Capitalismo
sommario: 1. Privato e pubblico nel capitalismo. 2. Profitti e capitalisti. 3. L'organizzazione capitalistica. 4. Il capitalismo finanziario. 5. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Privato e pubblico nel capitalismo
Non a torto Walt W. Rostow (v. capitalismo, 1975) considerava ‛fuorviante' legare il concetto di capitalismo alla prevalenza, in un sistema produttivo, della proprietà privata del capitale e del libero mercato; fuorviante perché così si viene a contrapporre una economia basata sull'iniziativa individuale a una economia pubblica o collettiva. La contrapposizione non c'è sempre stata, e forse c'è sempre meno. È vero che, come da storico osservava Fernand Braudel, i politici non hanno costruito il capitalismo, ma lo hanno ereditato; tuttavia, i periodi e i luoghi del trionfo capitalistico corrispondono di regola a casi in cui il potere economico e il potere politico hanno coinciso o almeno si sono integrati armoniosamente.
La prima grande fase del capitalismo europeo si manifesta a partire dal XIII secolo nelle città-Stato italiane, a Venezia, Genova, Firenze, dove ‟è l'élite del denaro che tiene il potere". Più tardi, ‟nell'Olanda del XVII secolo, l'aristocrazia dei reggenti governa secondo gli interessi e persino secondo le direttive degli uomini d'affari, mercanti o finanzieri. In Inghilterra, la Glorious revolution del 1688 segna, a un tempo, l'avvento di un nuovo corso politico e l'affermazione di un nuovo modo di condurre gli affari, simile a quello adottato dagli Olandesi" (v. Braudel, 1977; tr. it., pp. 76-77). Più tardi ancora, e in un altro continente, la definizione di paese plutocrate affibbiata agli Stati Uniti non è soltanto una esagerazione polemica, ma approssima la realtà locale in alcune sue modalità, così come l'approssima nel Giappone d'oggi.
Ben inteso, lo Stato moderno può favorire il capitalismo o al contrario esserne il parassita, ostacolarlo e addirittura asservirlo. Quando Rostow afferma che le nazioni capitalistiche arrivano a versare nelle casse dell'erario pubblico fino al 35% del prodotto nazionale lordo, egli si rifà a dati del periodo 1955-1957. Da allora, la pressione fiscale è rapidamente salita ovunque, portandosi nell'Europa occidentale vicina al 50%, a un livello più alto che negli Stati Uniti e in Giappone. Se metà del prodotto nazionale lordo passa nelle mani dei politici, e se costoro giustificano l'entità del prelievo con l'intento di costruire uno ‛Stato sociale' (Welfare State), che fra l'altro dovrebbe trasferire risorse dai ricchi ai poveri, è difficile mantenere cordiali i rapporti tra lo Stato e i capitalisti.
L'alta pressione fiscale inevitabilmente grava anche sui profitti. Inoltre lo Stato sociale, insaziabile, esige sovente un'accumulazione del debito pubblico tanto massiccia da rendere necessario innalzare i tassi di interesse, a danno degli imprenditori privati bisognosi di credito. Le esigenze del tesoro dello Stato entrano in conflitto con quelle delle imprese economiche, le quali tentano di difendersi minacciando di licenziare le maestranze in soprannumero per colpa dell'‛avidità pubblica' nell'appropriarsi dei mezzi finanziari. Ma la disoccupazione, è ovvio, in quanto grave male sociale, obbliga a ulteriori interventi pubblici di sollievo, a ulteriori spese assistenziali, a ulteriori rischi di inflazione.
A questo punto, la strada del capitalismo attuale si biforca. Da un lato ci si dirige verso soluzioni di compromesso tra esigenze private ed esigenze pubbliche: i capitalisti chiedono - e in qualche misura ottengono - sovvenzioni, crediti agevolati, protezioni dalla concorrenza estera, e così via; e nel medesimo tempo si sforzano, ove possibile, di ridurre i costi col ricorso intenso al progresso tecnologico. Dall'altro lato i politici sacrificano il mercato, che produce e vende merci per il consumo a scelta delle famiglie, e avvantaggiano il cosiddetto consumo pubblico per soddisfare bisogni collettivi, cui il mercato non bada, mentre vi bada lo Stato sociale con la sua attività senza fini di lucro.
La seconda strada comporta, da parte dei politici (e degli intellettuali loro alleati), la lotta al ‛consumismo' e la predicazione dell'‛austerità', cioè la proposta di una società sobria nella quale un voluto ‛contenimento della dinamica salariale', oltre che la tassazione dei profitti, precluda la marcia delle famiglie nella direzione di compere giudicate dai moralisti sempre più frivole, inappaganti, meri effetti perniciosi della pubblicità commerciale. Al contrario, il moderno capitalismo consumistico, ‛fordista', conta sulla pubblicità commerciale, sulla continua innovazione merceologica e sugli alti (relativamente) salari per trasformare i lavoratori in ottimi clienti, che assorbano la produzione di massa consentita dalle macchine di ogni tipo, comprese le macchine per le telecomunicazioni (per esempio la televisione).
Qui vi è un paradosso. Lo Stato sociale - nato per difendere la parte ‛debole' (i lavoratori) dalla parte ‛forte' (i datori di lavoro) - d'accordo coi sindacati chiede talvolta ai lavoratori dei sacrifici in nome di una ‛austerità', che questi faticano a comprendere, forse perché non sufficientemente preparati a immedesimarsi col modello dell'uomo socialista. Al contempo, però, lo Stato - che, come legislatore e giudice, prende le parti del ‛debole' - mina alcuni fondamenti del capitalismo privato. Come ha osservato il giurista Salvatore Satta, gli effetti si vedono ‟nella disgregazione della teoria dei contratti, con la restrizione della libertà contrattuale e il declino della forza obbligatoria del contratto; nella evoluzione del fondamento della responsabilità; ma soprattutto nello svuotamento del diritto di proprietà" (v. Satta, 1994, pp. 118-119).
Perfino la questione del tempo libero dal lavoro appare ben diversa, a seconda che seguiamo una prospettiva o l'altra. Nella prospettiva consumistica, la riduzione degli orari, verificatasi diffusamente da un secolo a questa parte, serve principalmente a esaltare i consumi privati per il divertimento, lo sport, i viaggi, la cultura, et similia; nella prospettiva austera, invece, è un valore in sé, è liberazione dalla pena del lavoro costrittivo, è la premessa per il ‛volontariato sociale', ossia il passaggio dallo scambio commerciale al dono disinteressato. La polemica tra i fautori dell'una e dell'altra tesi ha notevolmente mutato, in questo scorcio del XX secolo, le armi ideologiche con cui si combatteva pro o contro il capitalismo nel XIX secolo.
Marx e i suoi discepoli o imitatori non riuscirono a concepire altro che un capitalismo pauperistico, ossia l'antitesi del capitalismo consumistico di oggi. Il salario reale, nelle loro profezie, non si sarebbe alzato durevolmente oltre il minimo di sussistenza, un minimo che avrebbe potuto un po' migliorare con l'‟incivilimento", ma che avrebbe allargato, e non ridotto, il dislivello tra poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. Gli anticapitalisti non immaginarono che i lavoratori si sarebbero trasformati, sebbene lentamente, in risparmiatori, in investitori, in (piccoli) capitalisti essi medesimi. Non furono, cioè, considerate due esperienze storiche, che si erano svolte in senso contrario all'opinione marxisteggiante.
La prima esperienza era che la diseguaglianza sociale tendeva a ridursi là dove l'economia evolveva dal feudalesimo al capitalismo: eppure Marx aveva lodato la possente produttività del nuovo sistema ‟borghese" rispetto al vecchio sistema. La seconda esperienza era che il capitalismo vincente si dedicava di preferenza a produrre merci popolari, non di lusso. Il declino del capitalismo italiano, che inizia nel tardo Medioevo, doveva essere imputato, fra l'altro, al suo rifugiarsi nella nicchia sicura ma angusta dell'industria della seta, dopo aver perso la gara della concorrenza internazionale sui mercati ben più ampi dei panni di lana a basso prezzo.
Similmente la Francia, fedele all'artigianato di alta qualità, era perciò rimasta indietro nei confronti della Gran Bretagna, le cui fabbriche più meccanizzate si orientavano a vendere all'ingrosso merci andanti di lana, cotone, metallo, e così via. E pertanto la rivoluzione industriale del tardo Settecento iniziò in un paese, la Gran Bretagna appunto, che mediamente pagava il lavoro meglio di quanto avveniva sul Continente. Pagare meglio il lavoro significava ampliare gli sbocchi sul mercato interno e al contempo creare incentivi affinché il fatto a macchina sostituisse il fatto a mano: questa era la via giusta, la via del futuro.
Si aggiunga che, in quelle condizioni di sviluppo, le macchine non causarono, come si temeva, una disoccupazione tecnologica insanabile; anzi, le città più industriali attrassero manodopera da tutto il resto del paese. Nel 1831 Manchester era sei volte più popolosa di sessant'anni prima, e le pubbliche autorità non posero freni alle migrazioni interne (né tentarono di lenirne le asprezze). ‟Gli storici sono stati impressionati dalla spontaneità della rivoluzione industriale, da quanto poco dovette a una cosciente pianificazione, e da quanta poca assistenza ricevette dai governi. Questa [in Gran Bretagna], si potrebbe ridurre all'aiuto involontario dato nel XVIII secolo con i bassi tassi di interesse [...] e anche alla protezione concessa alle nuove industrie dai relitti del sistema protezionistico-mercantilistico [del secolo precedente]" (v. Thomis, 1976, pp. 30-32).
Diversa è l'esperienza di altri popoli europei, come quella dei Tedeschi nell'Ottocento, che tentarono di annullare il ritardo verso i Britannici in fatto di industrializzazione sollecitando l'appoggio pubblico; così come, d'altronde, oltre Atlantico fecero gli Americani. Si ricordi che una industria arretrata, secondo i modelli più moderni, costituiva un handicap militare, oltre che economico. Ma bisogna distinguere tra paesi che si limitarono a circondare il mercato nazionale, lasciato relativamente libero, con barriere protettive, e paesi in cui l'intervento pubblico, più ambizioso, volle immischiarsi anche degli affari capitalistici interni, sempre allo scopo di guidarli verso un rapido sviluppo, anche se non sempre senza errori politici.
