capitoli
Dei cinque C. in terza rima composti da M., solo i tre di maggiore ampiezza e importanza (“Di Fortuna”, “Dell’Ingratitudine” e “Dell’Ambizione”, tutti sicuramente anteriori al 1512) sono propriamente ascrivibili al genere del capitolo ternario, ossia del componimento in terzine di argomento morale, satirico, politico, dottrinale o religioso; gli altri due (il cosiddetto “Capitolo pastorale” e il breve “Dell’Occasione”) adottano sì la forma della terzina dantesca, ma sono altra cosa e pertengono ad altri generi, visto che il primo è un’egloga allegorico-politica, mentre il secondo è in realtà un epigramma, che liberamente ne traduce uno latino di Ausonio (per tali testi → Rime sparse).
Il più antico dei tre è quasi certamente “Di Fortuna” (193 vv.): indirizzato a Giovan Battista Soderini (giovane nipote di Piero, gonfaloniere perpetuo di Firenze dal 1502 al 1512), non fornisce di per sé indizi cronologici, ma la sua stesura deve collocarsi a ridosso di quella dei Ghiribizi scripti in Perugia al Soderino, l’epistola inviata da M. al medesimo Giovan Battista fra il 13 e il 21 settembre 1506 in risposta a una sua breve lettera del 12 settembre. L’identità del destinatario e del tema induce in effetti a stringere in un medesimo nodo i due testi, anche in considerazione del fatto che l’accostamento – o lo scambio – di epistola in prosa e capitolo in terza rima non è raro nella letteratura quattro-cinquecentesca; per esempio, M. inviò nell’estate 1507 a Filippo da Casavecchia una perduta epistola (non sappiamo se in prosa o in versi) per consolarlo di certa sua sventura, e l’amico rispose il 22 settembre con una breve lettera seguita da un capitolo ternario (Martelli 1969, pp. 158-65).
“Dell’Ingratitudine” (187 vv.), indirizzato a Giovanni Folchi, è posteriore al 4 giugno 1507 (data della partenza di Consalvo di Cordova da Napoli, cui si allude al v. 163) e dovrebbe essere anteriore al settembre 1512, giacché non sembra plausibile che M. continuasse a intrattenere rapporti con lui dopo quella data, né tanto meno che gli dedicasse un proprio componimento: anche Folchi, infatti, cadde in disgrazia con il ritorno dei Medici in Firenze, e anch’egli fu accusato di complicità nella congiura di Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, tanto da essere incarcerato, al pari di M., all’inizio del 1513. Né può essere testimonianza del contrario il fatto che Francesco Vettori, scrivendo a M. il 12 luglio 1513, elencasse «il vostro Giovanni Folchi» tra gli amici dell’ex Segretario presenti in quel momento a Roma, dove egli si era trasferito dopo la sua liberazione, avvenuta, come nel caso di M., il 12 marzo. D’altronde, è evidente che l’ingratitudine di cui il Segretario afferma qui di sperimentare il morso deve essere messa in relazione con la sua attività burocratica e politica, ossia con gli uffici da lui ricoperti fino all’estate del 1512 (non a caso, i vv. 61-63 dipingono l’ingratitudine come un vizio tipico soprattutto delle repubbliche).
