Abstract
Il principio di capacità contributiva, contemplato nell’art. 53 Cost., è regola fondamentale che presiede alla ripartizione dei tributi tra i consociati. Come criterio di riparto dei carichi pubblici, il principio ha un doppio volto: da un lato vincola il legislatore a riportare il presupposto oggettivo dei tributi all’attitudine dei singoli e, dall’altro, vincola questi a contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro attitudine personale. La contribuzione ritrae la propria giustificazione dall’idea che il suo assolvimento soddisfi esigenze non individualistiche ma sociali: il tributo rappresenta adempimento di un dovere inderogabile di solidarietà. Il cuore sostanziale del principio è la forza o capacità economica riconducibile ad elementi in grado di esprimerla nella sua oggettività. La tassazione, per questo motivo, è sganciata, sul piano della sua legittimazione, dal depauperamento che può determinare del patrimonio del contribuente preesistente al prelievo e non impone l’esistenza di un legame col diritto di proprietà, inteso come elemento “costitutivo” della persona e della sua attitudine alla contribuzione. Dal principio di progressività, previsto nel comma 2 dell’art. 53, discende, con la forza cogente del diritto, il limite quantitativo al prelievo.
Ai sensi dell’art. 53, co 1, Cost. «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva»; per il co. 2 «il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
L’art. 53 è inserito nel titolo IV dedicato ai “rapporti politici”. In questo modo si è inteso sottolineare come la capacità contributiva esprima, anzitutto, un criterio ordinatorio dei rapporti tra consociati e tra consociati e Stato: criterio di salvaguardia dei loro diritti ma, al contempo, fondamento del loro dovere contributivo, alla stessa stregua di altri doveri, come quello di voto, il dovere di difesa della Patria, il dovere di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alla Costituzione e alle leggi.
Lo Statuto albertino del 1848 non parlava di capacità contributiva: per l’art. 25, tutti i regnicoli dovevano contribuire ai carichi dello Stato «nella proporzione dei loro averi».
La capacità contributiva è nozione anzitutto economica e, come formula normativa, comparve per la prima volta nei lavori preparatori della Costituzione, in una proposta di articolato formulata da Lelio Basso, nel corso della seduta del 16 novembre 1946 della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione. La proposta non venne approvata. Aldo Moro e Giuseppe Dossetti, nelle dichiarazioni di voto, tuttavia, riconobbero la necessità di prevedere in Costituzione una specifica disposizione riguardante le prestazioni patrimoniali imposte.
L’Assemblea costituente si occupò dell’argomento nella seduta del 23 maggio 1947. In quella sede, a firma, tra gli altri, di Edgardo Castelli ed Ezio Vanoni, venne riproposto il principio di capacità contributiva come criterio fondante la contribuzione obbligatoria per «tutti quanti partecipano alla vita economica, sociale o politica dello stato». Nello svolgimento della discussione, fu proprio Castelli a riassumere le proposte emerse nel corso dei lavori ed a formulare, d’intesa con Luigi Meda e Salvatore Scoca, una proposta conclusiva, in termini esattamente corrispondenti a quelli poi trasfusi nell’art. 53, co. 1. Durante il dibattito, tuttavia, l’Assemblea non si soffermò tanto sulla nozione in sé di capacità contributiva: di essa, infatti, si parlò di passata nell’intervento di Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75”, che la definì “formula tecnicamente preferibile” rispetto alla nozione di “averi”, adottata nello Statuto albertino, e a quella di “mezzi”, contemplata nella Costituzione della Repubblica di Weimar. Piuttosto, l’Assemblea si preoccupò di un profilo, per così dire, contenutistico di detta capacità. Dalla lettura dei resoconti si desume con chiarezza come il timore dei costituenti, messo particolarmente in luce da Scoca e ripreso da Ruini, fosse quello di evitare che l’imposizione colpisse chi possedeva soltanto «un minimo necessario al soddisfacimento delle esigenze inderogabili della vita». Il tema delle esenzioni fu a lungo dibattuto. Alla fine prevalse la proposta, formulata dallo stesso Ruini, e condivisa da Villani, di evitare l’inserimento in Costituzione di un’autonoma previsione su questo tema, e non perché non fosse condivisa l’esigenza di preservare da imposizione quelle minime ricchezze, ma perché si ritenne che, a questo fine, fosse già sufficiente il principio di capacità contributiva. Principio che, come diffusamente esposto da Ruini nella seduta del 23 maggio 1947, contiene «in germe già l’idea delle limitazioni e delle esenzioni per il fatto che colui il quale dovrebbe contribuire non ha capacità contributiva [ … ] ed in tali condizioni senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere».
La discussione, sempre in assemblea, si appuntò, poi, sul criterio della progressività. Particolarmente significativi furono gli interventi di Scoca, Meda e Corbino, tutti tesi a garantire una sua puntuale formalizzazione in seno alla nuova Carta, come significativo fu l’intervento di Moro che, nella seduta del 19 novembre 1946 della prima sottocommissione della Commissione per la Costituzione, non esitò a schierarsi a favore della proporzionalità quale criterio di ripartizione “degli oneri che ricadono sui singoli cittadini”, come già previsto nello Statuto albertino. Ruini, nell’intervento conclusivo del 23 maggio 1947, si espresse, invece, favorevolmente alla progressività e aderì alla proposta di inserirla in Costituzione, ma non come criterio valevole per tutte le imposte dirette o per l’imposta c.d. unica - sulla quale pure si discusse per farne un tributo sostitutivo delle vecchie e frammentate imposte reali e personali - ma come criterio riferibile “all’insieme del sistema tributario”, assunto, per l’appunto, “nel suo complesso”. Proprio quello che sarebbe stato scritto, alla fine, nel co. 2 dell’art. 53.