Storicamente parlando, si osserva una ambivalenza del moderno potere politico nei confronti dello sviluppo capitalistico privato, quasi unanimemente chiesto quando manca, ma giudicato assai più criticamente quando raggiunge un certo grado di intensità. Sta bene a tutti allevare l'oca dalle uova d'oro; il contrasto arriva quando la produzione è assicurata, ed esso riguarda la destinazione delle uova. Perfino Marx era convinto dell'opportunità dell'allevamento dell'oca capitalistica, purché poi le uova andassero non al godimento dei ‛borghesi', bensì a nutrire il socialismo subentrante, cioè l'erede proletario. Quando Lenin decise di ‛saltare' la fase capitalistica e di passare subito al socialismo e poi al comunismo, egli non ubbidì ai precetti marxiani.
Bismarck fu forse il primo politico che invece ascoltò Marx e si servì delle uova d'oro del capitalismo per costruire uno Stato sociale in anticipo sul socialismo, disinnescando in tal modo una rivoluzione ‟proletaria" incontrollabile. Le frammentarie leggi sociali della Gran Bretagna nella prima metà dell'Ottocento non ebbero che in parte questo scopo: anche i politici britannici temevano i movimenti rivoluzionari di sinistra: non di meno, in quanto rappresentanti degli interessi più dell'aristocrazia terriera che della nuova borghesia industriale, quei politici usarono le leggi sociali per regolare il lavoro nelle fabbriche e moderare ciò che appariva loro come la prepotenza dei ‛padroni del vapore'.
Il caso britannico ci ricorda ancora una volta che è una semplificazione pericolosa opporre il privato al pubblico e gli interessi economici agli interessi politici. Tali interessi, se non costituiscono di necessità due sfere distinte e in contrasto, tanto meno sono da considerarsi sfere aventi ciascuna una propria omogeneità e unitarietà. Il contrasto esiste spesso, anche tra una parte e l'altra della medesima sfera. Il fatto è che la Gran Bretagna del XVIII secolo, rimasta in parte feudale, vide la ripetizione tarda di un conflitto sociale nato fin dal Medioevo tra l'aristocrazia terriera, che cercava di elevare le sue rendite per mezzo dell'alto prezzo dei cereali, e una nascente borghesia cittadina, che voleva invece il pane a buon mercato per gli operai delle manifatture.
In Gran Bretagna, le Corn laws a protezione del grano provocarono mezzo secolo di opposizione borghese, prima che fossero abrogate nel 1846 (quando la loro importanza si era fatta minima). Tuttavia, è sempre possibile che i proprietari terrieri abbandonino posizioni superate, non ostante lo spirito tradizionale, e si trasformino in finanzieri, commercianti e industriali come i borghesi imprenditori, e in realtà non mancarono casi del genere nella Gran Bretagna del Settecento e più ancora dell'Ottocento. Braudel (v., 1977; tr. it., pp. 79-80) indica un precedente: ‟A Firenze, alla fine del XV secolo, l'antica nobiltà feudale e la nuova alta borghesia mercantile formano un solo corpo all'interno della élite del denaro, che tende a divenire logicamente anche élite del potere politico. In altri contesti sociali, invece, una gerarchia politica può soffocare le altre. È il caso della [...] Francia durante l'ancien régime, che riduce i mercanti, anche quelli più ricchi, a recitare una parte di secondo piano, fuori della sfera del prestigio esercitato, in prima linea, dalla gerarchia dominante della nobiltà".
Sempre in Francia vediamo talvolta i borghesi e la monarchia alleati contro la nobiltà e i suoi privilegi fiscali, prima che la Rivoluzione francese schieri almeno una parte della borghesia sia contro la nobiltà sia contro la corona borbonica. Proprio a Firenze le vicende della famiglia de' Medici dimostrano come la borghesia, anziché distruggere l'aristocrazia terriera, entri a farne parte, conquisti il potere politico e infine diventi insensibile agli ideali e agli interessi borghesi. Un po' ovunque, la borghesia ‛arrivata' sente il fascino dell'antica cultura nobiliare, così come lo sente una certa borghesia intellettuale che teme il confondersi dell'affarismo con il materialismo (poi ‛consumismo') e l'avvento di forme di vita degradate sul piano spirituale.
Ben inteso, la borghesia italiana, dopo la fase trionfale nel Medioevo dei Comuni che assurgono a Signorie, cadde in un lungo sonno dal quale si scosse soltanto al giungere del Risorgimento, quando divenne di moda il modello economico e politico britannico. Il conte di Cavour, anglofilo, fu il più tipico rappresentante di un gruppo di personaggi capaci di fondere le virtù nobiliari e quelle borghesi per tentare un'opera di ammodernamento dell'economia. Nell'Ottocento fu abbastanza frequente, nell'Italia del nord e del centro, il passaggio dalla proprietà terriera alle industrie vicine all'agricoltura (per esempio, l'industria della seta), di qui alla banca e al finanziamento di industrie meno tradizionali, fino all'industria metalmeccanica.
Dal modello britannico ci si scostò tuttavia perché le nostre industrie nascenti presero le distanze dal liberismo cavouriano, per ottenere la protezione pubblica nella fase (interminabile) della loro gracilità rispetto alle industrie straniere ormai adulte. Ma lo stesso modello britannico stava cambiando, nel senso che a Londra, a Oxford, a Cambridge, nella Regione dei laghi, un po' ovunque nell'isola, si faceva strada un sentimento anticapitalistico condiviso da una borghesia ‛arrivata', matura, i cui rampolli forse avvertivano un senso di colpa per le imprese spregiudicate dei padri e dei nonni, o comunque non intendevano proseguirle.
Nella Gran Bretagna della rivoluzione industriale, William Cobbett (1762-1835) fu forse il primo scrittore ad andare oltre la semplice denuncia degli aspetti negativi del capitalismo delle fabbriche, e a proporre un vero e proprio ritorno al passato nell'opera Cottage economy. Il tema ‛reazionario' appassionerà poi Ruskin, Morris e altri letterati ed esteti, fautori di una Old England, che conservasse taluni (molti) valori del feudalesimo, del lavoro rurale e artigianale, della country life (invero una country life alquanto mitizzata; v. Wiener, 1981). Questa reazione anticapitalistica, così diversa da quella di Marx, contribuì, insieme a mille altre cause, a frenare lo spirito industriale della Gran Bretagna meno di un secolo dopo i primi entusiasmi suscitati dalla macchina a vapore di James Watt, e in ultima analisi spostò il baricentro economico del mondo oltre la Manica e oltre l'Atlantico, verso la Germania e poi verso gli Stati Uniti.
È bene ripeterlo: quando una nazione raggiunge un certo livello di benessere materiale è facile che dal suo interno si levino voci di ‛sazietà', le quali, nell'esempio britannico, provennero anche da illustri e influenti economisti, da J. S. Mill a J. M. Keynes, i precursori dell'attuale anticonsumismo. Mill invocò una economia stazionaria, che si occupasse non più di aumentare la produzione, bensì di distribuirla in modo più giusto, nel senso di più equalitario. Analogamente Keynes, un secolo dopo, ritenne prossima e auspicabile una società senza preoccupazioni economiche, senza l'avidità del guadagno, senza lo stress della concorrenza di mercato.
Nelle isole britanniche, dunque, la storia registra sia il sorgere del capitalismo della moderna rivoluzione industriale, sia il sorgere di una collegata controrivoluzione culturale, non vincente, ma frenante. Altre culture, più efficacemente conservatrici, hanno a lungo ritardato, se non addirittura impedito, almeno finora, l'avvento di forme capitalistiche avanzate che si sarebbero potute copiare dalla Gran Bretagna o dall'Occidente in generale. Tali culture hanno spesso rinforzato il loro anticapitalismo con elementi religiosi.
Al riguardo, non sembra molto significativo riferirsi alle note e discutibili tesi di derivazione weberiana, secondo le quali il cattolicesimo, diversamente dal cristianesimo riformato, avrebbe offeso lo spirito capitalistico appunto nell'Europa (e nell'America Latina) prevalentemente papista. Conviene rispondere al quesito se e quanto la religione pesò sull'economia esaminando altre circostanze più radicalmente caratterizzate. Serve allo scopo la guerra civile in Iran, che nel 1979 portò alla fine della monarchia dei Pahlavī e diede il potere al leader degli sciiti, l'ayatollah Khumainī. Si tratta, in questo caso, della rivolta di un ramo dell'islamismo contro tutte le istituzioni occidentali, compreso quel capitalismo industriale che Riẓa Pahlavī provò a imitare per interesse suo e di una scarsa borghesia locale in cerca di modernità. Il fallimento dei modernisti non è isolato nel quadro di un islamismo nelle cui schiere operano rigidi fondamentalisti e tradizionalisti che dell'Occidente sembrano apprezzare solamente la tecnologia bellica, non certo un consumismo giudicato pericoloso per la morale e il vecchio costume.
Più a est dell'Islam, l'immensa Cina sovrappopolata, non cristiana e non islamica, fu per secoli, e anche dopo la rivoluzione industriale britannica, chiusa in se stessa dall'orgoglio e dal timore di contaminazioni, avversa a ogni rinnovamento economico, almeno fino al rovesciamento nel 1911 dell'ultima dinastia imperiale (Manciù) e all'inizio della repubblica. La paura dell'occidentalizzazione, e quindi del capitalismo, si accompagnò spesso alla paura di perdere la propria indipendenza politica e la propria identità storica (culturale e finanche religiosa) per colpa di ‛barbari' prepotenti e invadenti.
Il Giappone, in Oriente, fu il primo a comprendere il paradosso che la miglior difesa dall'Occidente può essere combatterlo con le sue armi, ossia occidentalizzarsi, sia pure con prudenza nazionalistica: questa fu la soluzione Meiji (‟Governo illuminato") del 1868. I frutti, raccolti dapprima in campo militare, furono quasi immediati: il Sol Levante vinse la guerra contro la Cina nel 1895 e quella contro la Russia zarista nel 1905. Dopo di che anche la Cina si avviò, metaforicamente, sia pure con lentezza e riluttanza, verso l'Occidente.
