
(“Mesopotamia”, 2003, di Battiato)
Assolutamente sperimentali e vicini al futurismo i versi del primo Battiato:
L’esotomia, l’IBM-azione
de-cloro de-fenilchetone,
essedi-etilizzazione
han dato vita
alla programmazione.
x = a (sen ωt) x2 = a (sen ωt + γ)
(“Fenomenologia”, 1971)
Parallelamente ad altre forme di comunicazione, va poi ricordato, almeno a partire dagli anni Ottanta, il progressivo aumento delle lingue straniere (dell’inglese prima, dello spagnolo poi: “Vamos a la playa”, 1983, dei Righeira), dei dialetti e del turpiloquio nei testi delle canzoni italiane, con significative anticipazioni, per quest’ultimo, nella canzone politica degli anni Settanta:
Colleghi cantautori eletta schiera
che si vende alla sera per un po’ di milioni
voi che siete capaci fate bene
ad aver le tasche piene e non solo i coglioni [...]
Mi piace far canzoni e bere vino,
mi piace far casino, poi sono nato fesso
e quindi tiro avanti e non mi svesto
dei panni che son solito portare.
Ho tante cose ancor da raccontare
per chi vuole ascoltare
e a culo tutto il resto
(“L’avvelenata”, 1976, di Guccini)
Tipici della lingua rock, oltre al frequente ricorso all’inglese e ai registri più informali, fino al triviale, sono i riferimenti al sesso, all’alcol e alla droga, spesso con l’usurata metafora del viaggio, e il continuo ammiccamento al cinema, alla televisione e alla pubblicità, tutti fenomeni ben presenti nei massimi rocker italiani, da Vasco Rossi, a Ligabue, a Gianna Nannini (Accademia degli Scrausi 1996: 191-237). Amante degli eccessi, il rock spazia da un estremo grado di banalizzazione linguistica e di ripetitività:
Voglio trovare un senso a questa sera
anche se questa sera un senso non ce l’ha
Voglio trovare un senso a questa vita
anche se questa vita un senso non ce l’ha
Voglio trovare un senso a questa storia
anche se questa storia un senso non ce l’ha
Voglio trovare un senso a questa voglia
anche se questa voglia un senso non ce l’ha
(“Un senso”, 2004, di Vasco Rossi),
a eccessi di complessità:
Adamo nobile, Carmine equivoco,
Rocco Crocco e la banda Spessotto,
imboscati in fondo alla stiva,
negli ultimi banchi della fila, abbagliati dalla balena, nella pancia della falena,
clandestini sopra alla schiena,
gettati al mare delle anime in pena,
evasi dal compito, evasi dall’ordine,
imbrandati sotto a un trastino,
a giocarcela a nascondino di soppiatto allo sguardo divino
(“Dalla parte di Spessotto”, 2006, di Vinicio Capossela)
Complessità che non è solo del rock degli ultimi anni (Antonelli 2005) e che spesso coinvolge anche la sintassi, infrangendo la nota abitudine alla paratassi della canzone in stile sanremese:
Mi ritrovo a pensare per caso
a quello che un tempo credevo sarei diventato
alla luce di un cerchio che forse speravo
mi avrebbe scoperto trafitto e scaldato
e malgrado i discorsi divisi con te
se allora avrei immaginato davvero che fosse così
e per quanto mi ritenga contento
di avere previsto e voluto il mio risultato
il colore delle mie medaglie non è mai intonato
con quello del mio vestito
(“Il mio stato”, 2000, di Niccolò Fabi)
Non mancano, già da anni, oculate infrazioni alla norma grammaticale, da «Ancora una volta ho rimasto solo [...]. Ancora una volta m’hai rimasto solo» (“Ho rimasto”, 1965, di Don Backy) a «Sono un ragazzo fortunato perché m’hanno regalato un sogno / sono fortunato perché non c’è niente che ho bisogno» (“Ragazzo fortunato”, 1995, di Jovanotti).
Quanto ai dialetti, se è vero che a farla da padrone è sempre il napoletano (ringiovanito da Pino Daniele) e che comunque il nocciolo duro della produzione discografica rimane l’italiano standard, non vanno trascurati interessanti escursioni in altre aree, come il genovese dell’album Crêuza de mä, 1984, di De André e, dello stesso, l’album Nuvole, 1990, in genovese, sardo, napoletano e tedesco. Tali esperimenti (peraltro sempre più numerosi) sono in linea con la rivitalizzazione dei dialetti da parte delle giovani generazioni e sono incoraggiati, soprattutto nell’ultimo decennio, dal successo crescente della musica hip-hop (rap, reggae, ecc.: Accademia degli Scrausi 1996: 285-369; Cartago 2003: 210-213):
Accanto ad una canzone dialettale che recupera, aggiornandola, la tradizione popolare della folk song, e accanto ad una canzone dialettale “d’autore” come risposta al logoramento della canzone in lingua, si affacci[a] prepotentemente il dialetto delle posse, nate e sviluppatesi un po’ in tutta Italia. Qui il dialetto, spesso reimparato dalle generazioni precedenti, con un fenomeno di interessante cortocircuito, si è per così dire gergalizzato, esprimendo i caratteri di una condizione giovanile marginale, protestataria e di opposizione (di tutt’altro segno rispetto a quello delle leghe, che infatti vengono attaccate da più di un rapper nostrano (Coveri 1996: 20-21)
I generi appena citati hanno anche il merito di aver riportato l’attenzione della canzone a temi politici e sociali, senza per questo rinunciare alla facile cantabilità.