Un cenno, infine, al profilo soggettivo. Anche di questo aspetto si occupò l’assemblea e due furono gli interventi più rilevanti: il primo di Castelli, che, “pur non nominandoli”, intendeva usare una locuzione in grado di ricomprendere tra i soggetti passivi dei tributi anche gli stranieri; il secondo di Ruini, il quale, pur raccogliendo questa indicazione, propose di adottare una formulazione sintetica, più adatta ai testi costituzionali: «non è necessario entrare in locuzioni vaghe: basta dire che “tutti devono concorrere”. Quel “tutti” riguarda anche gli stranieri». Anche in questo caso, la proposta di Ruini, formulata nella seduta dell’Assemblea del 23 maggio 1947, divenne articolato costituzionale (approfondimenti ulteriori in Moschetti, F., Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 2; Falsitta, G., Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio di capacità contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., 2009, I, 97 ss.).
Il principio in esame costituisce espressione di una regola fondamentale che presiede la ripartizione dei tributi tra i consociati. Per la Corte costituzionale - con argomentare criticato in dottrina - il suo ambito applicativo, però, deve essere limitato alle sole imposte, con esclusione, quindi, dei tributi c.d. commutativi (posizione tralaticiamente ripetuta fin dalla sent. 2.4.1964, n. 30, in Giur. cost., 1964, 250. Cfr. Maffezzoni, F., Imposta, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 441 ss., specie 463).
Visto come criterio di riparto dei carichi pubblici, il principio ha un doppio volto: da un lato vincola il legislatore a riportare il presupposto oggettivo dei tributi all’attitudine dei singoli e, dall’altro, vincola questi a contribuire alle spese pubbliche in ragione, proprio, della loro attitudine personale (sulla connotazione essenzialmente solidaristica della norma, Moschetti, F., Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, passim, 59 ss.; sul suo ruolo primariamente garantistico, Gaffuri, F., L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969, 88 ss.; sui limiti al potere di imposizione, sia formale, sia sostanziale, che discendono dal principio, cfr. De Mita, E., Il principio di capacità contributiva, in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1991, 33; Marongiu, G., I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1991, passim).
Il principio, se obbliga i consociati al rispetto del dovere, costituisce contemporaneamente un presidio affinché essi siano tassati - e non sembri un gioco di parole - solo per fatti economici espressivi di capacità contributiva: la commisurazione del carico tributario su ciascun soggetto deve essere parametrata alla sua condizione individuale, senza che su quella commisurazione possano incidere ricchezze da altri prodotte (C. cost., 15.7.1976, n. 179. In dottrina, cfr. Moschetti, F., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di Perrone L.-Berliri, C., Napoli, 2006, 45 ss.).
Di qui una duplice conseguenza. Non tutti gli elementi espressivi di capacità economica possono essere ripresi come fatti al contempo espressivi di capacità contributiva: così, ad esempio, un reddito minimo, appena sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa per il suo possessore e per i suoi familiari, manifesta bensì capacità economica, ma non quella contributiva. La seconda conseguenza è che nessun pregio può essere riconosciuto al c.d. interesse fiscale: tassare alcuno secondo parametri non idonei ad esprimere una capacità contributiva specifica ed effettiva per perseguire un interesse assertivamente predicato come superiore poiché appartenente allo Stato, è incompatibile sia col principio di capacità contributiva, sia col principio d’eguaglianza e con quello di solidarietà, se è vero, com’è da credere, che tutti questi princìpi non possono adattarsi a presupposti sostanziali “adulterati” da quell’interesse (sull’interesse fiscale, Boria, P., Capacità contributiva, in Comm. Cost., I, a cura di Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., sub art. 53, Torino, 2006, 1055 ss., e Id., L’interesse fiscale, Torino, 2002).
La contribuzione obbligatoria ritrae la propria giustificazione dall’idea che il suo assolvimento soddisfi esigenze non individualistiche ma sociali, della collettività organizzata costituita intorno ai diritti dei singoli e delle formazioni sociali: il tributo rappresenta, per questo motivo, adempimento di un dovere inderogabile, in quanto «la ricchezza del soggetto rileva non solo come diritto, ma anche come dovere per la realizzazione di fini comuni» (Moschetti, F. Profili generali, in Moschetti, F., La capacità contributiva, Padova, 1993, 18 e 19, e Id., Il principio della capacità contributiva, cit., 59 ss.; Manzoni, I., Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 185 ss.; Batistoni Ferrara, F., Capacità contributiva, in Enc. dir., Agg., III, Milano, 1999, 345 ss.; Antonini, L. Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 200 ss. e 347 ss.; Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario, I, Torino, 2011, 63 ss.; Giovannini, A., Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, 609 ss.).
La ricchezza del singolo – detto in termini scheletrici – non è soltanto privata, ma, in parte, è anche pubblica, poiché “appartenente” allo Stato qualificato come collettività. Il tributo, pertanto, è il principale strumento attuativo della distribuzione del carico, al quale si collega l’interesse di “tutti” affinché quel dovere venga assolto dai singoli nella misura da “loro” dovuta (Vanoni, E., Elementi di diritto tributario, Padova, 1940, 47 ss., Falsitta, G., Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di La Rosa, S., Milano, 2008, 68). Il principio dettato dall’art. 2, quindi, in primo luogo, deve essere inteso come espressivo del dovere di solidarietà economica gravante sul singolo, perché è anzitutto uti singuli che la qualificazione solidaristica del dovere prende corpo, dovere che, per questo motivo, non può che trovare corrispondenza in un’obbligazione individuale a carattere pecuniario.