L’episodio a cui comunemente si pensa è quello del giugno 1507, quando a M., inizialmente designato per una delicata legazione in Germania, venne poi preferito Francesco Vettori, a causa del veto posto sul suo nome dagli oppositori di Piero Soderini; meno verosimile pare invece il nesso con la vicenda del dicembre 1509, quando un anonimo denunciò M. come inabile a ricoprire qualunque carica pubblica, probabilmente a causa dei debiti del padre nei confronti del comune. La modesta rilevanza di questo evento, infatti, «appare sproporzionata all’impegno del discorso» condotto nel capitolo (G. Inglese, introduzione a Capitoli, 1981, p. 97). Quanto umiliante fosse stata per M. la vicenda della legazione all’imperatore lo documentano due epistole inviate al Segretario dagli amici Casavecchia e Alessandro Nasi il 30 luglio 1507; questi ultimi replicavano a perdute lettere di M., nelle quali doveva avere sfogato la sua rabbia e la sua indignazione, ma forse anche al capitolo “Dell’Ingratitudine” (dove egli parla di un «acerbo dolor […] che drieto all’almo mio furiando corre», vv. 17-18: da qui in avanti, e dove non altrimenti specificato, si cita sempre da Capitoli, a cura di N. Marcelli, 2012), dal momento che una sua eco testuale sembra percepibile nella chiusa dell’epistola di Casavecchia (cfr. G. Inglese, introduzione, cit., p. 62).
Anche l’indirizzo del capitolo è indicativo, poiché M. non sceglie a caso i suoi dedicatari. In quel momento di grande sconforto, che lo spinge addirittura a meditare l’abbandono della vita pubblica, M. si rivolge infatti ad alcuni dei suoi amici più cari, fra i quali allora, accanto a Casavecchia e Nasi, era anche Folchi; quest’ultimo, tra l’altro, fu impiegato da M. come commissario per l’arruolamento e l’armamento di fanti nel Mugello, nel Casentino e nel Valdarno superiore fra l’inverno e la primavera del 1506, insieme e contemporaneamente a Casavecchia, che ricoprì il medesimo incarico a Firenzuola (LCSG, 5° t., ad indicem). Nella lettera di Leonardo Bartolini a M. del 21 febbraio 1506, inoltre, Folchi è appaiato a Giovan Battista Soderini, dedicatario, pochi mesi dopo, dei Ghiribizzi e del capitolo “Di Fortuna”: «E a voi mi raccomando: simile a Giovan Battista Soderini e al Folco» (Lettere, p. 116). Altro indizio, questo, del fatto che i tre C. in questione furono indirizzati da M. a persone cui lo univano non solo legami di amicizia, ma anche comuni orientamenti politici: la stessa cerchia, favorevole al gonfaloniere e all’Ordinanza, cui appartenevano anche Roberto Acciaiuoli (che era a sua volta legato a Folchi: lettera dell’Acciaiuoli a M. del 4 genn. 1500, Lettere, p. 21) e Nasi, ai quali M. inviò, nel medesimo torno di tempo, due copie ad personam del primo Decennale (cfr. F. Bausi, Tipologia degli autografi machiavelliani, in «Di mano propria». Gli autografi dei letterati italiani, Atti del Convegno, Forlì 2008, a cura di G. Baldassarri et al., 2010, pp. 294-306).
Databile con maggior sicurezza è “Dell’Ambizione” (187 vv.), che, dedicato a Luigi Guicciardini, deve assegnarsi al novembre-dicembre 1509: l’occasione fu infatti fornita a M. dalla lite poco prima scoppiata a Siena tra i fratelli Borghese e Alfonso Petrucci (v. 2) e insieme dalla diretta constatazione – il Segretario si trovava allora in missione a Verona – della sventura cui l’eccessiva ambizione aveva condotto i veneziani, che con la recente sconfitta di Agnadello (14 maggio 1509) avevano perduto gran parte dei loro possedimenti di terraferma. Indicativo in tal senso lo stretto rapporto che i vv. 166-68 («San Marco alle suo spese, e forse invano, / tardi conosce come li bisogna / tener la spada e non el libro in mano») rivelano con un passo della lettera ufficiale di M. ai Dieci, da Verona, del 7 dicembre 1509:
Intendesi come e’ Viniziani in tutti questi luoghi, de’ quali si rinsignoriscono, fanno dipignere uno San Marco che in scambio di libro ha una spada in mano.
Donde pare che si sieno avveduti a loro spese che a tener li stati non bastono li studi ed e’ libri (LCSG, 6° t., pp. 395-96).