Intanto, proprio in Europa, dopo la prima guerra mondiale si erano formati regimi nuovi, che offrivano varianti del modello occidentale particolarmente appetibili al resto del mondo, perché del capitalismo anglosassone, il più temuto, rifiutavano alcune implicazioni sociali e politiche. Oltre all'Unione Sovietica - la cui economia antiborghese, sottoposta per intero a piani statali di industrializzazione forzata, è dubbio meriti di mantenere il nome di capitalismo - si ebbero l'esperimento fascista nell'Italia di Mussolini e quello nazionalsocialista nella Germania di Hitler. L'uno e l'altro si proposero come terza via tra il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico, una terza via che manteneva una certa dose di proprietà privata del capitale e, pur se in forma ridotta, il mercato di concorrenza. Alla lotta di classe e perfino ai contrasti della libera contrattazione dei salari si sostituiva una pace sociale al servizio dei superiori interessi nazionali. La libertà economica e la libertà politica si restrinsero di pari passo, proprio mentre il capitalismo di stampo anglosassone incappava impreparato nella grande depressione iniziata nel 1929.
Il Giappone (e una parte del mondo islamico) si orientò verso alleanze coi paesi del fascismo e del nazismo; la Cina, tentennando, verso alleanze coi paesi del comunismo, il che tuttavia non la salvò da una invasione militare giapponese nel 1937, che nel 1940 proseguì in Indocina e in altre parti dell'Asia. Nel 1939 la Germania invase la Polonia; nel 1940 invase la Francia e altre parti dell'Europa occidentale, con l'appoggio italiano (in vista di una resa della Gran Bretagna); nel 1941 invase la Russia, non ostante il patto di non aggressione nazi-sovietico, firmato nel 1939. A questo punto la storia del capitalismo si fonde in pieno con la storia della seconda guerra mondiale, della quale tutti conosciamo gli esiti.
I veri vincitori, lo sappiamo, furono gli Stati Uniti, che dal 1944 propiziarono l'adozione del loro modello di capitalismo in Europa e in Asia, ottenendo pieno successo in Germania, in Italia, in Giappone (i paesi vinti), ma non ovviamente in Unione Sovietica e nei paesi da essa controllati in Europa orientale, né in Cina, zone sempre legate al comunismo. Per non ripetere gli errori compiuti dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non chiesero ai vinti onerose riparazioni di guerra, bensì ne aiutarono la ricostruzione economica, pensando giustamente che fosse loro interesse dimostrare a tutti i popoli del pianeta la superiorità, nel procurare benessere, del capitalismo ‛all'americana' (consumistico, liberaldemocratico), non solo rispetto al nazismo e al fascismo, ma anche rispetto al comunismo. La dimostrazione fu in Giappone tanto efficace da rendere tale paese un forte concorrente degli Stati Uniti nel commercio internazionale.
Resero ancor più convincente la dimostrazione le serie difficoltà politico-economiche in cui caddero verso la fine degli anni ottanta la Russia e i suoi satelliti; difficoltà che portarono al rapido dissolvimento dell'Unione Sovietica e alla sua sostituzione con una Comunità di Stati Indipendenti. Finiva nel caos, dopo un percorso fatto di enormi speranze, crudeli sacrifici e devastanti disillusioni, il maggior esperimento ‛scientifico' compiuto dall'umanità per realizzare, in opposizione al capitalismo di mercato, una sorta di ritorno al paradiso terrestre: una società senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo, una società unitaria e liberata progressivamente da tutti i mali dell'economia, compresi il bisogno e il lavoro costrittivo.
L'esperimento sovietico terminò (senza che si possa escludere una sua ripresa in forme variate) all'inizio degli anni novanta con una parziale privatizzazione del capitale produttivo, ottenuta distribuendo gratis ai lavoratori buoni negoziabili e rappresentativi del patrimonio delle aziende. Anche la Cina popolare sembra adottare oggi, cautamente, alcune istituzioni del capitalismo di mercato, ma dando la precedenza alla stabilità politica, in modo da evitare gli inconvenienti in cui è caduta l'ex Unione Sovietica a seguito di mutamenti forse troppo precipitosi. È importante osservare che i paesi capitalistici occidentali non hanno, di regola, usato la violenza, nemmeno nei cosiddetti periodi di guerra fredda, per ottenere la caduta del comunismo all'Est, al quale invece sono stati talvolta forniti aiuti economici nel quadro di misure umanitarie o puramente commerciali.
Rimangono due Europe: quella dell'Est, non più compatta come prima, quando esisteva la ‛cortina di ferro' (l'ex Germania Orientale con capitale a Berlino si è addirittura riunita alla Germania Occidentale con capitale a Bonn); e quella dell'Ovest, quasi per intero tenuta insieme dalla Comunità Economica Europea o Unione Europea che dir si voglia. Nei dieci anni fino al 1994, durante i quali l'unificazione economica dell'Europa occidentale è stata guidata dal francese Jacques Delors, un ex sindacalista socialista, essa ha colorato il capitalismo di varie tinte. A una maggiore libertà di mercato in alcuni settori produttivi, sottoposti a controlli antitrust, si affianca una pletora di regole dirigistiche (le cosiddette direttive) in altri settori, per esempio l'agricoltura.
A parte la tradizionale simpatia francese per il dirigismo alla Colbert, l'azione politica di Delors si direbbe ispirata a due finalità: proteggere l'Europa dall'aggressività commerciale dei capitalismi americano e giapponese; evitare che, all'interno dell'Europa, la robustezza del capitalismo tedesco degeneri in egemonia. Dunque, non ostante l'avvento di grosse imprese multinazionali o transnazionali, il cui raggio d'azione è mondiale, il nazionalismo continua a recitare una parte nel commercio internazionale. La completa libertà di concorrenza, senza interferenze pubbliche di tipo protezionistico, non esiste all'interno di alcuna singola nazione o comunità di nazioni; e tanto meno in ambiti più vasti ed eterogenei.
La fine della guerra fredda tra Ovest ed Est e la fine del colonialismo classico non hanno cancellato le frizioni internazionali. Il problema del Terzo Mondo ha sostituito quello coloniale; un Terzo Mondo talvolta povero fino alla fame, sovrappopolato e indignato contro la ricchezza e il potere dei paesi industrializzati e ricchi. Ma la situazione non è statica, e specialmente nell'area asiatica del Pacifico un buon numero di economie sta trovando la strada per uscire dal sottosviluppo, e in questo caso seguono per lo più l'esempio del Giappone: una occidentalizzazione basata sul capitalismo e rivolta principalmente a esportare nei paesi ricchi merci lavorate (e non solo materie prime) a basso costo, contando sull'ancor misero livello dei salari.
I Giapponesi hanno già superato da tempo la fase dei bassi salari, dopo la quale la concorrenza si vince esclusivamente in virtù di un primato tecnologico e merceologico che permetta di produrre e vendere sui mercati mondiali merci nuove e complesse non subito imitabili dai concorrenti. Stati Uniti, Giappone e Unione Europea devono, in questa prospettiva, puntare più che mai su un capitalismo con un ritmo di innovazione tecnologica e merceologica di massima intensità. La divisione internazionale del lavoro lascerà allora ai paesi in via di sviluppo la possibilità di specializzarsi in merci ad alto contenuto di lavoro.
Complicazioni sorgono dal fatto che gli elevati costi di produzione nei paesi ricchi rischiano di non essere mai compensati dalla maggiore produttività del lavoro, se derivano anche dagli oneri imposti dallo Stato sociale in senso ampio (inclusivi delle spese per l'ambiente). E già oggi si profilano forme inedite di protezionismo dei paesi ricchi, che rifiutano prodotti dei paesi in via di sviluppo accusando questi ultimi di non rispettare norme umanitarie, ecologiche, ecc. Ulteriori complicazioni riguardano le migrazioni, legali o clandestine, di uomini e donne in cerca di lavoro dai paesi poveri, ad alto tasso di natalità, verso i paesi ricchi, a basso tasso di natalità.
Dette migrazioni sconfessano le ipotesi malthusiane per cui il tasso di natalità avrebbe dovuto crescere, non diminuire, col miglioramento delle condizioni di vita. Invece, nei paesi a sviluppo avanzato, Italia compresa, la popolazione al netto degli immigrati tende a farsi stazionaria, con una preponderanza dei vecchi sui giovani, degli improduttivi sui produttivi. Di qui, nuove sfide al capitalismo, che nell'Ottocento si giovò di condizioni demografiche affatto diverse dalle attuali. Lo stesso Stato sociale entra in crisi se deve fornire pensioni e cure sanitarie a una popolazione che mediamente invecchia sempre di più.
2. Profitti e capitalisti
Il profitto costituisce un altro motivo di equivoco sulla natura del capitalismo. Dalla proposizione (esatta, entro certi limiti) che i capitalisti nel mercato cercano il profitto si è tratta la deduzione (errata) che soltanto il sistema capitalistico conosca il profitto in vasta misura. In realtà, qualunque sistema economico, compreso quello comunista, ha inevitabilmente esperienza del profitto, e affermare il contrario è contentarsi di restare alla superficie delle cose. Caduta irrimediabilmente la teoria del valore-lavoro di Marx, e caduta da ultimo anche a opera di economisti di sinistra come Piero Sraffa (1898-1983); avendo rinunciato a identificare nel lavoro l'unica ‟sostanza valorificante", il profitto non può più essere ridotto a inevitabile furto perpetrato dai capitalisti sfruttatori a danno dei lavoratori dipendenti. Se così fosse (ma non è), avrebbero ragione coloro i quali vedono nel profitto un reddito destinato a scomparire là dove, per ipotesi, scompaia lo ‟sfruttamento", cioè appunto nel comunismo.
Così non è, perché invece il profitto esiste sempre, positivo, nullo o negativo, ogni volta che la produzione esige che qualcuno anticipi dei costi in attesa di ricavi futuri e incerti. E questo è un requisito tecnico universale, la produzione non essendo mai istantanea: per esempio, il forno da pane deve precedere, come fattore produttivo disponibile, il momento della cottura. Ebbene, il profitto, calcolabile soltanto ex post, a consuntivo, è semplicemente la differenza tra i ricavi effettivi e i costi, i quali ricavi effettivi, è ovvio, possono essere diversissimi da quelli sperati nel momento dell'anticipazione dei costi. Il grano che si semina è un costo anticipato, con la speranza che, mesi dopo, si ricavi un raccolto di grano molto superiore al seme; e l'uso del raccolto presuppone che già esistano il mulino e il forno. Però la quantità del ricavo sperato è talvolta ridotta da accidenti o vere e proprie catastrofi, contro le quali non è possibile assicurarsi.