Pure incarnato da un’obbligazione di stampo civilistico, il dovere tributario non trova la sua ragione in un rapporto commutativo tra singolo e Stato: non si adempie perché si riceve, ma si adempie perché si partecipa alla stregua di membri di una comunità organizzata e, quindi, si adempie in qualità di corresponsabili delle sue esigenze e della sua sopravvivenza (Fedele, A., Corrispettivi di pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 27 ss.; si riferisce “all’interesse individuale alla funzione riproduttiva dei pubblici servizi”, Berliri, L.V., La giusta imposta, Milano, 1975, 56).
Il principio in esame ha anche una faccia più propriamente sociale. Se valutato in questa dimensione, il dovere contributivo perde la configurazione giuridica individuale per assumere quella uti cives, riferibile a tutti i componenti la collettività. Il dovere giuridico singolo si diluisce e si fonde nel dovere di tutti e la distribuzione del carico non solo lascia il terreno della singola obbligazione giuridica per entrare nella dimensione macroeconomica e della finanza pubblica, ma può essere perfino guardata, quella distribuzione, dalla prospettiva opposta: anziché dell’imposizione, dalla prospettiva della spesa pubblica (Bergonzini, E., I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione fiscale, I e II, Napoli, 2011, passim, specie vol. I., 109 ss.).
Il principio, dunque, inserito in una Costituzione che ripudia la concezione liberale della finanza “neutrale” e che, al contrario, si apre al modello della finanza “funzionale”, ordina le entrate alla rimozione degli ostacoli economici che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei singoli, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, secondo la tavola dei valori espressa nell’art 3, e, per il tramite delle leggi di spesa o di norme impositive di favore (di agevolazione o di esenzione), ordina la politica fiscale e di bilancio al conseguimento di finalità non soltanto tributarie, ma anche redistributive, così del carico, come della ricchezza (Gallo, F., L’uguaglianza tributaria, Napoli, 2012, 19 ss.).
Il principio di eguaglianza, pertanto, trova nella solidarietà il suo “specchio” sostanziale: sono i principi costituzionali letti alla luce dell’art. 2 che danno corpo all’eguaglianza, obbligando, da una parte, a trattare in modo eguale situazioni eguali e, dall’altra, legittimando trattamenti differenziati a petto di situazioni solo apparentemente identiche.
È in questo contesto e sulla base di queste regole che viene in considerazione la problematica delle esenzioni e delle agevolazioni, le quali, proprio alla luce degli art. 2 e 3, si possono giustificare se rivolte a perseguire interessi costituzionalmente rilevanti in grado di “bilanciare” il vulnus che, in prima battuta, sembra subire l’eguaglianza formale; e sono sempre quelle norme costituzionali ad impedire disomogeneità di trattamento di situazioni apparentemente difformi, ma sostanzialmente identiche.
In conclusione e utilizzando un’espressione immaginifica, se il principio di solidarietà e quello di eguaglianza si assumono come una costellazione radiante, la quale, per il “naturale” intreccio delle norme costituzionali, ritrae dal principio della capacità contributiva l’impronta economica alla quale poter saldare redistribuzione della ricchezza e ripartizione dei carichi pubblici, agevolazioni ed esenzioni in tanto si giustificano in quanto ad esse corrisponda un interesse di pari grado suscettibile di irradiare, a sua volta e con la stessa intensità dell’art. 53, quella costellazione.
Ecco perché, per il diritto domestico, le norme che tassano in maniera minore il reddito d’impresa prodotto nella forma della società cooperativa di produzione e lavoro, con carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, rispetto ai redditi d’impresa prodotti nelle forme delle società lucrative, non creano nessuno strappo al principio di parità di trattamento: in forza dell’art. 45 della Carta, infatti, quelle norme raccolgono il principio solidaristico (art. 2) e quello del diritto al lavoro (art. 4), favorendone promozione e incremento. Proprio quello, del resto, che, nel nocciolo, ha riconosciuto anche la C. giust. U.E. nella sent. 8.9.2011, c. C-78/08 e C-80/08 (Giovannini, A. Concorrenza fiscale e aiuti di Stato: princìpi e tassazione delle società cooperative, in Boll. trib., 2006, 1589 ss.; A. Marinello, Regimi impositivi differenziati e società cooperative secondo la Corte di giustizia UE, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 207 ss.).
La capacità contributiva apparve, ai primi commentatori, come una “scatola vuota”. La tesi svalutativa del principio, però, non attecchì e la letteratura più attenta, come la giurisprudenza della C. cost., propose interpretazioni volte a riempire quella “scatola” di contenuti pregnanti (Giardina, E., Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; Moschetti, F., Il principio di capacità contributiva, cit., passim; la giurisprudenza della Corte si può vedere richiamata in Batistoni Ferrara, F., Comm. Cost. Branca, sub art. 53, Bologna-Roma, 1994, e in De Mita, E., Fisco e Costituzione, Milano, 1984 e 1993).
Il cuore sostanziale del principio è la forza o capacità economica riconducibile ad elementi in grado di esprimerla nella sua oggettività. Ne discende che, mentre non possono essere elevati a presupposto di un tributo fatti non idonei a manifestare una forza simile (così, ad esempio, le connotazioni fisiche di un soggetto, le sue convinzioni ideologiche o religiose, il suo orientamento sessuale, l’appartenenza ad una etnia o altri elementi similari), rimangono senz’altro attratti in quella nozione il reddito, il patrimonio e il suo incremento di valore – indici diretti di capacità contributiva – i consumi, i trasferimenti e gli affari giuridici - indici indiretti di capacità contributiva (De Mita, E., Capacità contributiva, in Dig. comm., II, Torino, 1987, 454 ss.).
Elementi ulteriori si sono aggiunti in tempi recenti: il valore netto della produzione, posto a fondamento dell’imposta regionale sulle attività produttive, e l’uso o la produzione di risorse inquinanti, “presupposto” di alcuni c.d. tributi ambientali.
