Capetingi
. Dal soprannome del primo di essi (variante, secondo le fonti, " Capet ", " Capetus ", " Chapet ", ecc.), l'Ugo Ciappetta di Pg XX 49, sono i sovrani della dinastia che, a non voler sottilizzare sulla continuità della discendenza diretta in linea maschile, si può dire abbia ininterrottamente regnato sulla Francia dal 987 addirittura fino al 1792, e poi di nuovo dal 1814 al 1848. Applicando invece il criterio più rigoroso e distinguendo la dinastia dei C. da quelle dei Valois (1328-1589), dei Borboni (1589-1792; 1814-1830) e degli Orléans (1830-1848), i C. propriamente detti regnarono solo dal 987 al 1328.
Un cronista inglese morto nei primissimi anni del secolo XIII ha già " Capaticii ". Ma più a monte di Ugo Capeto (987-996) troviamo almeno un suo ascendente diretto, il nonno paterno Roberto, che fu re di Francia nel 922-923; mentre, sempre nell'ambito della famiglia, ma collateralmente, Eudi, fratello di Roberto e difensore di Parigi contro i Normanni (885-886), fu re nell'888-889, e Rodolfo (Roul) di Borgogna, marito di Emma, sorella di Ugo il Grande (m. nel 956), duca di Francia e padre di Ugo Capeto, regnò, sempre in Francia, dal 923 al 936, prima dell'ultima restaurazione carolingia (936-987). Da Roberto il Forte, padre di Eudi e di Roberto I, ‛ missus dominicus ' di Carlo il Calvo e morto combattendo contro i Normanni nell'866, questi C. ‛ ante litteram ' vengono di solito chiamati Robertingi.
Quando D. redasse il suo polemico bilancio delle vicende che avevano accompagnato la nascita e la crescita della mala pianta capetingia (Pg XX 43-96), dieci dei quattordici sovrani di questa dinastia si erano già succeduti sul trono francese e l'undicesimo, Filippo IV il Bello, era felicemente regnante (1285-1314). Fino allora, ogni sovrano capetingio era morto lasciando un erede maschio. Di me son nati i Filippi e i Luigi (v. 50) : la stessa costante alternanza dei due nomi (a partire dal 1060, quattro Filippi e quattro Luigi) rifletteva l'automatismo con cui, in casa dei fortunati C., avveniva l'operazione, sempre così delicata altrove, del passaggio da un sovrano all'altro. Solo alla morte di Luigi X (1316), figlio e successore di Filippo il Bello, e di Filippo V (1322) si sarebbero prodotte le prime piccole smagliature : ma sia in un caso che nell'altro si poté ancora fare ricorso a un fratello del sovrano defunto. Finché, nel 1328, quando morì Carlo 'v, si dovette ricorrere a un suo cugino, Filippo (VI) di Valois, figlio di un fratello di Filippo IV.
Dal principio alla fine, il lungo brano sui C. è una " terribile sentenza contro i delitti della casa di Francia ", messa in bocca da D. al fondatore stesso della dinastia, secondo un procedimento che egli usa anche altrove, " per attribuire alla severità del suo giudizio un carattere di illusoria obiettività " (Sapegno). Alcuni commentatori ritengono che l'esordio (vv. 40-42), da cui è introdotta l'invettiva, contenga già un primo accenno polemico di. Ugo Capeto, disdegnoso del conforto che avrebbe potuto venirgli dalle preghiere dei suoi " discendenti malvagi " (Tommaseo) : si tratta invece più verosimilmente, come vuole il Sapegno, di una semplice " formula di cortesia " (Ugo ci tiene a precisare che non è per il compenso di là, che D. gli ha fatto intravvedere, che si sente indotto a rispondergli). Ma poiché, per " la coerenza dell'immagine " (Porena), il buon frutto, che, sia pure di rado, può ancora produrre la terra cristiana, benché aduggiata dalla mala pianta capetingia, deve intendersi come un frutto, in genere, di quella terra (e non, come è stato anche inteso, di quella pianta), cade anche la possibilità di uno spiraglio lasciato aperto all'inizio dell'invettiva contro i C., per un'eccezione che avrebbe potuto essere fatta valere a favore di Luigi IX, canonizzato da Bonifacio VIII l'11 agosto 1297, oppure di un qualunque altro sovrano della serie, a discrezione del lettore: un'eccezione che, lasciando per un momento da parte " la coerenza dell'immagine ", avrebbe in ogni modo contraddetto allo spirito profondo che informa la condanna globale dei C. da parte di Dante.
