canzone
La canzone, o canzone antica, detta in antico anche canzone distesa (per distinguerla dalla canzone a ballo o ➔ ballata), è la forma metrica più prestigiosa e complessa della tradizione lirica italiana (Beltrami 20024: 132-140; 245-274). Deriva il suo modello dalla canso provenzale: dell’originaria correlazione con una melodia, propria del modello trobadorico ed esplicitamente evocata da ➔ Dante nel De vulgari eloquentia (per es. in I, iv, 4 , 8, 9 e 10), si persero relativamente presto le tracce, anche se ancora in Purg. II, 106-114 il musico Casella intona la dantesca Amor che ne la mente mi ragiona.
La canzone antica ha un numero variabile di strofe o stanze (provenzale coblas). Come le coblas, le stanze sono identiche per formula sillabica (➔ versificazione) e schema rimico, ma, in aggiunta, prevedono modi più o meno complessi di articolazione interna. I versi, di varia misura nell’uso antico (di tutti settenari è ad es. la canzone di Giacomo da Lentini Meravigliosamente, alla quale l’autore si rivolge con l’appellativo di «canzonetta»), sono solo endecasillabi (➔ endecasillabo) e settenari (➔ settenario) a partire da ➔ Petrarca, che rende canonica la forma (si parla perciò anche di canzone petrarchesca: Zenari 1999). Le stanze sono di norma divisibili. La divisione più frequente – e la sola in Petrarca: la definizione di canzone petrarchesca si riferisce pertanto propriamente a questo schema – contempla due sezioni: la prima delle quali divisa a sua volta in due piedi (la presenza di tre piedi è del tutto eccezionale), identici per formula sillabica (equivalgono alle mutazioni, o piedi appunto, della stanza di ballata) e di estensione variabile (da 3 a 6 versi per piede in Dante, da 2 a 4 in Petrarca, da 2 a 5 nel Trecento); la seconda, detta sirma o sirima (o anche coda), indivisibile e a schema autonomo e libero di versi e di rime (con preferenza per serie, variamente combinate, di distici a rima baciata o alternata, o per quartine a rima incrociata).
A partire da Dante, è frequente che il primo verso della sirma rimi con l’ultimo del secondo piede (concatenatio), ed è altrettanto frequente che le rime successive della sirma non riprendano rime presenti nei piedi. Per Dante è inoltre opportuno che gli ultimi due versi della sirma rimino tra di loro (combinatio). È possibile che, in luogo della sirma, siano presenti due volte, in mutua relazione al modo dei piedi: si tratta di un genere di divisione non praticato da Petrarca (canzone di piedi e volte è Madonna dir vo voglio di Giacomo da Lentini). Nel De vulgari eloquentia Dante prevede inoltre stanze formate da una prima sezione indivisa, o fronte, e da due volte, ma non si hanno attestazioni di tale schema. Per contro, Dante non ammette stanze di sola fronte e sirma: ma lo schema risulta non estraneo all’uso di rimatori trecenteschi (Pelosi 1990: 94) e posteriori. Lo schema rimico dei piedi è variabile, ma è necessario che i due piedi non contengano rime irrelate. Nella sirma la presenza di rime irrelate è sporadica nel Duecento e in Dante, mentre scompare in Petrarca (molto raramente, come nelle occitaniche rimas estrampas, tali rime si corrispondono nella stessa posizione in tutte le stanze). Le stanze indivise sono proprie della ➔ sestina (lirica) e di un numero ridotto di canzoni a stanze sulle stesse rime; le rime – a differenza dello schema rimico, che resta immutato – variano di norma da stanza a stanza, come nelle provenzali coblas singulars.
Spesso, ma non sempre, la canzone termina con un congedo o invio (nel quale il poeta si ‘congeda’ dal proprio componimento e/o lo ‘invia’ a uno o più destinatari). Di norma più breve della stanza, il congedo ripete in genere, come la tornada della canso, lo schema della sirma o della sua parte finale. È ammesso, anche da Petrarca, che la prima rima del congedo sia irrelata. Così concepito, il congedo, detto anche congedo toscano, si diffonde con Guittone d’Arezzo: in precedenza ne svolge la funzione (ma la sua presenza non è vincolante) l’ultima stanza della canzone, o congedo siciliano; in molti esempi trecenteschi (sul modello della dantesca Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete) la sirma riprende nello schema i piedi (per la morfologia del congedo trecentesco, cfr. Pelosi 1990: 119-122). La varietà, anche virtuosistica, degli schemi sperimentati (Gorni 2008), della quale è impossibile dar conto analiticamente, rispecchia l’alta considerazione di cui la forma metrica ha sempre goduto.