Su questi ultimi si è aperto un vivace dibattito. Quanto ai c.d. tributi ambientali, la loro riconduzione all’art. 53 non è l’unica soluzione prospettabile. È possibile che essi siano qualificabili come prelievi bensì ablativi di una porzione della ricchezza prodotta dall’attività nella quale tali sostanze sono impiegate o prodotte, ma non riproduttivi dall’art. 53 del titolo giuridico legittimante il prelievo medesimo. Sembra che il titolo di quella ablazione possa risiedere nel danno o nell’illecito e, dunque, che sia possibile qualificarla come obbligazione riparatoria o sanzionatoria, anziché contributiva.
Con riguardo al valore netto della produzione il nocciolo del problema è se l’esercizio di un’attività d’impresa o di lavoro autonomo cui quel valore è riferibile, comportando la nascita dell’obbligazione d’imposta indipendentemente dal reddito, non possa finire per determinare una sorta di confisca parziale del bene, ovvero dell’azienda genericamente intesa, dal quale scaturisce quello stesso valore netto. La questione, dunque, è se il presupposto dell’IRAP esprima una reale attitudine alla contribuzione, oppure se una consimile attitudine si debba ritenere assente poiché il prelievo legato a questa imposta può compromettere, anche solo potenzialmente, l’integrità della fonte, ovvero e in termini ancor più comprensivi, la proprietà individuale.
Su questo aspetto la dottrina è divisa in schiere irriducibilmente contrapposte. La Corte costituzionale, da parte sua, parzialmente modificando precedenti orientamenti, ha adottato una lettura puramente oggettiva o oggettivistica dell’art. 53 (C. cost. 21.5.2001, n. 156, in cortecostituzionale.it; in dottrina, favorevolmente, Gallo, F., Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, 79 ss.; in netta e agra contrapposizione, Falsitta, G., L’imposta confiscatoria, in Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 217 ss.; Schiavolin, R., L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007; Moschetti, F., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che uniforma il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2007, 46 ss; Gaffuri, F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 31 ss.).
Il problema richiamato, in linea teorica, non attiene soltanto all’IRAP, ma riguarda, all’evidenza, tutti i tributi e, in particolare, quelli reddituali e patrimoniali, ed anche, sempre in teoria, forme nuove di prelievo radicate su elementi che solo in tempi recenti sono stati messi a fuoco (Gallo, F., L’uguaglianza tributaria, già cit.).
È mia convinzione – ragionando in questo più ampio quadro – che il principio scolpito nell’art. 53 sganci la tassazione dal depauperamento che essa può determinare del patrimonio del contribuente preesistente al prelievo. Detto in negativo, non crei o non imponga l’esistenza di un legame col diritto di proprietà, inteso come elemento “costitutivo” della persona e della sua attitudine alla contribuzione (Giovannini, A., Capacità contributiva e imposizione patrimoniale: discriminazione qualitativa e limite quantitativo, in Rass. trib., 2012, 1131 ss.).
Per il principio costituzionale è sufficiente che l’elemento prescelto a presupposto del tributo sia in sé rilevante economicamente o lo sia almeno potenzialmente come produttivo di una ricchezza ulteriore rispetto a quella che esso, elemento, già esprime; potenzialità che gli conferisce una qualità ulteriore, giuridicamente apprezzabile, espressiva, per l’appunto, di una sua oggettiva idoneità alla contribuzione. L’art. 53, ponendo un criterio di ripartizione delle spese pubbliche e affidandosi a tal fine alla capacità contributiva, riprende e consacra il solo criterio in grado di dare a quella capacità una connotazione sostanziale: la forza economica (Gallo, F., Le ragioni del fisco, cit., 89 ss.; Fedele, A., La funzione fiscale e la capacità contributiva nella Costituzione italiana, in Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2007, 14 ss.; Batistoni Ferrara, F., Capacita contributiva, cit.). Insomma, per semplificare il ragionamento, il fatto di aver ricoverato in un forziere un sacco di iuta pieno di diamanti può anche dimostrare che essi non sono in grado di generare immediatamente un reddito, ma non dimostra affatto che essi, come beni, non esprimano forza economica. E questo discorso può essere esteso a numerose ipotesi già note al diritto positivo: non soltanto all’IRAP e alle imposte patrimoniali, ma anche alle accise o imposte di fabbricazione, all’imposta sul valore aggiunto nei casi in cui l’obbligo di versamento del soggetto passivo prescinda dalla percezione del tributo addebitato in rivalsa, ai redditi tassabili secondo il criterio della “maturazione”, come avviene, tra l’altro, in alcune fattispecie di redditi di capitale e di redditi finanziari, senza voler considerare le ipotesi, numerosissime, di oneri tributari “indiretti” riconducibili all’assolvimento di obblighi strumentali al procedimento d’imposta (anche oltreoceano, sebbene in un contesto costituzionale diverso, l’orientamento è nel senso qui indicato, essendo stata elevata a presupposto, ad esempio, la c.d. compartecipazione di responsabilità, ripresa alla stregua di elemento oggettivamente rilevante, come si è espressa la Corte Suprema degli USA il 28.6.2012 (c.d. Obamacare), in Dir. prat. trib. int., 2012, commentata da Rosembuj, T., La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta, in Dir. prat. trib., 2012, I, 1295 ss.).