Insomma, chi anticipa, chiunque egli sia, corre rischi che è difficile o impossibile scansare e che sono fastidiosi. Nel capitalismo, chi anticipa è di solito un individuo volontario, un capitalista che anticipa per sé o a favore di altri. Anticipa per sé, ad esempio, un coltivatore diretto che risparmi una parte del suo grano, ossia non lo consumi subito per la sua alimentazione, ma lo conservi per seminarlo con le sue mani. Anticipa per gli altri, sempre ad esempio, l'agricoltore che compra il seme e paga il salario del seminatore. Chi anticipa per gli altri rende un favore agli altri: il venditore del seme ne riceve il valore immediatamente, senza attendere il prossimo raccolto; il seminatore riceve immediatamente il salario col quale si procura il pane, senza attendere che maturi quanto egli ha seminato. In cambio, il capitalista farà suoi il ricavo lordo e il profitto del raccolto a venire, se esso verrà e nella misura in cui verrà.
Una economia collettivistica ha tale nome perché è la collettività intera a effettuare, volente o nolente, le anticipazioni e, secondo un piano politico, a sopportarne i costi e goderne i ricavi, compreso il profitto (che però non è necessariamente positivo). Il piano è più o meno democratico quanto maggiore o minore è la partecipazione della collettività a prepararlo e realizzarlo. Ma l'esperienza dell'Unione Sovietica insegna che specialmente un piano centralizzato ha complessità tecniche che restringono fin quasi ad abolirla la partecipazione diretta del popolo, cioè degli anticipatori. I quali di solito ignorano perfino con quale quota individuale contribuiscono agli anticipi (all'accumulazione del capitale, con sacrificio dei propri consumi immediati: l'accumulazione è decisa dallo Stato, ma il sacrificio dei consumi è di persone in carne e ossa) e con quale profitto sono compensati, se lo sono. Se si ama la bizzarria, si può dire che l'Unione Sovietica aveva relativamente più capitalisti degli Stati Uniti, ma capitalisti senza poteri, finché la Russia non ha cominciato le privatizzazioni e la consegna ai lavoratori di buoni (di ‛azioni') gratuiti e negoziabili.
Marx andò molto vicino a comprendere la vera natura del profitto, o forse la comprese in pieno senza però trarne le conseguenze che avrebbero distrutto la sua teoria del valore-lavoro. In Lavoro salariato e capitale si legge (v. Marx 1849; tr. it., pp. 31 e 38): ‟Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro che egli deriverà dalla tela, ma con denaro di anticipo [...]. È possibile che il capitalista non trovi nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del tessitore".
Pertanto, il tessitore riceve un servizio dal capitalista, proprio come lo riceve chi incassi immediatamente il valore di una cambiale con scadenza futura e firma di un debitore non si sa quanto solvibile. Una banca può anticipare la somma, ma nessuna banca anticiperà l'intera somma; ogni banca tratterrà per sé uno sconto, con la speranza di coprire il suo rischio e guadagnare per il servizio reso al creditore impaziente di incassare. Analogamente, l'industriale di Marx, che rende il servizio di anticipazione all'operaio tessitore, in cambio si aspetta un profitto, ma è il mercato a decidere, con tutti gli accidenti che possono registrarsi. In un mercato ‛ideale' (un mercato reale tutt'al più lo approssima), il profitto dovrebbe essere il voto, che gli utilizzatori della produzione, cioè infine le famiglie consumatrici, danno ai singoli produttori in concorrenza: alto gradimento, alto voto, alto profitto; o al contrario, basso gradimento, basso voto, profitto basso, nullo o negativo (perdita). Questo va detto, ben inteso, lasciando un posto alla fortuna.
In tal senso ha ragione Giovanni Sartori quando scrive che ‟il mercato è una entità crudele" e che ‟la sua legge è quella del successo del più capace [o del più fortunato]"; ma ‟la crudeltà del mercato è una crudeltà sociale", poiché ‟il mercato è cieco di fronte agli individui". Esso ‟è invece una spietata macchina al servizio della società" (v. Sartori, 19932, pp. 225-226). Elimina, o dovrebbe eliminare, i produttori peggiori, e anche semplicemente gli sfortunati, nell'interesse dei consumatori. Se non che la concorrenza libera e leale dei produttori è in pratica una rarità: il liberista deve contentarsi di gare imperfette per quanto concerne sia il numero dei partecipanti ammessi, sia i criteri per distinguere tra vincitori e vinti.
Contro la sportività della competizione nelle economie di mercato si coalizzano e intervengono spesso capitalisti, politici e sindacalisti, giustificandosi con l'opportunità di difendere l'occupazione delle maestranze innocenti presso i produttori in pericolo, o con altri argomenti. Il concetto di ‛diritto al lavoro' ha fatto strada nel capitalismo moderno, a danno del dovere di lavorare nel migliore dei modi per produrre cose utili agli altri (i lavoratori pagati a lungo per produrre cose inutili finiscono col diventare, anche se innocenti, parassiti sociali). I capitalisti ‛in attacco' hanno però atteggiamenti ben diversi da quelli ‛in difesa': i primi auspicano la libertà di gareggiare tanto quanto i secondi la aborrono. E quando l'attacco agli avversari e rivali è portato con l'arma di potenti innovazioni tecnologiche e merceologiche, le probabilità di successo degli attaccanti sono elevate nel lungo periodo, benché la dimensione iniziale degli attaccanti possa essere piccola rispetto a quella degli attaccati.
È la lotta del nuovo contro il vecchio. Schumpeter ha insegnato quanto Marx aveva già intravisto, ossia che il capitalismo di mercato ha una missione di distruzione creatrice, distruzione del vecchio e creazione del nuovo in nome del progresso. Ma la distruzione del vecchio non è mai indolore e senza resistenze conservatrici. Per contro, la creazione del nuovo è spinta non soltanto dalla ricerca del profitto, bensì pure, talvolta, dalla frenesia umana (borghese) del nuovo per il nuovo; frenesia più vibrante in certi popoli e in certe epoche, meno vibrante, se non assente, in civiltà e periodi statici. Le economie non di mercato tendono a essere meno progressive, perché il profitto, sebbene presente, è calcolato e distribuito in modo politico, con prezzi politici, e cioè non automaticamente a favore degli innovatori di successo, i quali magari mancano addirittura della libertà di mettere alla prova le loro idee; e perché la stabilità dell'occupazione fa premio sulla ricerca dell'alta produttività del lavoro e degli alti salari.
Pareto amava illustrare questo punto citando il caso di Henry Bessemer (1813-1898), inventore inglese di un nuovo processo siderurgico che gli esperti bocciarono ripetutamente. Per sua fortuna, la Gran Bretagna, in quanto economia libera, concesse a Bessemer di costituire una propria acciaieria e così dimostrare che, se gli esperti gli davano torto, il mercato gli dava ragione. Casi del genere sono frequenti nella storia economica. All'inizio del nostro secolo, l'automobile a benzina era in competizione con l'auto elettrica e l'auto a vapore, con non pochi esperti a favore di quest'ultima (forse perché il vapore dominava nel settore ferroviario). Tali esperti si sbagliavano, come oggi tutti sappiamo ma come allora non si sapeva. L'americano Lee De Forest, che contribuì a realizzare la televisione, venne condannato dagli esperti e dai tribunali quale truffatore: prometteva l'‛impossibile', la visione a distanza.
Una economia pianificata da esperti risponde a una concezione della vita opposta a quella della teoria del capitalismo di mercato, pur quando si ammettesse la partecipazione al profitto degli esperti. Affidare l'economia nazionale al ‛miglior' progetto dei ‛migliori' esperti implica credere che il futuro sia costruibile, in modo razionale, e dominabile dalla nostra volontà. La filosofia del libero mercato è affatto diversa, e Hayek è stato chiaro in proposito: ‟Se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà [...]. Ma siccome ogni individuo sa poco e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo" (v. Hayek, 1960; tr. it., p. 48).
Ciò non assicura alcuna marcia verso un ‛ottimo': ‟In quanto scoperta di cose ancora ignote, il progresso ha conseguenze necessariamente imprevedibili [...]. La mente umana non può prevedere né deliberatamente forgiare il proprio futuro. Le sue conquiste consistono nello scoprire dove ha sbagliato" (ibid., pp. 60-61). Non assicura nemmeno il profitto al tecnico che abbia fornito una innovazione utile, perché dell'utilità bisogna convincere il mercato, solitamente con l'ausilio di un abile imprenditore capitalista. Il tecnico James Watt si alleò con l'imprenditore Matthew Boulton per il lancio della macchina a vapore. Rari sono gli inventori alla Edison, che sono inventori-imprenditori. A volte il profitto non arriva perché l'innovazione è utile ma eccessivamente precoce: Charles Goodyear scoprì (casualmente) i vantaggi della vulcanizzazione della gomma nel 1839, ma finì i suoi giorni in miseria; egli avrebbe dovuto attendere la fine del secolo e l'avvento del pneumatico per automobili per poter sfruttare convenientemente la sua scoperta. (Per i rapporti tra tecnici, managers, imprenditori e politici, v. anche Salsano, 1987).
I diritti d'autore hanno in genere la qualità del profitto e insegnano, fra l'altro, che un libro o una musica lodata dalla critica può rendere molto meno di un'opera ‛volgare'. Ciò che piace al volgo, alla folla, alla moltitudine ha successo nel capitalismo consumistico, il quale, dunque, ha un lato ‛democratico' irritante per i dotati di gusti elitari. Tuttavia, il mercato è pronto a soddisfare anche i desideri dei raffinati, purché costoro siano disposti a pagare il costo o meglio il valore di mercato di quanto domandano, salvo che non lo paghi per essi un mecenate pubblico o privato. Il mercato vende addirittura libri di propaganda contro il mercato, l'attrazione dei capitalisti verso il profitto superando spesso la loro eventuale fedeltà al sistema economico in cui operano.
Questo non autorizza però a concludere che il movente dei capitalisti (categoria d'altronde assai eterogenea) sia il lucro monetario e nient'altro. Il profitto è indispensabile per finanziare nel modo più comodo lo sviluppo delle imprese di successo, ma il fine dello sviluppo è anche extra-economico, se si bada al potere per il potere, alla notorietà, alla soddisfazione delle proprie ambizioni e dell'amor proprio, al piacere di realizzare un'opera prestigiosa. C'è chi innova per il piacere di innovare e gareggia per il piacere di gareggiare. Al limite, è concepibile un capitalismo di mercato che continui a funzionare sebbene la media generale del profitto sia negativa (la perdita sia cioè più probabile del guadagno): basta che un certo numero di capitalisti mantenga la speranza di fare meglio della media. Non diverso è il perdurare dei concorsi sportivi, come in Italia il totocalcio, in cui notoriamente chi li organizza ha la certezza di guadagnare alle spalle degli scommettitori che seguitano a scommettere in quanto speranzosi, non ingenui.