Alla stesura di questo capitolo M. allude probabilmente in una sua lettera al dedicatario (che si trovava allora a Mantova) scritta da Verona il 29 novembre: «Sono vostro, vostrissimo; e quanto al comporre, io penso tuttavia ciò» (Lettere, p. 203). Meno certo che un altro cenno al componimento si possa rinvenire nel post scriptum della successiva lettera di M. allo stesso Guicciardini dell’8 dicembre 1509, sempre da Verona: «Aspetto la risposta di Gualtieri a la mia cantafavola» (p. 206). La «cantafavola», da alcuni in passato malamente identificata col secondo Decennale, potrebbe essere il capitolo (allo stesso modo è definito il primo Decennale da Agostino Vespucci in una lettera a M. del 14 marzo 1506, Lettere, p. 121), ma lasciano perplessi due elementi: l’ignota identità di «Gualtieri» e il motivo per cui quest’ultimo avrebbe dovuto ‘rispondere’ a un testo non a lui dedicato. In ogni modo, “Dell’Ambizione” fu verosimilmente scritto da M. a Verona, nei lunghi intervalli della sua missione; tale fu la genesi di vari scritti machiavelliani, compreso “Di Fortuna”, steso nelle more della legazione pontificia itinerante dell’estateautunno 1506. Non a caso, parallelamente ai due capitoli, M. compose anche due testi in prosa indirizza-ti agli stessi dedicatari: al “Di Fortuna” si affiancano, come detto, i Ghiribizzi, al “Dell’Ambizione” la citata lettera veronese dell’8 dicembre 1509, occupata da una sorta di novelletta comico-erotica.
I tre C. hanno estensione quasi identica (come anticipato, 193 vv. “Di Fortuna”, 187 gli altri due: dimensioni da ‘poemetto’ autonomo, superiori a quelle dei capitoli dell’Asino, che sono più vicini alla misura dei ‘canti’ danteschi) e presentano evidenti analogie di struttura, di contenuto, di tono, di lingua e di stile. Strutturalmente, essi appaiono caratterizzati dall’alternanza di parti discorsivo-riflessive e di parti descrittive, occupate da ampie serie di exempla (“Di Fortuna” e “Dell’Ingratitudine”) o di personificazioni astratte e allegorie (“Di Fortuna” e “Dell’Ambizione”); tutti si aprono con una protasi di ampiezza variabile, contenente – secondo le convenzioni della poesia in forma epistolare – l’allocuzione diretta al dedicatario.
Più in particolare, “Di Fortuna” è divisibile in tre sezioni principali: descrizione della dea Fortuna e del suo palazzo, con elenco degli ‘abitatori’ che vi risiedono e che formano la sua scorta (Audacia, Gioventù, Timore, Penitenza ecc.: vv. 25-99); riflessione sul potere della Fortuna e sulle cause che rendono pressoché impossibile opporvisi (vv. 110-26); lista di popoli, città e uomini illustri dell’antichità che hanno sperimentato l’impeto della Fortuna, passando dalla grandezza alla rovina. Pur nella somiglianza dell’impianto generale, gli altri due capitoli presentano una conformazione più articolata. “Dell’Ingratitudine” si apre con l’esposizione della mitologica genealogia di questa «peste», figlia di Avarizia e di Sospetto (vv. 22-33), cui tien dietro la descrizione delle sue cause e dei suoi effetti, tanto nei singoli quanto negli Stati (vv. 34-72); gran parte del testo è però occupata da due lunghe catene di exempla, antichi (vv. 73-156, dove domina la figura di Scipione l’Africano, cui sono riservati ben 57 versi) e moderni (vv. 157-65), finché il componimento si chiude (vv. 166-87) con la constatazione dell’universale diffusione dell’ingratitudine e con l’invito a fuggirla nell’unico modo possibile, cioè astenendosi da ogni attività politica. Nel capitolo “Dell’Ambizione” si possono riconoscere invece le seguenti sezioni: allegoria dell’Ambizione e dell’Avarizia, descritte come «duo furie» infernali (vv. 7-63); genesi e conseguenze dell’ambizione nell’animo umano e nei popoli (vv. 64-123); exemplum negativo della Repubblica di Venezia, in cui l’autore (da Verona) e il dedicatario (da Mantova) possono riconoscere da vicino i drammatici effetti di un’ambizione non corretta da «iudizio e intelletto sano» (vv. 124-68); spostamento conclusivo dell’attenzione sulla Toscana, che sembra parimenti destinata a essere arsa entro breve tempo dalle «faville» dell’ambizione.