Considerare singoli fatti o beni, complessi di beni o altri elementi economici come oggettivamente espressivi di capacità contributiva non significa legittimare una loro tassazione illimitata. Un conto, infatti, è valutare la forza economica che essi esprimono, altra questione sono i limiti quantitativi massimi che la tassazione incontra o deve incontrare, limiti che sono svincolati dalla sussistenza o non sussistenza di una ricchezza idonea al pagamento. Il primo aspetto coincide con la nozione stessa di capacità contributiva, valutata in una dimensione puramente oggettiva, e riguarda l’attitudine di un bene o di un fatto in quanto tale ad esprimere forza economica suscettibile di essere ricondotta al principio costituzionale. Il secondo aspetto, invece, assumendo come per realizzata quella dimensione oggettiva perché già reputata conforme al 1º co. dell’art. 53, riguarda la capacità contributiva dal punto di vista quantitativo, ossia dei limiti massimi dell’imposizione (Bergonzini, G., I limiti costituzionali, cit., 452 ss.; per la letteratura tedesca, Tipke, K., I limiti costituzionali della pressione tributaria, in Riv. dir.trib., 2000, I, 761 ss.).
Da quest’ultimo punto di vista, è possibile offrire al limite quantitativo una duplice valenza: come limite collegato alla non tassazione della ricchezza coincidente col c.d. minimo vitale, bensì espressione di una forza economica, ma non di una capacità contributiva (Antonini, L., Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 347 ss.); e come limite coincidente pur sempre col minimo vitale, ma apprezzato, esso minimo, da una prospettiva capovolta e che, per semplicità, si può chiamare minimo vitale “rovesciato”. Poiché il prelievo non può determinare l’indigenza, esso si deve arrestare là dove inizia il livello minimo di ricchezza necessaria per condurre una vita libera e dignitosa, pure quando chi ne sia colpito disponga, prima del prelievo stesso, di ricchezze superiori, anche di molto, a quelle coincidenti con quel minimo. In caso diverso ci troveremmo in presenza di un’imposta confiscatoria o ablativa: il tributo subirebbe una trasformazione qualitativa, smettendo i panni suoi propri per indossare quelli della sanzione (in termini condivisibili, Falsitta, G., L’imposta confiscatoria, cit., 239 e 240, 272 ss.). E questa conclusione varrebbe non solo se il prelievo intaccasse il minimo vitale, ma anche se, in forza dell’applicazione di aliquote molto elevate, scarnificasse quasi totalmente una ricchezza ad esso assai superiore. Il che, d’altra parte, è vietato anche dalla regola iscritta nell’art. 42, co. 3, Cost.
Si tratta di verificare, allora, se vi è spazio, giuridicamente rilevante, per individuare un criterio cogente di limitazione quantitativa. È possibile che un principio capace di dar sostanza anche ad altri principi costituzionali possa essere ricercato nel 2º co. dell’art. 53 (sul quale, in generale, Schiavolin, R., Il principio di progressività del sistema fiscale, in Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., 151 ss.). La progressività, invero, non può essere intesa soltanto come criterio unidimensionale - “dall’alto verso il basso” - di redistribuzione delle risorse e ancor prima dei carichi pubblici a favore dei meno abbienti, criterio o regola che, attraverso un prelievo più che proporzionale rispetto al crescere della ricchezza, garantisce, col meccanismo della spesa pubblica, chi meno ha, soddisfacendo, così, gli interessi protetti dall’art. 2 Cost. e quello alla rimozione degli ostacoli indicato nel 2º co. dell’art. 3.
La progressività come principio esprime un concetto relazionale o di rapporto tra situazioni oggettive e quindi, scavando ulteriormente, esprime l’idea che all’esito dell’imposizione la forbice preesistente tra ricchi e poveri - detto grossolanamente - deve essere bensì ridotta, ma in misura modulare. In misura tale, cioè, da scongiurare l’appiattimento verso il basso di situazioni originariamente diverse, l’azzeramento delle “diseguaglianze legittime”, invece garantite dalla nostra Carta.
Predicare la progressività dell’imposizione, in altre parole, significa bensì ammettere che il peso tributario sull’euro marginale di ricchezza, prima della soglia del minimo vitale “rovesciato”, possa e debba essere maggiore di quello che grava sull’ultimo euro precedente, ma non che il prelievo stesso possa essere interamente ablativo di quel medesimo euro marginale e di quelli precedenti. Anzi, proprio in ragione della progressività e del suo concorrere coi diritti di proprietà individuali, quella forbice non può essere azzerata: tra quella iniziale e quella successiva, risultante dall’applicazione di un’imposizione complessivamente progressiva, non potrà che mantenersi una differenza, tanto più ampia quanto minore sarà il prelievo sull’ultimo euro marginale e sugli euro a questo prossimi. In parole diverse, garantito il minimo vitale “rovesciato”, la tassazione sull’euro marginale a questo anteriore può anche giungere a livelli assai elevati, ma sulle ricchezze precedenti a tale euro marginale è giocoforza che la percentuale di tassazione sia inferiore, con la conseguenza che, al decrescere della ricchezza, una parte sempre maggiore di questa non potrà che rimanere intonsa dalla tassazione medesima. È il meccanismo proprio della progressività a spianare la strada in questa direzione e ad imporre un limite.
Ciò non consente ancora di stabilire in percentuale la sua misura, come fece la Corte Costituzionale tedesca con la sentenza del 22.6.1995, nella quale parlò di «divisione a metà […] tra la mano privata e la mano pubblica». Posizione, peraltro, che la stessa Corte ha parzialmente rivisto con la dec. 18.1.2006, con la quale ha superato il criterio ripartitorio ora indicato, pur confermando l’esistenza di un limite quantitativo massimo alla tassazione, ulteriore e diverso dal divieto, peraltro assodato, della confisca.
Usando parametri di ragionevolezza, tuttavia, e a motivo del concorrere equiordinato della solidarietà e della proprietà, ripresa nelle sue diverse declinazioni costituzionali, è possibile ritenere rispettato il principio di capacità contributiva solo se la tassazione si arresta ad un livello mediano degli averi o a misure prossime a questo livello.