La legge marxista della caduta del tasso di profitto fu giustamente definita dal suo stesso autore legge ‟tendenziale", quindi di scarso interesse scientifico, suscettibile di essere smentita da forze specifiche in contrasto con la tendenza generale. Difettano le statistiche storiche sul tasso di profitto nei maggiori paesi capitalistici: è una grandezza difficile da misurare ed estremamente oscillante nel tempo e nello spazio, per cause congiunturali o d'altro tipo. Non pare tuttavia che il profitto sia venuto a mancare con modalità tali da compromettere la sopravvivenza del capitalismo, là dove esso è ben impiantato: non ci sono sintomi evidenti di una sua prossima morte naturale (la soppressione violenta, è ovvio, non si può mai escludere).
La grande crisi economica del 1929-1936 indusse alcuni a identificarla quale fase finale del capitalismo di tipo anglosassone. Crisi del genere (deflazionistiche) sempre più gravi e frequenti avrebbero dovuto caratterizzare il capitalismo maturo e portarlo a uno stadio terminale, in cui la domanda effettiva di prodotti sul mercato sarebbe stata cronicamente inferiore alla capacità produttiva dei capitalisti privati. Keynes delineò i tratti di uno pseudocapitalismo futuro regolato da interventi pubblici sia sulla domanda sia sull'offerta, così che il rischio imprenditoriale si riducesse al minimo e il profitto fosse sostituito da una mera retribuzione del lavoro dirigenziale e organizzativo in una economia prevalentemente stazionaria.
Altri uomini di cultura, fra i quali di recente il filosofo Emanuele Severino, rivisitano i ricorrenti timori malthusiani per concludere che il capitalismo è una forma di produzione ‟in procinto di avviare un processo irreversibile di distruzione della Terra e di se stessa" (v. Severino, 1993, p. 78). E ancora: ‟Il capitalismo sta distruggendo se stesso. Sta riuscendo a fare quello che il comunismo, la democrazia, il cristianesimo non sono riusciti e non riescono a compiere [...]. Il capitalismo è costretto ad assumere come scopo primario non più il profitto, ma la continua innovazione tecnologica che ha il compito di garantirlo. Insensibilmente si sta andando verso un'epoca in cui il capitalismo, non avendo più come scopo primario il profitto, è capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è tecnocrazia" (ibid., pp. 65-67).
In effetti, per ora, non vi sono prove storiche irrefutabili che il capitalismo, maturando, si impaludi vieppiù in crisi deflazionistiche o di ristagno della domanda; al contrario, l'inflazione è il suo stato normale. Può darsi che proprio l'aumento della spesa pubblica propiziato da Keynes abbia salvato il capitalismo, come qualche economista sostiene; ma è certo che Keynes sottovalutò (magari volutamente) la capacità dell'innovazione, nel campo dei beni di consumo, di creare, con l'appoggio della pubblicità commerciale, nuova domanda effettiva. Quanto a Severino, gli è stato ribattuto che l'innovazione trasforma la Terra, non la finisce. Insieme ai beni di consumo prima inesistenti, si inventano le risorse naturali per produrli, risorse prima sconosciute o inservibili. Nella prospettiva capitalistica le risorse naturali non termineranno mai, se non terminerà l'attitudine della nostra intelligenza a render utile quanto non lo era.
Nessuno nega, s'intende, l'esistenza di problemi ecologici e la necessità urgente di una tecnologia che ne tenga conto e contribuisca a risolverli. Se in tal modo avremo una tecnocrazia, anziché un capitalismo, è questione solo definitoria; ma il capitalismo che conosciamo è sempre andato, fin dalle origini, sottobraccio a forme tecnocratiche. Le quali, se fossero tanto contrastanti col capitalismo quanto presume Severino, ora non porterebbero al declino di tale sistema economico, giacché non gli avrebbero nemmeno consentito di nascere.
3. L'organizzazione capitalistica
Il capitalismo ha affrontato e per lo più risolto formidabili problemi organizzativi, i quali si manifestarono già nelle fasi iniziali dell'evoluzione del sistema e crebbero di numero e di importanza col passar del tempo. Adam Smith li teorizzò all'alba della rivoluzione industriale distinguendo tra aumento delle dimensioni del mercato e aumento delle dimensioni di impresa. Egli vedeva con favore l'aumento delle dimensioni del mercato, premessa per migliorare la divisione del lavoro e raccogliere i frutti della specializzazione. L'economista scozzese era invece sospettoso verso l'ampliamento delle dimensioni d'impresa, per timore che si formassero monopoli, concentrazioni eccessive di potere e organismi inefficienti, in quanto burocratizzati.
Quest'ultima preoccupazione fu pure, successivamente, di Schumpeter, che giunse tanto in là da prevedere un tramonto del capitalismo imputabile al moltiplicarsi di imprese-dinosauro, troppo pesanti e lente nei riflessi nervosi, troppo vaste perché ‟l'occhio del padrone" potesse controllarle. Schumpeter vide inevitabile un inasprimento dei conflitti di interesse tra proprietà e direzione, tra azionisti e managers; ed egli non fu il solo a trattare il tema, che anzi ebbe un lungo periodo di moda durante il quale fu voltato e rivoltato (basti pensare a The managerial revolution di James Burnham - v., 1941 - ristampato varie volte).
L'aumento delle dimensioni d'impresa è effettivamente avvenuto con lo sviluppo capitalistico e non solo per la ragione già osservata da Marx ed esposta con la pittoresca espressione: ‟Espropriazione del capitalista da parte del capitalista". Egli riteneva che i capitali più grossi avrebbero sconfitto quelli minori, nella gara concorrenziale: la maggiore scala della produzione avrebbe ridotto i costi unitari rendendo più a buon mercato le merci. Questo è vero, ma è altrettanto vero che i vantaggi di scala hanno un limite, variabile da caso a caso, oltre il quale possono trasformarsi in svantaggi. Quanto alla gara concorrenziale, accade talvolta (per esempio nel mercato dell'automobile) che essa inizi con una moltitudine di produttori, i quali sono selezionati nel giro di anni o di decenni finché poche grosse imprese sopravvivono sul mercato (oligopolio), o, raramente, una sola (monopolio). Se non che la gara non termina mai, e agli oligopolisti e al monopolista difficilmente è consentito dormire sugli allori.
La presenza di numerose piccole imprese in un settore produttivo indica di solito l'esistenza di un mercato ‛giovane', fondato su novità tecnologiche e merceologiche recenti o ancora sperimentali. L'oligopolio o il monopolio (temporaneo) è invece tipico di un mercato ‛maturo'. Si badi che, in assenza di protezioni legali, il monopolio è quasi sempre temporaneo e mai assoluto, nel senso che se esiste in un settore non esiste in altri settori vicini e affini. Per spiegarci meglio: un ipotetico monopolio del teatro sarebbe stato infranto dall'avvento della cinematografia, e un ipotetico monopolio cinematografico avrebbe subito la stessa fine con l'avvento della televisione. Un monopolio non dura, salvo che esso rinunci a sfruttare la sua posizione. Il cartello mondiale della dinamite, fondato da Alfred Nobel, durò fin dopo la prima guerra mondiale (quando ormai i brevetti erano decaduti da un pezzo), perché aveva come regola di ridurre il prezzo di vendita a ogni sostanziale incremento della domanda. Du Pont, che era membro del cartello, applicò lo stesso criterio per altri suoi prodotti brevettati. Nel 1920 l'Allied Chemical sembrava invincibile negli Stati Uniti, invece la Du Pont la sorpassò.
Non è comunque sempre vero che nel mercato i pesci grossi mangiano i pesci piccoli. Gli esempi storici del contrario sono innumerevoli e testimoniati da una estesa letteratura (v., ad es., Drucker, 1985). Non solo molte grandi imprese si servono di numerosi piccoli e medi fornitori indipendenti (il cosiddetto ‛indotto'), ma accade che piccole e medie imprese, più agili, battano le grandi rivali; abbastanza di recente, quando era diffusa l'opinione che il futuro fosse delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i cosiddetti micro-mills hanno dimostrato il contrario: le piccole imprese riescono infatti ad accrescere la produzione grazie al vantaggio di poter essere immediatamente sfruttate al cento per cento, contrariamente alle nuove grosse unità poco utilizzate per anni e anni.
Nel settore modernissimo dell'elettronica, alcune grosse società elettriche dal 1949 al 1955 cercarono di produrre computers in vari paesi sviluppati: nel 1970, tuttavia, erano quasi tutte fuori dal mercato, a vantaggio di produttori diversi che nel 1949 non esistevano o erano di dimensioni relativamente ridotte. Nel 1949 nessuno avrebbe previsto che l'IBM si sarebbe imposta su concorrenti che, all'epoca, avevano dimensioni colossali al suo confronto. Né era prevedibile che il personal computer della Apple avrebbe avuto origine in un garage per iniziativa di due tecnici. Né ancora che un giovane americano di nome Bill Gates, nato nel 1956, a sedici anni avrebbe fondato a Seattle una azienda destinata a diventare la Microsoft, la quale, grazie alle invenzioni elettroniche del fondatore, occupava, nel 1994, circa 52.000 dipendenti distribuiti in 52 paesi.
D'altronde, le dimensioni d'impresa vanno giudicate non in assoluto, bensì in rapporto al progresso dei metodi e dei mezzi organizzativi, nonché in rapporto alle dimensioni del mercato globale. Proprio l'elettronica consente oggi di gestire con semplicità complessi sistemi di telecomunicazione e di elaborazione dei dati, che aumentano il potere degli organizzatori. ‛Miracolosa' può essere detta l'organizzazione dell'Impero romano, se si bada ai mezzi disponibili allora; adesso, senza ‛miracoli', si può fare molto di più con meno fatica. Un esempio: la Swissair ha trasferito a Nuova Delhi, in India, gran parte dell'amministrazione, per risparmiare sui costi; l'elettronica pone l'India a portata di mano (anche se ciò non assicura che sia sempre evitabile la formazione di una burocrazia elettronica tanto ingombrante quanto quella delle mezze maniche di una volta).