I temi dei C. sono fra i più diffusi nella cultura medio-popolare dell’epoca e dell’ambiente di M., e corrispondono altresì a categorie fondamentali della mentalità della borghesia e dell’aristocrazia mercantile fiorentina quattro-cinquecentesca. In virtù di questo, nonché del peso della tradizione letteraria, della genesi occasionale di tali testi e del loro intento più o meno direttamente ‘pratico’ e politico, non pare opportuno ricercare nei C. una particolare profondità e coerenza dottrinale. Non si tratta, in altre parole, di testi filosofici, ma solo di esercizi poetici e di scritti ‘propagandistici’ nei quali canoniche sequele di esempi si alternano a non meno convenzionali riflessioni morali; anche i punti di contatto, talora evidenti e letterali, qua e là rintracciabili con le opere politiche maggiori, si configurano come semplici immagini o come rudimentali spunti isolati, non inseriti in un tessuto argomentativo paragonabile a quello del Principe o dei Discorsi, pallide anticipazioni di un pensiero ancora in embrione che fanno solo vagamente presagire i suoi futuri sviluppi.
Non è quindi il caso di insistere neppure sulle contraddizioni riscontrabili sia all’interno del singolo capitolo sia tra l’uno e gli altri. “Di Fortuna” è imperniato sull’idea dell’inutilità di ogni sforzo teso a seguire i mutamenti della sorte, ma i vv. 124-26 sostengono che «si vuole lei prender per suo stella, / e quanto a noi è possibile, ogni ora / accomodarsi al varïar di quella»; “Dell’Ingratitudine” proclama dapprima che il vizio eponimo alberga maggiormente nel petto di principi e re (vv. 27-30), poi che «più si diletta / nel cor del popol quando gli è signore» (vv. 62-63); il motore fondamentale dell’inesausto variare delle cose umane e della storia, che “Di Fortuna” individua nella congenita instabilità della dea bendata (ossia nell’imperscrutabilità del volere divino o, che è lo stesso in questo caso, delle rivoluzioni astrali), nel “Dell’Ambizione” viene riconosciuto invece nel naturale istinto dell’uomo di «sormontare» opprimendo gli altri, istinto che in ambito politico si traduce nel desiderio dei popoli di ampliare il proprio Stato a danno di quelli vicini (vv. 64-81). Infine, se i primi due capitoli si chiudono su una nota pessimistica e rassegnata, ribadendo l’impossibilità di fronteggiare in maniera efficace le variazioni della fortuna e i colpi dell’ingratitudine, il terzo oppone, all’in vincibile potere dell’ambizione nell’animo umano, la persuasione della possibilità di incanalare positivamente tale impulso sul piano sociale, trasferendolo, mediante i «buoni ordini» e la virtù militare, nella sfera politica e facendone così un valido strumento di espansione.