L’esperienza francese può confortare ulteriormente questa impostazione. E infatti, in quel sistema, non soltanto è dovuto intervenire il legislatore per fissare, in seno a l’impôt de solidarité sur la fortune (IFS), una “clausola di salvaguardia” o “massimale” o “scudo”, per limitare la misura dell’imposizione complessiva gravante sul singolo. Ma è dovuto intervenire anche il Consiglio costituzionale francese, il quale ha dichiarato l’illegittimità di tributi reddituali sostanzialmente confiscatori per esosità della loro aliquota marginale, pari al 75 per cento, individuandone un palese contrasto col principio di capacità contributiva e col principio di eguaglianza (dec. 29.12.2012, n. 2012-662).
In conclusione, l’esperienza tedesca e quella francese indicano, con palmare evidenza, la necessità di individuare anche in seno al nostro sistema impositivo limiti quantitativi massimi al prelievo, che salvaguardino le esigenze finanziarie della collettività organizzata, ma anche ed al contempo i diritti dei singoli. E a me pare che la strada da seguire sia proprio quella di legare la progressività, come principio, all’eguaglianza sostanziale, così da dar corpo, mediante questa relazione, alla rete di princìpi posti a garanzia dell’individuo.
Il tributo deve essere riferito ad un fatto idoneo a testimoniare una capacità economica attuale. Esso deve colpire ricchezze che, al momento della tassazione, manifestano attitudine alla contribuzione, seppure si siano formate in tempi precedenti o se ne preveda la produzione in tempi relativamente prossimi alla tassazione medesima.
Quanto, in particolare, alle leggi d’imposta retroattive, pur vietate in linea di principio dall’art. 3, co. 1, l. 27.7.2000, n. 212 (statuto dei diritti del contribuente), esse sono ammissibili, ma ad alcune condizioni che la Corte costituzionale ha stabilito nel corso della sua evoluzione giurisprudenziale: il periodo trascorso dalla realizzazione dei fatti espressivi di capacità economica deve essere temporalmente contenuto, secondo una valutazione ispirata alla ragionevolezza; gli effetti economici di quei fatti devono permanere, sempre secondo ragionevolezza, nel patrimonio del contribuente; la tassazione ex post di quelle ricchezze deve essere prevedibile fin dall’inizio, in considerazione delle lacune normative originariamente esistenti nel sistema o a motivo della incerta formulazione della singola disposizione (C. cost., 20.7.1994, n. 315, in Giur. it., 1995, I, 2650). Quanto alle modifiche normative in “corso d’anno”, sebbene generalmente ritenute ammissibili dalla Corte, l’art. 3 dello Statuto, già richiamato, le vieta espressamente. Pare così essere stata valorizzata la tesi che aveva postulato l’esistenza di un divieto di retroattività anche nel caso di disposizioni che, a periodo d’imposta iniziato, sostituivano il presupposto oggettivo o modificavano singoli fatti rilevanti nella costruzione di quel presupposto o della base imponibile: con simili modifiche, infatti, si «incide, alterandone le connotazioni, sulla capacità contributiva espressa da fatti già qualificati sul piano dell’ordinamento e realizzati in funzione di quella disciplina» (Giovannini, A., Retroattività e stabilità delle leggi d’imposta, in Giur. it., 1995, I, 1, 2655 ss.; Contrino, A., Modifiche fiscali in corso di periodo e divieto di retroattività “non autentica” nello Statuto del contribuente, in Rass. trib., 2012, 589 ss.).
Oltre al requisito dell’attualità, la capacità contributiva deve possedere quello della effettività. La Corte costituzionale ha in più occasioni affermato che la tassazione deve cadere su ricchezze effettive, quindi non fittizie (tra le altre C. cost., 28.7.1976, n. 200, in De Mita, E., Fisco e Costituzione, I, cit., 483).
Il requisito di effettività non comporta il divieto di presunzioni legali. Esse, infatti, se relative e collegate ad elementi inferenziali reali e non presunti, sono senz’altro ammesse. Vero è che la capacità contributiva, per dirsi effettiva, non deve costituire la riproduzione fotografica delle situazioni oggettive per come si sono realizzate nel pregiuridico. Quella che si definisce “effettiva” è solo una delle possibili raffigurazioni che la legge intende o può offrire di tale capacità. La combinazione di metodologie e strumenti, a questo fine, è variabile e molto ampia, come ampio e variabile è il ventaglio degli elementi ricostruttivi che talvolta sfumano, in punto probatorio, perfino il grado probabilistico della ricostruzione in semplice possibilità, più o meno attendibile a fil di logica (Lupi, R., Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 75 ss.; Tosi, L., Il requisito di effettività, in La capacità contributiva, a cura di Moschetti, F., cit., 126 ss., e Id., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 80 ss. e 434 ss.).
Per ciò che concerne gli strumenti “paracatastali” di determinazione della ricchezza, collegati a coefficienti o indici, utilizzati in sede d’accertamento per la determinazione del presupposto o della base imponibile, la loro conformità all’art. 53 è vincolata da alcune condizioni: i risultati ai quali conducono devono, anzitutto, rispondere a canoni di ragionevolezza, logicità e normalità; ad essi deve essere possibile opporre una diversa ricostruzione probatoria e le prove a tal fine utilizzabili devono essere possibili e poter assumere concreto rilievo; essi, inoltre, quanto all’accertamento dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, devono essere assistiti da ulteriori elementi probatori o, almeno, indiziari, così da garantire alla “realtà” contributiva ricostruita per il loro tramite un elevato grado di attendibilità.
Il postulato dell’effettività dovrebbe determinare, a stretto rigore, l’espulsione dalla base imponibile delle componenti meramente nominali prodotte dal processo inflattivo della moneta; come dovrebbe comportare l’espulsione dei meccanismi “forfetizzati” di misurazione del presupposto, compreso quello determinato catastalmente, fin dalla fase procedimentale della dichiarazione del contribuente.