Tematicamente, la canzone tratta in prevalenza di argomento amoroso, ma si hanno canzoni politiche (la petrarchesca Italia mia, benché ’l parlar sia indarno) o religiose (la petrarchesca Vergine bella, che di sol vestita) o autobiografiche (tra queste, nel Trecento arride una certa fortuna al filone delle ‘disperate’).
La canzone-ode (Beltrami 20024: 351-353), o semplicemente ode, si diffonde a partire dal Cinquecento (è coltivata da Chiabrera, Marino, Testi), ed è caratterizzata dalla brevità dell’estensione delle stanze e dall’assenza di divisione: della canzone petrarchesca (dalla quale in ogni caso non sempre è, in astratto, distinguibile) rispetta l’alternanza di endecasillabi e settenari (ma le stanze possono essere omometriche: o di tutti endecasillabi o, raramente, di tutti settenari) e l’obbligo di identità di formula sillabica e schema rimico nelle stanze. Di fortuna limitata gode la canzone o ode pindarica (Beltrami 20024: 347-351), anche questa di origine cinquecentesca: prevede, sul modello classico, gruppi replicati di triadi di stanze (ciascuna triade si compone di strofe, antistrofe ed epodo, o anche, secondo la terminologia di Luigi Alamanni, di ballata, contraballata e stanza): i primi due elementi delle triadi si equivalgono per schema dei versi e delle rime, mentre il terzo innova; ciascun elemento può assumere la forma di stanza di canzone petrarchesca o rifarsi agli schemi della canzone-ode o dell’ode-canzonetta. L’ode-canzonetta (Beltrami 20024: 364-371), in auge a partire da Chiabrera e caratteristica della tradizione lirica sette-ottocentesca (esempi famosi in Savioli, Metastasio, Parini, ➔ Manzoni, ➔ Carducci), nel rispettare le regole dell’ode-canzone (con la quale può a volte confondersi), ammette, e anzi incoraggia, l’uso di versi brevi, anche tronchi e/o sdruccioli. Il diminutivo canzonetta allude alla complessiva cantabilità del metro: mentre altra cosa dall’ode-canzonetta è di per sé la canzonetta vera e propria, in genere musicata e spesso, anche se non solo, in forma di ballata, come la barzelletta. Nei versi sdruccioli le parole-rima possono non rimare (rime ritmiche). Dal secondo Cinquecento la canzone-ode e l’ode-canzonetta sostituiscono gradualmente la canzone antica (il cui schema è presente ancora, a ogni buon conto, nei poeti ‘archeologi’ Carducci e ➔ D’Annunzio).
Anche la canzone libera, al pari del discorso libero (madrigalesco), alterna endecasillabi e settenari, ma le sue stanze sono di estensione variabile, non hanno schema fisso e prevedono rime libere per numero e posizione (e spesso irrelate). Questa forma sui generis, già riconoscibile nelle canzoni a selva del secentista Alessandro Guidi, trova sviluppo e applicazione nella canzone leopardiana, forma di molti tra i Canti (“A Silvia”, “Il passero solitario” ecc., mentre conservano più evidenti legami con la canzone petrarchesca “Nelle nozze della sorella Paolina” e “A un vincitore nel pallone”).
La stanza di canzone, infine, o stanza isolata (equivalente della cobla esparsa provenzale), non ha fortuna nella tradizione italiana, anche perché il ruolo della cobla esparsa viene in essa assunto dal ➔ sonetto.
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino (1a ed. 1991).
Gorni, Guglielmo (2008), Repertorio metrico della canzone italiana dalle origini al Cinquecento (REMCI), Firenze, Cesati.
Pelosi, Andrea (1990), La canzone italiana del Trecento, «Metrica» 5, pp. 3-162.
Zenari, Massimo (1999), Repertorio metrico dei “Rerum vulgarium fragmenta” di Francesco Petrarca, Padova, Antenore.