Ma, al di là delle specifiche aporie, conta in testi di questo genere soprattutto la fondamentale unità del tono e dell’ispirazione. I C. si configurano infatti come riflessioni morali, e talvolta moralistiche, intorno a tre delle principali ‘forze’ (interne ed esterne all’uomo) che regolano o condizionano l’agire individuale e sociale: forze percepite come tanto soverchianti da sollecitare un discorso il cui fine primario non è tanto quello di comprenderne razionalmente i meccanismi, quanto quello di offrire consolazione e suggerire rimedi contro i loro insulti. Consolazione e rimedio che – del tutto in linea, nuovamente, con i connotati tradizionali di questo tipo di letteratura – finiscono di fatto con il coincidere, giacché l’unica possibilità di difendersi da tali forze consiste per M. nella saggia e disincantata accettazione del loro superiore potere, e di conseguenza nella ragionevole e prudente astensione da qualunque comportamento che possa renderci ancor più vulnerabili di fronte a esse.
Non stupisce, quindi, il tono generalmente pessimistico di questi componimenti: alla fortuna non è possibile opporsi, ma solo assecondarla e ‘cavalcarla’ finché la nostra natura si accorda a quella dei tempi; dall’ingratitudine ci si difende unicamente stando alla larga dall’agire politico; i danni dell’ambizione, cui il singolo individuo non può sottrarsi, sono evitabili solo dagli Stati, purché grazie al valor militare, alle buone leggi e alla «fiera educazion» sappiano indirizzarla verso l’esterno, ossia verso la guerra e la conquista (ma ciò in Italia è dichiarato impossibile, a causa dell’«ozio» e della «viltà» dominanti, e anche grandi potenze straniere quali Francia e Spagna risultano avere sperimentato più volte i rovinosi effetti di un’ambizione non adeguatamente regolata). Un pessimismo che gli scritti politici – minori come maggiori – generalmente superano attraverso la fiducia nell’analisi razionale e lo scatto della volontà, e che invece finisce spesso col prevalere nelle opere letterarie (dai C. all’Asino, fino alla novella di Belfagor) e nelle epistole private, sia per il peso e i condizionamenti della tradizione sia per la maggiore libertà concessa in queste sedi allo sfogo passionale e sentimentale, ossia, nella fattispecie, al lato malinconico e ‘notturno’ dell’animo machiavelliano. Si pensi alla citata lettera consolatoria inviata a Casavecchia nel 1507, nella quale M., secondo quanto si evince dalla risposta dell’amico, doveva aver affermato come unico rimedio all’infelicità costitutiva dell’uomo sia quello di «lasciarsi portar ad la isciellerata Fortuna» (Martelli 1969, p. 160), analogamente a quanto leggiamo ai vv. 124-26 del “Di Fortuna”.
Anche se i C. non furono composti, verosimilmente, in obbedienza a un disegno prefissato, la loro coerenza tematico-ideologica, oltre che tonale, è indubbia. Posta preliminarmente l’onnipotenza della Fortuna, i testi successivi si soffermano su due sentimenti umani che della Fortuna si fanno strumento, contribuendo all’inarrestabile moto delle cose sulla terra: non per nulla, M. afferma a chiare note che l’effetto primario sia dell’ingratitudine (vv. 34-39) sia dell’ambizione (vv. 64-66) è la variazione perpetua di ogni «stato mortale» (“Dell’Ambizione”, v. 66). Si ponga mente al ricorrere di alcuni termini-chiave nei tre testi: fra i «conservi» della Fortuna trova posto Invidia (detta «nutrice» dell’Ingratitudine nel capitolo omonimo, v. 26), e nel “Di Fortuna” l’ambizione è la molla che spinge gli uomini a desiderare di «veder cose nove» e dunque a cercar di entrare nel palazzo della volubile dea (vv. 50-52); Avarizia, di cui Ingratitudine è figlia (“Dell’Ingratitudine”, v. 25), ritorna anche come sorella e compagna dell’Ambizione nel terzo capitolo (vv. 11-12: «In ogni lato / l’Ambizïone e l’Avarizia arriva»; ed entrambe sono definite «duo furie» al v. 30); e in quest’ultimo, nella scorta di Ambizione e Avarizia, compare ancora Invidia (v. 37). Che M., una volta composto il “Di Fortuna”, abbia concepito i C. come una sorta di trittico dimostra del resto anche la loro quasi identica estensione; né si trascuri che la sola “Dell’Ingratitudine” gode di una tradizione manoscritta indipendente, mentre per il resto i tre C. risultano sempre trasmessi congiuntamente.