La Corte costituzionale, seguendo un indirizzo pragmatico, ha però ragionato in termini diversi: se per la ricchezza “nominale” ha ritenuto ininfluente, dal punto di vista del diritto, il processo di svalutazione della moneta, atteso che il legislatore può legittimamente scegliere di riferirsi ad essa quale unità nominale di misura (C. cost., 8.11.1979, n. 126, in Giur. it., 1980, I, 1, 353, e C. cost., 25.7.1983, n. 239, in Foro it., 1983, I, 2954); per quella determinata catastalmente ha ritenuto che il reddito medio ordinario corrispondente alla rendita catastale esprima una capacità contributiva non già fittizia, ma “figurativa”, poiché quando oggetto dell’imposta sia una «cosa produttiva, la base per la tassazione è data (e la capacità del contribuente è rivelata) dall’attitudine del bene a produrre un reddito economico e non dal reddito che ne ricava il possessore, dalla produttività e non dal prodotto reale» (C. cost. 31.3.1965, n. 16, in Foro it., 1965, I, 1127).
Il requisito di effettività, inoltre, impone che la capacità contributiva venga determinata al netto dei costi sostenuti per produrre la ricchezza corrispondente. Sebbene l’ordinamento preveda eccezioni, anche significative, per lo più a motivo di una discriminazione qualitativa degli averi che in tal modo intende fondare, la regola generale rimane quella della “tassazione al netto”, regola che trova la sua più estesa operatività nelle imposte sui redditi (C. cost., 12.7.1965, in Foro it., 1965, I, 1243; Manzoni, I., Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 131; Giardina, E., Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, cit., 207 ss.).
Il problema sul quale da tempo si discute è se a questo criterio si debba conformare anche la determinazione del reddito prodotto da un’attività reato, ossia e per meglio dire, la determinazione del profitto, prodotto o prezzo del reato che per la legge fiscale può, se non sottoposto a confisca o sequestro penale, rilevare alla stregua di reddito tassabile, a mente dell’art. 14, co. 4, l. 24.12.1993, n. 537 (Giovannini, A, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, 2000).
Ragionando per princìpi la risposta deve essere negativa (diversamente Falsitta, G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, I, 349 ss.; Marongiu, G., Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. trib., 2009, 1076 ss.; Tesauro, F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia costituzionalità, in Corr. trib., 2012, 426 ss.). Un elemento che nella realtà pregiuridica è idoneo a manifestare forza economica di spesa, infatti, può non costituire oggetto di conforme valutazione sul piano del diritto. Non tutti i fenomeni astrattamente sintomatici di quella forza possono essere elevati a fattispecie giuridica e la circostanza che essi emergano sul terreno economico non è sufficiente affinché la legge li recepisca e li riconosca. La ragione di questa divergenza è semplice: la legge non è un guanto che calza a qualsiasi fenomeno poiché la forza di spesa di un elemento guardato nella sua matrice originaria deve essere sempre riportata ai princìpi posti a custodia del sistema. E la divaricazione tra qualificazione economica e qualificazione giuridica non è certo superabile invocando la norma sull’inerenza dettata dal testo unico delle imposte sui redditi: questo criterio, bensì utilizzabile nel procedimento interpretativo, interviene soltanto a posteriori, dopo cioè che i singoli componenti economici hanno superato il vaglio di conformità e per questa via sono stati elevati a fattispecie giuridica.
Per il diritto tributario si può qualificare alla stregua di costo la manifestazione di valore, misurata finanziariamente, di un bene o servizio, sostenuto per il perseguimento di interessi giuridicamente protetti riconducibili ad un’attività d’impresa o di lavoro autonomo.
L’art. 2 Cost. rafforza e, anzi, suggella queste considerazioni. Il principio di solidarietà impone di ritenere che la determinazione della capacità contributiva non possa essere condizionata da elementi economici finalizzati al conseguimento di interessi espulsi dalla qualificazione positiva dell’ordinamento. Come si è già detto, dall’art. 2 discende una regola sistematica fondamentale, che consente di dar corpo allo stesso vincolo solidaristico: la regola della redistribuzione di una porzione della ricchezza privata; ricchezza che, se assunta a presupposto dell’imposta personale, conformemente alle regole di determinazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, non può che essere stabilita per somma algebrica, comprensiva, come tale, degli elementi negativi (costi o spese) che concorrono a formarla. È così, è in questo modo che avviene la redistribuzione.
Ecco perché il costo di reato non può venire in considerazione come elemento negativo del reddito: se fosse ricondotto in quella somma algebrica, al pari del costo per sanzione pecuniaria, finirebbe per gravare, per essere ribaltato sulla collettività proprio in ragione dell’effetto redistributivo, generando, così, una conseguenza inconciliabile con la dimensione della legalità, presidio e cerniera del nostro ordinamento: i consociati sopporterebbero, seppure in frazione millesimale, la spesa che il reo ha sostenuto per commettere l’illecito. Il costo del reato, insomma, finirebbe per essere sopportato da chi è il soggetto passivo (diretto o indiretto, sulla base della tipologia di illecito, qui poco importa) del reato stesso. Senza troppi arzigogoli, quel costo si trasferirebbe (in parte) sulla collettività, che però è anche, contemporaneamente, vittima dell’illecito, e ciò, a tacere da altre considerazioni, fonderebbe una conseguenza paradossale all’evidenza e inaccettabile anche per il diritto (Giovannini, A., Principi costituzionali, cit., 609 ss., e Id., Costo e sanzione nel reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, 875 ss.).
Il co. 4 bis dell’art. 14 della l. 24.12.1993, n. 537, introdotto dall’art. 2 della l. 27.12.2002, n. 289, disponeva, con chiarezza, la indeducibilità integrale di siffatti costi. Più recentemente, con disposizione improvvida e malamente formulata (art. 8, co. 1, d.l. 2.3.12, n. 16) il legislatore è intervenuto prevedendo che «non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 c.p.».