Maggiori dimensioni d'impresa sono poi suggerite dalla opportunità di mantenere quanto meno costante la quota di mercato di ogni singolo produttore che si trovi di fronte a un mercato in espansione. La rapidità di questa espansione può consigliare che le dimensioni d'impresa crescano mediante concentrazioni e fusioni di diverse aziende. Va ricordato che l'ampliamento di un settore di mercato non è, di solito, un mero fenomeno quantitativo: avvengono simultaneamente cambiamenti nella composizione qualitativa del settore, o si ha la nascita di nuovi settori, perché migliora la divisione del lavoro e si propizia la nascita di nuove specializzazioni. Quindi si fa più comune l'impresa che opera in più settori, anche non strettamente affini, con diverse quote di mercato in ognuno di essi. In alcuni settori di alta specializzazione la quota di mercato (mercato parziale), può salire verso il 100% senza che questo costituisca un fatto abnorme. (Non ci occupiamo della questione statistica di come misurare le dimensioni d'impresa: numero di occupati, fatturato, valore aggiunto, ecc.).
Si è molto discusso se il progresso tecnologico e merceologico sia favorito o no dalle grandi dimensioni d'impresa. In parte abbiamo già preso posizione in materia: non vi sono regole sicure. Certo, le grandi dimensioni d'impresa consentono l'esistenza di grandi laboratori di ricerca; tuttavia, l'invenzione o la scoperta nasce pur sempre nel cervello di un singolo individuo, e non è detto che costui tragga vantaggio dall'operare in squadra. Peraltro, raramente il merito di una scoperta o invenzione è attribuibile per intero a un unico individuo: ogni studioso si avvale del lavoro di innumerevoli predecessori; ma è possibile e non raro che il ‛di più', il breve o lungo passo avanti, sia opera individuale di un ricercatore.
Va da sé che il ricercatore talvolta agisce come privato, talaltra agisce in collegamento con strutture pubbliche. La ricerca cosiddetta di base, particolarmente costosa e non prossima alle applicazioni redditizie, viene compiuta, anche nei paesi capitalistici, con fondi sovente pubblici. Per contro, invenzioni o scoperte private divengono presto di dominio pubblico, ossia la collettività ne usufruisce a un prezzo modico o nullo. I brevetti costituiscono di regola un ostacolo minimo e di breve periodo alla diffusione del progresso, anche in assenza di illegalità come quelle connesse allo spionaggio industriale e scientifico.
La Gran Bretagna della prima rivoluzione industriale cercò di proibire l'esportazione delle nuove macchine o dei loro disegni tecnici, ma il divieto ebbe scarsa efficacia. Furono gli stessi industriali britannici a infrangere la proibizione legale, trovando conveniente la vendita della loro tecnologia agli stranieri. Lo riconobbe ben presto lo stesso Friedrich Engels (cit. in Landes, 1993, p. 9): ‟L'Inghilterra ha inventato la macchina a vapore, l'Inghilterra ha costruito le ferrovie, due cose che, crediamo, valgono un bel po' di idee. Ebbene, l'Inghilterra ha fatto queste invenzioni per se stessa o per il mondo? [...] Chi ha diffuso la civiltà in America, in Asia, in Africa e in Australia, se non l'Inghilterra?".
I capitalisti inglesi finanziarono la diffusione planetaria delle loro novità, e così avvenne dopo per altre novità a opera dei capitalisti tedeschi, americani e via dicendo. Perfino l'industrializzazione dell'Unione Sovietica si servì ampiamente dell'apporto finanziario e tecnico del capitalismo occidentale. Se in alcune parti della terra il seme della rivoluzione industriale non attecchì, fu per anomalie locali da analizzare a una a una. La vocazione planetaria del capitalismo precede addirittura la rivoluzione industriale, ed è già manifesta all'epoca delle scoperte geografiche, che non furono ispirate esclusivamente da un amore della conoscenza e dell'avventura del tutto privo di componenti economiche.
Gli storici (ad es., Fernand Braudel e Immanuel Wallerstein) parlano comunemente della formazione, a partire almeno dal XVI secolo, di una economia-mondo capitalistica; che per Lewis Mumford diventa una megamacchina tanto possente da stritolare ovunque uomini e culture. Questo non va inteso nel senso, ovviamente errato, che i caratteri dell'economia siano ormai uniformi in tutto il mondo, ma piuttosto nel senso che esiste un centro economico (mobile), una semiperiferia e una periferia estesa spesso all'intero pianeta. Al concetto di economia-mondo, Wallerstein avvicina quello di impero-mondo, che ne sarebbe l'equivalente politico: ‟La dinamica della concentrazione del potere militare ha portato a ricorrenti tentativi di trasformare il sistema interstatale in un impero-mondo. Se questi tentativi non hanno mai avuto successo nel capitalismo storico, ciò è avvenuto perché la base strutturale del sistema economico e gli interessi dichiarati dei maggiori accumulatori di capitale si sono opposti con grande energia a una simile trasformazione dell'economia-mondo in un impero-mondo" (v. Wallerstein, 1983; tr. it., p. 43). Gli esperimenti della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite presentano luci e ombre, ma forse un bilancio realistico, se si riuscisse a tracciarlo, non entusiasmerebbe nessuno.
Più largamente accettato è il giudizio positivo su organizzazioni economiche internazionali, come la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la FAO (Food and Agriculture Organization), ecc., in parte dipendenti dalle Nazioni Unite, ma con forte influsso americano. Abbiamo poi un insieme di organizzazioni non mondiali, bensì di tipo continentale o subcontinentale. Vengono subito in mente la Comunità Economica Europea (poi Unione Europea), nonché l'Organizzazione degli Stati Americani, il NAFTA (North American Free Trade Agreement), il Patto Andino, l'APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), il Patto di Varsavia (più politico che economico), e così via.
Il fallimento del tentativo di costituire presso le Nazioni Unite un ente preposto al commercio mondiale (se si esclude la recentissima nascita della WTO, World Trade Organization) indusse un gruppo di 23 paesi a firmare nel 1947 il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Esso opera mediante periodiche conferenze fra i paesi aderenti, l'ultima delle quali - il cosiddetto Uruguay Round - si è protratta dal 1986 al 1994: la lunga durata è un indice dei contrasti esistenti in fatto di libertà del commercio internazionale. L'Uruguay Round avrebbe dovuto concludersi nel 1990: i tre o quattro anni di ritardo nella firma degli accordi sono in parte imputabili alla resistenza della Comunità Economica Europea verso certe posizioni liberoscambiste americane.
L'ostilità al libero scambio internazionale è massima nel settore agricolo, che tuttavia nei paesi industrializzati pare essere ormai un settore di minima importanza: il paradosso merita una riflessione. L'agricoltura precapitalistica, molto poco produttiva, occupava il 60 o 70% delle forze di lavoro esistenti nell'economia. La scarsissima produttività agricola dipendeva dal dominio di un fattore naturale, la terra, su cui era scarso l'investimento di capitale. Con il passaggio, lento ma inesorabile, dall'economia della terra all'economia del capitale, la produttività agricola è salita tanto che, per esempio negli Stati Uniti, la percentuale delle forze di lavoro occupate in agricoltura è scesa verso il livello del 3%. Ciò significa, nel caso specifico, che una agricoltura capitalistica è capace di nutrire l'intera popolazione di un paese (e inoltre di esportare all'estero grandi quantitativi di cibo e di altri prodotti agricoli) occupando nel settore appena il 3% delle forze di lavoro.
Vi è stato ovunque, ma specialmente negli Stati Uniti, un imponente deflusso di lavoratori dall'agricoltura verso l'industria e il settore terziario dei servizi. Non di meno, l'attività dell'agricoltura capitalistica è di regola minacciata dalla sovrapproduzione, non dalla scarsezza, anche perché se il progresso tecnologico in questo settore è rapido, il progresso merceologico lo è molto meno. La scarsezza di cibo nel mondo si è ridotta, non ostante l'aumento della popolazione terrestre, a poche zone in cui l'agricoltura capitalistica non esiste, nelle quali la distribuzione degli alimenti, che si possono importare dai paesi in cui l'agricoltura capitalistica esiste, incontra vari ostacoli.
La regola, dunque, è la sovrapproduzione, che minaccia di far crollare i prezzi agricoli e di danneggiare gli agricoltori superstiti. In particolare, gli agricoltori europei, se non fossero protetti dai loro governi, non sarebbero in grado di resistere alla concorrenza di molti prodotti dell'America settentrionale e meridionale, che traverserebbero l'Atlantico a basso costo grazie anche al progresso dei trasporti. Ma la protezione è concessa - e anzi per i paesi aderenti alla Comunità Economica Europea (UE) essa è organizzata in base a fini politici e sociali, con una razionalità a dir poco dubbia - a livello comunitario.
Nella Comunità si è giunti a sovvenzionare con denaro pubblico la distruzione dei raccolti per mantenere alti i prezzi di ricavo degli agricoltori, con inevitabile danno per i consumatori che si trovano costretti a sopportare un costo della vita più pesante. Ma nessun paese sembra disposto a rinunciare del tutto alla propria agricoltura, ancorché essa sia antieconomica; mentre questo settore, sebbene inserito in un sistema capitalistico, conserva proprietà intrinseche di debolezza rispetto all'industria e problemi organizzativi suoi propri. Così, tanto nelle terre migliori come in quelle meno produttive, i redditi netti dell'agricoltura risultano ben più oscillanti, irregolari e rischiosi di quelli industriali, almeno in assenza di interventi pubblici stabilizzatori.
Infatti, l'agricoltura incontra grosse difficoltà ad adeguare l'offerta alla domanda. Non solo l'offerta di prodotti agricoli tende a scavalcare una domanda pigra e riluttante; essa è inoltre una offerta perturbata da fattori incontrollabili, che vanno dalle bizzarrie del tempo atmosferico alle imprevedibili epidemie delle piante e degli animali. L'industria è meno esposta a simili disturbi aleatori, ed è meglio capace di prestabilire la misura dell'offerta, variandola a piacere. Seminato il grano, l'agricoltore non può più, per mesi e mesi, cambiare il programma di produzione; piantato il frutteto, l'agricoltore non può più cambiare quel programma per anni e anni. L'industriale, invece, può sovente cambiarlo ogni giorno, può per esempio aumentare subito la produzione allungando la giornata lavorativa, chiedendo lavoro straordinario ai suoi operai.