Nella seconda parte dell'invettiva contro i C., troviamo menzionati distintamente tre Carli (Carlo venne in Italia, v. 67: Carlo I, conte d'Angiò e re di Sicilia, fratello di Luigi IX, capostipite dei d'Angiò italiani; un altro Carlo fuor di Francia, v. 71: Carlo di Valois, fratello di Filippo IV e paciaro a Firenze nel 1301 ; l'altro, che già uscì preso di nave, v. 79: Carlo II d'Angiò, re dí Sicilia, figlio di Carlo I) e un Filippo (il novo Pilato, v. 91: Filippo IV il Bello). Sono tutti e quattro personaggi contemporanei, variamente implicati nella politica fiorentina, italiana e papale; viventi (tranne Carlo I) al momento della visione - i fatti addebitati a ciascuno di essi, salvo naturalmente ciò che riguarda Carlo I, sono esposti sotto forma di predizioni, tempo vegg'io..., per essere accaduti dopo il 1300 -; e, tre casi su quattro, appartenenti non al ramo primogenito della dinastia, regnante sul trono di Francia, bensì a rami cadetti. Tutta la parte della storia dei C. di Francia, che sta in mezzo fra il capostipite Ciappetta, presentato come un ‛ parvenu ', e il novo Pilato, è invece condensata da D. in pochi versi (vv. 46-47 e 61-66), nei quali manca un qualsiasi accenno alle colpe specifiche di uno o dell'altro sovrano (i Filippi e i Luigi sono ricordati collettivamente : dal punto di vista personale, essi godevano in genere di un'ottima stampa nella cronachistica contemporanea), mentre vi troviamo accuratamente segnati i nomi di alcune città (Douai, Lille, Gand, Bruges) e regioni (Provenza, Ponthieu, Normandia, Guascogna), su cui si era esercitata la fame sanza fine cupa (v. 12) di Ugo e dei suoi discendenti.
Per D., che non si attarda a distinguere il tronco dai rami (Angiò, Valois), sia i Filippi e i Luigi che i Carli appartengono allo stesso titolo alla mala pianta capetingia, contaminata alle radici da quel peccato di cupidigia, contro il quale Ugo Capeto, il capostipite e primo colpevole, invoca a più riprese la vendetta divina (vv. 47-48 e 94-96). Ma prima di essere additata ed esecrata come la suprema norma di condotta di singoli membri della famiglia - fino a un Carlo II, che non si cura de la propria carne (v. 84), fino a un Filippo IV, che sana decreto porterà nel Tempio le cupide vele (vv. 92-93) - e, di là delle loro persone, come la causa dell'attuale corruzione dell'intero mondo cristiano, la brama di possedere è denunciata come il modo stesso di essere, come la struttura costitutiva del ‛ regnum particulare ' cui i C. avevano legato fin dall'inizio le loro sorti: il regno di Francia. La parte, per così dire, spersonalizzata dell'invettiva contro i C. va dunque letta alla luce di Cv IV IV 4 e soprattutto di Mn I XI 11-12, dove però come esempio di regno particolare, strutturalmente dominato dalla cupiditas, in contrapposizione con la monarchia universale, viene indicato il regno di Castiglia, che, a differenza di quello di Francia, era estraneo alla sfera delle passioni e dei risentimenti personali di D. e perciò conveniva meglio al tono dimostrativo del trattato.