Sembra sempre più difficile, oggi, individuare tendenze generali, nella lingua della canzone così come negli altri mezzi di comunicazione di massa. La cifra distintiva sembra essere, semmai, proprio l’estrema varietà e commistione dei generi, il riuso dei materiali dalle fonti più disparate (tratto tipico della postmodernità a tutti i livelli) e il continuo interscambio tra mezzi diversi. Basti pensare già soltanto ai Festival di Sanremo dell’ultimo decennio (e dunque ben maggiore sarà la varietà, in sedi meno commerciali e ossequiose alla tradizione), per rendersene conto; sono popolati da canzoni dalle tinte regionali (Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio) e in italiano paludato (come quelle cantate da Laura Pausini, Giorgia, Elisa, Michele Zarrillo e tanti altri), da rap d’impegno politico (Jovanotti) e da testi sperimentali (Blu vertigo, Elio e le storie tese), da nonsense con aperture al turpiloquio come in
Mi sono innamorato di una stronza
ci vuole una pazienza
io però ne son rimasto senza
era molto meglio pure una credenza
un fritto di paranza ... paranza ... paranza
(“La paranza”, 2007, di Daniele Silvestri)
dai versi anticonvenzionali, prosastici ma dal lessico assai ricercato, e decisamente poco cantabili di Carmen Consoli
puntualmente mi dimostravo inflessibile
inaccessibile e fiera
intimamente agguerrita
temendo una sciocca rivalità
(“In bianco e nero”, 2000)
dallo stile più pretto della canzonetta memorizzabile e disimpegnata:
Laura non c’è
è andata via
Laura non è più cosa mia
e te che sei qua
e mi chiedi perché
l’amo se niente più mi dà
(“Laura non c’è”, 1996, di Nek)
dalla mescidanza tra stile lirico e impegno civile (Simone Cristicchi). L’ultimo autore citato ben esibisce anche l’impossibilità di isolare le canzoni dai contesti sociali e mediatici che le circondano, tant’è vero che la canzone vincitrice di Cristicchi a Sanremo (“Ti regalerò una rosa”, 2007) faceva parte di un progetto di ricerca sui centri di igiene mentale italiani che ha dato vita anche a spettacoli, un libro e un documentario.
Totalmente diverso, rispetto agli anni Sessanta, è anche il mercato discografico. Le canzoni vengono oggi ascoltate soprattutto mediante Internet; il cinema e la televisione (con l’eccezione del Festival di Sanremo, sempre ai vertici degli ascolti), a differenza della radio, sono ormai meno determinanti nell’influenzare i gusti dei giovani consumatori, tant’è vero che è del tutto estinto il fenomeno dei cosiddetti musicarelli, vale a dire i film musicali confezionati su misura di un interprete vocale, da Mina a Celentano, da Gianni Morandi a Rita Pavone, e anche quello dei varietà televisivi condotti da cantanti (Mina in testa).
Il riflesso linguistico di questa sostanziale perdita di consenso consiste nella minore influenza della lingua cantata sull’italiano scritto, parlato e trasmesso e nella minore riconoscibilità di uno stile da canzonetta, tuttora, comunque, preso a modello di operazioni tra l’autoreferenziale e l’autoironico: «dammi tre parole: sole, cuore e amore» (“Tre parole”, 2001, di Valeria Rossi). Per dimostrare la minore influenza linguistica della canzone di oggi rispetto a quella di ieri (dai linguisti ormai riconosciuta tra gli elementi dell’unificazione linguistica italiana), e rispetto all’influenza del cinema (specialmente quello americano doppiato, evidente nell’abuso di calchi dall’inglese nell’italiano odierno) e soprattutto dei reality show, basta commisurare lo spazio concesso ai cantanti a quello degli interpreti dei reality nei rotocalchi a stampa e televisivi e lo scarso riuso di espressioni tratte da canzoni nei titoli dei quotidiani, che invece ridondano di ammiccamenti al piccolo e al grande schermo.
Accademia degli Scrausi (1996), Versi rock. La lingua della canzone italiana negli anni ’80 e ’90, introduzione di S. Veronesi, Milano, Rizzoli.
Antonelli, Giuseppe (2005), Il complesso pop. Su una tendenza recente dei testi di canzone, in Storia della lingua italiana e storia della musica. Italiano e musica nel melodramma e nella canzone. Atti del IV convegno ASLI, Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Sanremo, 29-30 aprile 2004), a cura di E. Tonani, Firenze, Cesati, pp. 219-232.
Arcangeli, Massimo (1999), Va’ dove ti porta Sanremo: la tomba della lingua. Uso e riuso espressivo nelle canzoni delle rassegne sanremesi delle edizioni 1996-98, «Lingua nostra» 60, pp. 91-124.
Borgna, Gianni (1985), Storia della canzone italiana, Roma-Bari, Laterza.
Borgna, Gianni & Serianni, Luca (a cura di) (1994), La lingua cantata. L’italiano nella canzone dagli anni Trenta ad oggi, Roma, Garamond.
Cartago, Gabriella (2003), La lingua della canzone, in La lingua italiana e i mass media, a cura di I. Bonomi, A. Masini & S. Morgana, Roma, Carocci, pp. 199-221.
Coveri, Lorenzo (1996), Per una storia linguistica della canzone italiana, in Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura di L. Coveri, Novara, Interlinea, pp. 13-24.
Jachia, Paolo (1998), La canzone d’autore italiana 1958-1997. Avventure della parola cantata, Milano, Feltrinelli.
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