Alcuni strumenti normativi di recente conio finalizzati alla risoluzione concordata delle controversie (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale e, soprattutto, mediazione) sembrano andare a scapito di una misurazione più accurata della capacità contributiva “effettiva”, per come la si potrebbe determinare con il mezzo storicamente ritenuto preferibile, ossia il processo. Un’analisi più attenta, in realtà, persuade come questa ricostruzione non sia la sola prospettabile. Gli istituti richiamati e in particolare la mediazione tributaria, muovono dall’incertezza di fatto e di diritto che caratterizza la ricostruzione unilaterale e vincolata dell’amministrazione, e dalla contestazione dell’obbligazione momentaneamente cristallizzata nell’atto d’accertamento. Questa incertezza, che può essere perfino profonda, per avere l’ufficio utilizzato presunzioni, anche “semplicissime”, o metodologie “paracatastali” di determinazione della capacità contributiva, produce, per così dire, un ingorgo di rapporti giuridici e il rischio che quell’ingorgo di rapporti si risolva in ingorgo del processo. La causa della legge, così individuata, è proprio la stessa che legittima la novellata determinazione della pretesa e che diviene, con perfetta coincidenza sul piano concreto, causa in senso giuridico dell’accordo posto in esito alla contestazione (accordo pregiurisdizionale o giurisdizionale, a seconda degli istituti di riferimento).
Stando le cose in questi termini, è manifesto come la capacità contributiva corrispondente a quella nuova determinazione sia l’unica che il diritto recepisce come “vera”: non solo la sua “effettività” non è accertabile ex post con mezzi ulteriori e diversi, atteso che la sua conformità alla realtà è stata messa definitivamente fuori discussione per via pattizia. Ma, soprattutto, non è possibile, anche astrattamente, verificare la sua maggiore o minore aderenza a quella realtà com’è all’infuori della rappresentazione che ne ha dato l’accordo tra le parti.
Sarebbe discutibile, dunque, sostenere la maggiore effettività della capacità contributiva “misurata” nell’originario atto impositivo o “misurata” nel processo rispetto a quella ricostruita in contraddittorio tra le parti, sol perché determinata, la prima, d’autorità e, la seconda, col filtro della funzione giurisdizionale. Di qui la possibilità di rileggere, inforcando nuovi occhiali d’interpretazione, il principio della indisponibilità dell’obbligazione d’imposta, il quale, pur autorevolmente sostenuto con argomentazioni rigorose, se assunto tralaticiamente o senza tenere in debita considerazione il mutato quadro normativo di riferimento, rischia di non cogliere proficuamente i mutamenti che stanno alla base del moderno diritto e che alimentano una rinnovata interpretazione dei principi costituzionali (per l’indisponibilità, Falsitta, G., Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in Profili autoritativi e consensuali, cit., 45 ss.; in termini opposti Russo, P., Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, ivi, cit., 89 ss.; Giovannini, A., Reclamo e mediazione tributaria: per una ricostruzione sistematica, in Rass. trib., 2013, 15 ss.).
Del resto, neppure sarebbe convincente contestare questa impostazione invocando gli artt. 2 e 3 e, quindi, richiamando la regola della giusta distribuzione tra i consociati dei carichi pubblici. Anche da questa prospettiva appare discutibile voler ricostruire il significato delle norme or ora richiamate leggendole esclusivamente dall’angolo visuale dell’art. 53 e interpretando questo articolo come espressivo della sola regola alla giusta distribuzione del carico. Non soltanto perché la Corte costituzionale ha già escluso, rispetto a questa disposizione, la sua “monodimensionalità”, affermando, con riguardo alle leggi di “condono”, che essa ha, per così dire, una doppia faccia: tutrice del principio di solidarietà e di quello d’eguaglianza, ma anche guardiana dell’interesse primario dello Stato alla riscossione e alla soddisfazione di altri interessi pubblici (C. cost., 7.7.1986, n. 172, in De Mita, E., Fisco e Costituzione, II, 408 ss.). Ma anche per il concorrere di un altro motivo: perché i princìpi che s’intendono desumere dagli artt. 2 e 3 non possono che essere in concreto innervati da molteplici interessi costituzionali, anche di diverso contenuto, ma tutti parimenti rilevanti nella definizione dell’assetto normativo con il quale il legislatore intende dar loro tutela e attuazione.
In conclusione, l’art. 2 e l’art. 3 non possono essere letti soltanto col monocolo dell’art. 53, ponendoli in linea su una sorta di asse orizzontale figurato. E non perché ad essi si voglia negare funzione di norme coessenziali all’ordinamento, di colonne portanti della sua architettura e perfino della forma di Stato. Piuttosto perché, per riprendere la metafora geometrica in precedenza utilizzata, essi costituiscono il centro di una costellazione radiante di princìpi e pertanto su di essi si riverberano, per il “naturale” intreccio intessuto dalla Costituzione, altri interessi di pari pregio e rango rispetto a quello alla perequata imposizione (interesse all’economia processuale, alla ragionevole durata dei processi residui, alla pronta riscossione del credito, alla definizione del rapporto giuridico d’imposta, all’efficienza dell’azione pubblica); interessi che, nel rispetto della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza e coerenza intrinseca, possono legittimare, con una preliminare ponderazione generale ed astratta degli interessi compiuta dal legislatore, valutazioni “concordate” in sede di rivisitazione contenziosa dell’obbligazione provvisoriamente determinata nel provvedimento d’accertamento e, dunque, valutazioni dispositive del credito, secondo criteri e regole stabiliti dalla legge, tutti incentrati sull’incertezza dell’esito processuale della lite.
Art. 53 Cost., art. 2 Cost., art. 3 Cost.
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