All'interno di un giudizio complessivo di condanna, D. distingue una prima e una seconda fase nella storia dei C.: la svolta che avrebbe dato inizio alla seconda fase, eliminando dal loro comportamento ogni residuo di pudore (vergogna), sarebbe stata costituita dalla gran dota provenzale (vv. 61-63). Vista l'importanza che D., per ragioni ovvie, tendeva ad attribuire al ramo angioino della dinastia, e alla luce, anche, dell'episodio di Romeo di Villanova, il pio e fortunato sensale di matrimoni regi, in Pd VI 133-135, la spiegazione più probabile è che la dote in questione sia quella portata da Beatrice, figlia di Raimondo IV Berlinghieri, quando nel 1245 andò sposa a Carlo d'Angiò - cioè a dire la contea di Provenza. Sempre nell'ambito delle alleanze familiari predisposte dal buon Romeo ci sarebbe anche il matrimonio di un'altra figlia di Raimondo IV, Margherita, che nel 1234 fu impalmata addirittura da Luigi IX: ma è difficile ammettere che il possesso del castello di Tarascon, che Raimondo consegnò al re di Francia come garanzia della dote della figlia, possa avere segnato una svolta decisiva nella storia della dinastia francese. Piuttosto, se ci si risolve a lasciare da parte Romeo, potrebbe essere presa in considerazione la dote che Giovanna, figlia di Raimondo vai di Tolosa, in base al trattato di Parigi del 1229, recò ad Alfonso di Poitiers, altro fratello di Luigi IX, e che comprendeva, oltre alla contea di Tolosa, il marchesato di Provenza (o Venassino). Poiché infatti, quando Filippo III entrò in possesso dell'eredità dello zio Alfonso, cedette al papa il Venassino (1273), che venne a costituire la sola porzione di dominio temporale della Chiesa situata a nord delle Alpi, può benissimo darsi che D., deprecando la gran dota provenzale, intendesse proprio riferirsi indirettamente a questo immediato presupposto geo-politico della cattività avignonese.
Anche gli storici moderni distinguono, come D., due diverse fasi nella storia dei C.: R. Fawtier, per esempio, fa seguire a una prima fase, conclusa verso il 1180 e caratterizzata dal ricupero e consolidamento del " dominio " (inteso come l'insieme delle terre e dei diritti che il re sfruttava direttamente), una seconda fase, in cui si assiste allo smantellamento dei grandi feudi, a cominciare dalla contea di Fiandra; da parte sua, M. Bloch distingue " la multitude des petites annexions " dalle " annexions de grande envergure ": manifestazioni le une e le altre, in una secolare continuità di intenti, degli " appétits territoriaux de la royauté ". Come che sia da intendersi alla lettera la gran dota provenzale, è certo che D. situa la svolta troppo a valle, vicino ai giorni suoi, annullando in una prospettiva schiacciata e deformata il cammino percorso dai C. nei secoli precedenti, come se il regno di Francia del tempo di Filippo II Augusto e dello stesso Luigi IX fosse stato davvero ancora quello del tempo dei primi successori di Ugo Capeto e di Roberto II, quando poco valea, ma pur non facea male (v. 63). Eppure, quando, arrivato al 1328, il Fawtier calcola che il dominio, in senso lato, dei C. corrispondesse a 313.663 km2, e aggiunge che, se fossimo in grado di stabilire la corrispondente misura per il 987, potremmo valutare con esattezza il cammino percorso dalla dinastia, egli non fa altro che applicare pedestremente alla carriera dei C., solo mutato il segno del giudizio, il metro usato da Dante.
Molto interessante, per il rilievo che ha assunto questo aspetto della storia dei C. nella storiografia più recente, è l'accenno alle sacrate ossa dei discendenti di Ugo (v. 60). Anche ammettendo che l'aggettivo, oltre alla sua accezione normale, abbia qui in aggiunta un valore ironico o, meglio, sarcastico (sacrate = esecrabili), resta il fatto che D. mostra di essersi reso conto dell'importanza che ebbe l'unzione di Reims nel consolidamento delle fortune dei Capetingi.
Bibl. - Sui C. in genere: R. Fawtier, Les Capétiens et la France, Parigi 1942. Si vedano anche: F. Lov, Études sur les règne de Hugues Capet et la fin du Xe siècle, ibid. 1903, e M. Bloch, La France sous les derniers Capétiens 1223-1328, ibid. 1964. Per le possibili interpretazioni della gran dota provenzale: P. FouRNIER, Le royaume d'Arles et de Vienne (1138-1378), ibid. 1891, 136, 173, 185-186. Per i poteri taumaturgici dei C.: M. Bloch, Les rois thaumaturges, Strasburgo 1924, 80-82, 109.