E - fatto ancor più grave - un aratro rimane ozioso per gran parte del tempo, un altoforno siderurgico funziona in continuazione; il capitale cambia radicalmente il suo grado di sfruttabilità. Aggiungiamo che un bracciante agricolo si ferma quando piove, un operaio in fabbrica no. Ma è inutile continuare l'elenco di ciò che è sotto gli occhi di tutti: conviene piuttosto indagare il motivo o i motivi per cui l'agricoltura non scarica (senza il soccorso pubblico) sui consumatori dei suoi prodotti i costi degli inconvenienti che le sono specifici. Perché li soffre e non li trasferisce? Non ci vuole molto a intuire (v. Ricossa, 1984-1985) che non li trasferisce perché di regola i mercati agrari sono ‛mercati del compratore', non ‛mercati del venditore', almeno negli anni normali e appunto in assenza di interventi pubblici a protezione del venditore.
I mercati agrari rientrano tipicamente nella categoria della ‛concorrenza atomistica'; i mercati industriali rientrano per lo più in quella della ‛concorrenza oligopolistica'. Si tratta di due regimi affatto diversi. L'offerta di automobili segue da vicino gli alti e bassi congiunturali della domanda di automobili; alti e bassi che non sono così marcati nel caso della domanda di pane e di grano. Tuttavia, i prezzi delle automobili sono assai più stabili del prezzo del grano, mentre il prezzo del pane, prodotto per metà agrario e per metà industriale, sarebbe una via di mezzo se non fosse talvolta amministrato dalle pubbliche autorità. Il fatto è che i singoli produttori di automobili, essendo oligopolisti, stabiliscono ciascuno il prezzo della propria marca, e non lo cambiano se non ne vedono la convenienza. Non basta uno squilibrio tra domanda e offerta per modificare il prezzo delle automobili: quello squilibrio si può fronteggiare in altri e più facili modi, per esempio correggendo subito la produzione, o stimolando la domanda con la pubblicità commerciale, o ritoccando la qualità del prodotto. Nessuna di queste opportunità è aperta ai produttori di grano, che non possono correggere subito la produzione né in quantità né in qualità, e che sanno quanto inutile sia reclamizzare il loro prodotto.
Gli agricoltori che offrono prodotti non di marca sono in concorrenza atomistica perché ciascuno di essi è troppo piccolo per controllare i prezzi di merci indifferenziate, fatte più come vuole la natura che come vogliono gli uomini. Dunque ogni squilibrio, anche minimo, tra la domanda complessiva e l'offerta complessiva si ripercuote immediatamente e inevitabilmente sui prezzi, alterandoli ogni giorno, talvolta ogni ora. E l'alterazione deve essere molto ampia, per cercare di riportare in equilibrio il mercato, giacché la domanda di prodotti agricoli è quasi sempre rigida: bassa è la sua elasticità rispetto al reddito, e bassa è anche rispetto ai prezzi. Non ci mettiamo a mangiare molto più pane semplicemente perché il suo prezzo, un giorno, ribassa; o perché diventiamo più ricchi.
Nemmeno in America l'aumento del capitale per addetto ha fatto il miracolo di cambiare l'intima e gracile costituzione dell'agricoltura. Sebbene il progresso merceologico nell'industria alimentare abbia trovato nuovi modi di presentare al consumatore vecchie materie prime (si pensi per esempio ai corn flakes), il mercato non registra uno sviluppo soddisfacente per i produttori. Rimane la scomoda necessità di aumentare di continuo le esportazioni, se si vuole espandere la produzione agraria, sperando che altri paesi siano incapaci di raggiungere l'autosufficienza per i cereali, o altri prodotti, o non si pongano tale obiettivo. Rimane la tendenza al rallentamento della crescita demografica, fenomeno che comincia a manifestarsi fin nel Terzo Mondo. Rimane lo svantaggio di operare in concorrenza atomistica benché si moltiplichino gli sforzi per creare prodotti agrari di marca (per esempio, prodotti ‛doc'), o per costituire cooperative e associazioni di agricoltori.
Le strutturali debolezze organizzative dell'agricoltura si ripetono quasi identiche in altri settori che forniscono materie prime naturali: fibre tessili, gomma, metalli, e così via. Anzi, qui si aggiungono almeno altre due complicazioni che dipendono dal progresso tecnologico, il quale ‛alleggerisce' i prodotti finiti, e sostituisce alle risorse naturali risorse artificiali e sintetiche. Alleggerire i prodotti industriali significa ridurre il costo delle materie prime in proporzione al costo complessivo. Un'automobile del nostro tempo è più leggera, in tutti i sensi, di un'automobile all'inizio del secolo: pesa meno e il suo valore è costituito da una minore percentuale del costo delle materie prime.
Una materia prima naturale fa eccezione alla regola, ma si tratta dell'intelligenza umana, cioè di qualcosa di inconfondibile col resto, una categoria decisamente a parte. In quasi tutti i prodotti cresce la proporzione del valore originato dalla ricerca scientifica, tecnica e organizzativa. Si tratta di spese che si sostengono, in definitiva, per sopprimere altre spese e averne un vantaggio netto. Tale ricerca non porta soltanto ad alleggerire i prodotti e a sostituire la natura con la chimica: essa permette di avanzare lungo mille strade diverse.
Per esempio, si alleggerisce e si miniaturizza: furono parecchio ridotte le dimensioni dei prodotti elettronici aumentandone al contempo la velocità di funzionamento, col passaggio dalle valvole ai transistor. Si alleggerisce e si semplifica: è il caso del passaggio dall'orologio meccanico all'orologio al quarzo, che è anche più preciso. E poi, qualunque cosa si faccia, si cerca di farla col minimo dispendio, con la massima razionalità, col massimo risparmio di lavoro umano nella sua forma più materiale (non intellettuale). Il capitalismo del nostro secolo ha accettato in pieno la finalità di Frederick W. Taylor: ‟Portare il lavoro umano a un più alto livello di efficienza e di capacità produttiva attraverso le scienze organizzative" (v. Taylor, 1911; tr. it., pp. 5-6).
Il taylorismo non gode di buona fama, e il suo autore fu sottoposto all'inchiesta di una commissione della Camera dei deputati degli Stati Uniti nel 1911 e 1912. La sentenza gli fu però favorevole, e infatti Taylor nella sua attività pratica in officina non pretese mai nulla senza il consenso degli operai e il loro tornaconto salariale. Non tutti i suoi seguaci lo imitarono anche in questo, ma comunque la questione è radicalmente mutata con l'avvento degli impianti automatizzati (ancora una volta più nel settore industriale che in quello agricolo, dove d'altronde il taylorismo recitò una parte minima, se non nulla).
Per ordinare le idee, si può dire che l'economia capitalistica del XX secolo è andata avanti sia nel campo della micro-organizzazione sia in quello della macro-organizzazione. La micro-organizzazione si è giovata soprattutto delle scienze organizzative alle quali contribuirono studiosi come Taylor. Nella macro-organizzazione è stato invece decisivo l'apporto del progresso dei trasporti e delle comunicazioni, che ha idealmente ridotto le dimensioni del pianeta Terra, quasi annullando le distanze. Con tutto ciò, i compiti organizzativi del capitalismo rimangono formidabili, e non si realizzano i sogni dei seguaci di Marx, che speravano di ereditare dal capitalismo più evoluto anche pratiche amministrative alla portata di chiunque e quindi pure del proletariato.
4. Il capitalismo finanziario
La storia del capitalismo s'intreccia con quella della moneta. La superiorità di un capitalismo sugli altri porta al dominio della sua moneta sulle valute straniere. Nel XIII secolo, il fiorino di Firenze e il ducato di Venezia, entrambi di coniazione aurea, furono i grandi mezzi di pagamento internazionali e recitarono la parte che più tardi, durante e dopo la rivoluzione industriale, sarà della sterlina e poi del dollaro. Ma come nella storia dell'economia produttiva la rivoluzione industriale rappresentò una frattura vistosa, così nella storia monetaria una analoga frattura si ebbe con l'abbandono definitivo della convertibilità dei biglietti in oro o argento.
La tradizione imponeva che la moneta importante avesse un suo valore intrinseco, corrispondente al valore del metallo prezioso di cui era fatta. Il gold standard, o tallone aureo, fissava il cambio tra due monete in proporzione al loro contenuto in peso di oro fino: le monete si pesavano (il nome ‛lira' viene da ‛libbra', unità di peso). Se non che l'oro è prezioso proprio perché è scarso in natura e non producibile a nostra volontà, a dispetto del sogno degli alchimisti. Ne consegue che le epoche di gold standard, per esempio il XIX secolo, furono epoche con una quantità di moneta circolante che stentava ad adeguarsi alle necessità dello sviluppo economico: è la principale ragione per cui il secolo scorso fu in Occidente caratterizzato da una tendenza alla diminuzione dei prezzi, salvo quando venivano scoperti nuovi giacimenti auriferi.
Alla fame d'oro si ovviò, in parte, col gold exchange standard, ossia con l'emissione di biglietti di carta convertibili in oro a un prezzo ufficiale prestabilito dai governi. Crebbe la quantità di moneta circolante, però entro i limiti stabiliti dalla necessità delle banche centrali di far fronte alle eventuali richieste di conversione in oro dei biglietti in mano alla gente. La convertibilità veniva di tanto in tanto sospesa, in casi di emergenza come sono i periodi di guerra. Ovviamente era sempre facoltà dei governi ridurre il contenuto aureo delle loro monete, mantenendone il vecchio nome, sebbene tale pratica andasse contro le regole della buona amministrazione pubblica e provocasse le immaginabili conseguenze inflazionistiche.
Il XX secolo, con le due guerre mondiali, ha visto la crisi sia del gold standard sia del gold exchange standard. Dopo la prima guerra mondiale vi furono tentativi di ritorno all'oro, ma senza durevoli successi se non negli Stati Uniti. Dopo la seconda guerra mondiale entrarono in vigore gli accordi internazionali firmati a Bretton Woods (Stati Uniti) nel 1944, coi quali si stabilivano regole di conversione delle monete in dollari, e del dollaro in oro. La sterlina perdeva la sua funzione di moneta di riferimento, e al suo posto, con funzione di moneta di riserva, subentrava il dollaro in quanto unica moneta rimasta convertibile in oro. Dagli accordi di Bretton Woods nacque il Fondo Monetario Internazionale il cui scopo era di mantenere i cambi stabili il più possibile.