Entrando nel dettaglio, è opportuno in primo luogo insistere sul rapporto tra “Di Fortuna” e Ghiribizzi, nati a un parto e indirizzati al medesimo dedicatario. Come spesso accade in M., la riflessione non scaturisce da un astratto interesse speculativo, ma da circostanze concrete che per la loro eccezionalità e complessità mettono in crisi le sue certezze. In questo caso, lo stimolo è fornito da una lettera di Giovan Battista Soderini (12 sett. 1506), che indirettamente lo esortava a muoversi con prudenza una volta rientrato a Firenze (con probabile allusione alla spinosa questione dell’Ordinanza, la cui definitiva approvazione stava proprio allora ultimando il suo iter legislativo), e insieme dai recentissimi fatti di Perugia, dove papa Giulio II, contro ogni previsione, aveva avuto la meglio pur agendo in modo impulsivo e sconsiderato, vale a dire entrando solo e disarmato in città per affrontarne a viso aperto il temibile signore Giampaolo Baglioni. L’episodio sarà poi al centro del cap. xxvii del libro I dei Discorsi, dove della condotta tenuta da Baglioni in quella circostanza verrà proposta una spiegazione psicologico-morale (facente capo all’idea che, come recita il titolo, Sanno radissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni) assente nel capitolo e diversa anche da quella avanzata nelle coeve lettere ufficiali.
“Di Fortuna”, scritto quando M., impegnato fuori città, non può seguire da vicino gli sviluppi della questione dell’Ordinanza e teme che il progetto possa naufragare a causa dell’irresolutezza del gonfaloniere, riflette i dubbi in lui generati dall’episodio di Perugia: pertanto il capitolo, benché indirizzato a Giovan Battista Soderini e benché Piero non vi sia mai nominato, trova probabilmente il suo effettivo ‘protagonista’, al pari dei Ghiribizzi, nel gonfaloniere, di cui M. era solito disapprovare quel procedere circospetto che ora (vedendosi gli uomini «con varii governi conseguire una medesima cosa e diversamente operando avere uno medesimo fine», Lettere, p. 136) gli veniva invece a configurarsi come una delle due alternative – equivalenti, giacché la loro efficacia dipende soltanto dal «riscontro» con i tempi – che si offrono all’azione del politico. Analogamente in Discorsi III ix, il giudizio su Piero Soderini (altrove senz’altro negativo: cfr. sempre nel libro III della stessa opera i capp. iii e xxx) sarà di fatto sospeso, giacché la sua finale rovina verrà imputata al mutare delle circostanze, che, quando non furono più conformi alla sua indole umana e paziente, egli – non potendo, come nessun altro, cambiare la propria natura – non avrebbe potuto in alcun modo fronteggiare con successo.