Il potere del capitalismo americano, che aveva toccato il vertice durante e nei primi decenni dopo la guerra, andò tuttavia attenuandosi successivamente, e in parallelo si attenuò il potere del dollaro. Nel 1971 il presidente Nixon, imbarazzato dal crescente deficit della bilancia dei pagamenti internazionali del suo paese (imputabile all'offensiva commerciale del Giappone e ad altre cause), sospese la convertibilità del dollaro in oro, mettendo di fatto fine al sistema di Bretton Woods. Il regime prevalente divenne quello dei cambi fluttuanti o flessibili, pur mantenendosi l'intenzione di contenere la fluttuazione o la flessibilità entro prefissati limiti, superiore e inferiore. Questa intenzione, nel nostro continente, diede luogo nel 1978 alla nascita del Sistema Monetario Europeo.
L'esperienza successiva ha mostrato che, senza l'ancoraggio all'oro, la stabilità dei cambi è impossibile e che è del pari irrealizzabile perfino il durevole mantenimento delle oscillazioni entro una banda prefissata. Le banche centrali riescono, con più o meno grave dispendio delle loro riserve valutarie e auree, a difendere per qualche tempo le proprie monete durante le fasi di indebolimento e di tendenza a fuoriuscire dalla banda; ma alla lunga il tentativo fallisce, se non migliora radicalmente la forza economica dei paesi in questione. Dunque, ci è rimasta la scelta tra cambi completamente liberi di oscillare e cambi artificiosamente mantenuti stabili per qualche tempo e in qualche misura, ma suscettibili di scattare in alto o in basso non appena le autorità monetarie ne perdano il controllo. L'Unione Europea, con l'accordo di Maastricht, ha imboccato una terza strada, che conduce verso una moneta unica per i paesi membri, i quali quindi non avrebbero più problemi di cambio fra le loro (abolite) monete nazionali.
Il disancoraggio totale dall'oro ha reso molte economie iperliquide (sovrabbondanza di moneta), inflazionistiche e atte alle speculazioni sui cambi. Ingenti capitali, non in forma fisica, ma in forma monetaria, si spostano nel mondo a scopo speculativo: essi si muovono non per finanziare investimenti reali, commerci e produzioni, bensì per lucrare sulle differenze internazionali nei tassi di inflazione, di interesse e di cambio. Poiché queste differenze variano di continuo, la speculazione sposta i capitali da una valuta all'altra secondo la convenienza del momento. Una valuta forte, cioè poco minacciata dall'inflazione e dalla svalutazione, attirerà capitali anche se frutta tassi di interesse relativamente bassi. Al contrario, una moneta debole diventa interessante solamente se promette tassi di interesse elevati.
Questa ricerca speculativa della moneta di volta in volta più conveniente per collocarvi i capitali vaganti nel mondo ha dato luogo a un capitalismo finanziario non sconosciuto in passato, ma ingigantito oggi oltre ogni esempio precedente. Basti dire che, secondo stime attendibili, all'Interbank Market di Londra passa ogni giorno più moneta di quanta sarebbe sufficiente a finanziare per un anno intero le ordinarie operazioni del commercio internazionale. Sotto l'aspetto quantitativo, si tratta di cifre che nemmeno le più dotate banche centrali sono ormai in grado di contrastare quando occorresse, ad esempio per motivi di stabilità dei cambi.
Il capitalismo finanziario, se così vogliamo chiamare questo fenomeno, presenta sempre più spesso aspetti decisamente patologici. Esso è alimentato, tuttavia, non solo da speculatori veri e propri, come è il caso di grossi finanzieri, ma altresì da gestori per conto altrui (per conto di numerosi piccoli e medi clienti) di fondi di investimento, fondi di pensione, et similia. La ricchezza mobiliare agisce essa pure su scala planetaria, alla ricerca del profitto, e con più facilità della ricchezza immobiliare, perché si trasporta più facilmente, o meglio si trasportano più facilmente i titoli che la rappresentano.
Con la cosiddetta moneta elettronica, gli spostamenti di questa avvengono alla medesima velocità degli spostamenti di informazioni, cioè con velocità prossima a quella della luce. Anzi, gli spostamenti finanziari sono null'altro che una parte dell'immenso spostamento di informazioni da un capo all'altro del mondo; e gli spostamenti di informazioni rappresentano a loro volta un flusso internazionale in crescita così rapida da battere ogni altro flusso in ogni altra epoca storica. Pertanto c'è chi sostiene che il capitalismo finanziario stia diventando, in certi suoi aspetti, non solo internazionale, non solo trans-nazionale, ma addirittura non-nazionale. Infine, la moneta è senza patria.
5. Conclusioni
In questo scorcio del secolo XX i più vistosi problemi posti dal capitalismo sembrano essere i seguenti, elencati in (opinabile) ordine crescente di gravità: a) l'erompere del capitalismo finanziario, di cui abbiamo appena detto e sul quale non torneremo; b) la conciliazione del potere economico e del potere politico in regimi più democratici che in passato e con una più spiccata sensibilità per le istanze egualitarie (eredità del socialismo); c) il ritorno a un capitalismo di pieno impiego, dopo il fallimento storico dei rimedi di tipo keynesiano; d) l'inserimento del mercato capitalistico in un contesto planetario dove il futuro sembra richiedere una pianificazione ‛ecologica' in senso lato.
Il punto b) pone l'interrogativo: come impedire che il cittadino e il consumatore restino schiacciati tra un potere politico e un potere economico che ora si combattono, ora si alleano, in una confusione che contamina le regole della democrazia? L'Europa (Italia compresa) non pare in possesso di soluzioni magiche, che non esistono, ma nemmeno di soluzioni empiriche nuove e promettenti. L'Unione Europea dà l'impressione di affidarsi, in ritardo, a regole anti-trust contro l'abuso del potere economico in singoli casi di posizione dominante sul mercato. Gli Stati Uniti hanno almeno un secolo di esperienza in materia, e tale esperienza è deludente.
Economisti americani certamente non filocapitalisti si sono espressi più volte dubitando dell'efficacia della legislazione anti-trust. Per esempio, John Kenneth Galbraith considera tale legislazione ‟una spada di carta", ‟il trionfo della speranza sull'esperienza", qualcosa che in America non ha annullato lo slancio verso concentrazioni sempre maggiori di potere economico: ‟Queste concentrazioni e il potere sul mercato che esse comportano non sono stati percettibilmente inferiori negli Stati Uniti rispetto agli altri paesi industrializzati che non godono di simili leggi anti-trust o non hanno fatto alcun tentativo in quel senso".
Vi sono anche, spesso, crescenti concentrazioni del potere politico, che possono disporre di mezzi che sono aumentati ancor più velocemente dello sviluppo economico. L'ottimismo di pensare che il colosso economico sia tenuto a bada dal colosso politico è smentito dai casi di connivenza tra i due poteri, o anche dal costo oggettivo di conflitti male disciplinati dalle costituzioni democratiche. Il caso italiano, nell'ultimo mezzo secolo, illustra con abbondanza le traversie di un paese che non ha ancora trovato la governabilità democratica senza corruzioni e concussioni al di là del tollerabile.
E veniamo al punto c). Gli economisti che più si abbandonano al pessimismo ritengono che l'alta percentuale di popolazione involontariamente senza lavoro non sia un fenomeno contingente, degli ultimi decenni, ma almeno in Europa (Italia compresa), una caratteristica indelebile dell'ultimo capitalismo. È un ritorno alla teoria della stagnazione del capitalismo maturo, con l'aggravante che la causa non sarebbe di tipo keynesiano (mancanza di domanda effettiva, in particolare mancanza di consumi), bensì di tipo tecnologico. Il capitalismo maturo e la sua tecnologia perpetuamente rivolta a risparmiare lavoro permetterebbero di soddisfare la domanda crescente del mercato senza accrescere l'occupazione.
A parte la riduzione graduale degli orari di lavoro, occorrerebbe spostare la domanda dai prodotti che non aiutano l'occupazione ai prodotti che invece l'aiutano: i primi sarebbero i prodotti di consumo privato offerti dal capitalismo; i secondi sarebbero i beni pubblici, merci e soprattutto servizi, offerti da enti senza fini di lucro. A questo punto si torna alla lotta al consumismo, da condurre mediante una forte fiscalità sui profitti e, occorrendo, con un rallentato miglioramento dei salari e degli stipendi, che diverrebbero inutili perché non più spendibili sul mercato, e pericolosi come fonte di inflazione.
Quanto questa analisi sia realistica dipende, fra l'altro, dalla misura in cui i consumatori accetterebbero di sostituire per il loro benessere le scelte private con le scelte pubbliche (politiche), e dal grado di inefficienza degli enti produttori totalmente esentati dalla concorrenza di mercato e dalla ricerca del profitto positivo. Ma prima ancora va indagata la premessa: è davvero il progresso tecnologico capitalistico a innalzare durevolmente il tasso di disoccupazione? Non vi sono forse diverse cause sociali, come l'accresciuta offerta di lavoro femminile, l'esistenza di una occupazione sommersa che sfugge alle statistiche, e il maggior reddito familiare, che permette ai giovani di non lavorare senza spingere alla fame se stessi e i genitori?
Il punto d) è talmente vasto da non consentire che un cenno pro memoria. Esso riporta l'attenzione sul tema dell'egualitarismo, che si estende dall'ambito ristretto degli individui in una stessa nazione all'ambito allargato di tutti i popoli viventi sul pianeta, e all'ambito ancor più allargato delle generazioni future, in aggiunta a quelle già presenti. Ci si chiede, per esempio: il mercato capitalistico non favorisce le generazioni presenti a danno di quelle future, in fatto di risorse naturali non riproducibili? L'egualitarismo, in ogni caso, è tutt'al più un effetto non intenzionale del mercato capitalistico. Se si vuole andare oltre, sulla sua strada, sembra inevitabile che egualitarismo e capitalismo entrino in conflitto. Sembra inevitabile che subentri una pianificazione espressamente egualitaria nelle intenzioni.
Ma la storia non finisce qui: sembra inevitabile che, al di là di un punto critico, l'egualitarismo entri in conflitto con la libertà economica e non economica, con la libertà tout court. La coercizione pare diventi inevitabile non soltanto per realizzare un alto grado di eguaglianza, ma anche per mantenerlo, contro le forze spontanee che tendono a ricostituire la diseguaglianza.
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