Quello della fortuna è argomento caro a M., che lo affronta anche nel Principe (xxv) e nei Discorsi (II xxix e III ix); ma cercare di organizzare i vari momenti della sua riflessione – su questo come su altri temi – in un organico sistema di pensiero è impresa ardua e poco proficua. Ghiribizzi e “Di Fortuna” teorizzano l’impossibilità per l’uomo di mutare la sua natura e quindi di adattarsi ai continui rivolgimenti della sorte; da qui la perenne variazione delle umane cose, giacché il successo ha termine nel momento in cui viene meno la corrispondenza fra i «tempi», soggetti a perenne movimento, e la non modificabile natura dell’individuo (vv. 100-20). In ciò, “Di Fortuna” è vicino al cap. ix del libro III dei Discorsi (Come conviene variare co’ tempi, volendo sempre avere buona fortuna), dove però il discorso si arricchisce di un momento ‘politico’ che, assente negli scritti del 1506, porterà M. ad affermare come le repubbliche, affidando il governo a una molteplicità di cittadini, possono, per questo, meglio di un principato «accomodarsi alla diversità de’ temporali», e dunque avere più lunga e prospera vita. Notevoli anche le tangenze con il cap. xxv del Principe (Quantum fortuna in rebus humanis possit et quomodo illi sit occurrendum): ma benché M., nel “Di Fortuna”, sembri per un momento vedere nella «virtù» una forza capace di contrastare il potere della Fortuna (vv. 14-15: «e ’l regno suo è sempre violento, / se virtù eccessiva non l’ammorza»), e mostri talora di ritenere più efficace, contro quest’ultima, un atteggiamento audace e impetuoso (vv. 73-75: «Tra quella turba varïata e nuova / di que’ conservi che quel loco serra [si tratta del palazzo della Fortuna] / Audacia e Iuventù fa miglior pruova»; vv. 163-65: «Da questo essemplo [di Cesare e Pompeo] quanto a costei piaccia, / quanto grato le sia si vede scorto / chi l’urta, chi la pigne e chi la caccia»), rispetto al penultimo capitolo del trattato il “Di Fortuna” resta percorso da un fatalismo che il Principe supererà di slancio, con un energico volontarismo di cui anticipazioni più chiare si rinvengono nelle glosse marginali autografe dei Ghiribizzi. Nel “Di Fortuna”, invece, solo ai vv. 124-26, come detto, pare ammessa la possibilità di «accomodarsi» al mutare della Fortuna; e tuttavia, anche la preferenza che essa dimostra per chi agisce con risolutezza non mette al riparo dal fallimento, come dimostrano i casi stessi di Cesare e Alessandro.
Il capitolo “Dell’Ingratitudine” presenta una minore complessità teorica, conseguente alla minore rilevanza ‘filosofica’ del suo argomento; si tratta non a caso del componimento maggiormente legato a una situazione autobiografica, o comunque di quello in cui tale situazione è indicata fin dall’inizio come movente primo della scrittura (vv. 1-2: «Giovanni Folchi, il viver malcontento / pel dente della Invidia che mi morde»; vv. 16-18: «Così cantando cerco dal cuor tôrre / quel acerbo dolor de’ casi avversi / che drieto all’almo mio furiando corre»). Ciò chiarisce perché il corredo di exempla occupi larga parte del componimento e perché all’interno di esso spicchi la figura di Scipione, tradizionalmente considerato fin dall’antichità la vittima più illustre dell’ingratitudine: l’Africano, che si accampa al centro del ternario e del quale vengono rievocate le principali gesta e celebrate le straordinarie virtù, diviene infatti proiezione di M., a sua volta mal ripagato da Firenze per i servigi a lei lungamente e fedelmente resi, come si dice anche di Antonio Giacomini nel secondo Decennale (vv. 31-45; l’emarginazione politica di Giacomini, che aveva svolto un ruolo importante a fianco di M. nel progetto dell’Ordinanza, risale alla primavera del 1507, poco prima, dunque, della probabile stesura del “Dell’Ingratitudine”). Così può forse spiegarsi anche la lampante contraddizione già sottolineata all’interno del capitolo: dapprima M., in ossequio al proprio credo repubblicano (e alla suggestione del canto XIII dell’Inferno 66, dove Pietro delle Vigne definisce l’invidia «morte comune e de le corti vizio»), afferma che l’ingratitudine si manifesta con maggior forza nei regimi principeschi, salvo poi – spinto dall’indignazione suscitatagli dalla propria vicenda – giungere alla conclusione opposta. Un’oscillazione, questa, non del tutto risolta neppure nel cap. xxix del libro I dei Discorsi, dove il ragionamento conduce finalmente M. ad accusare di ingratitudine più i principi che i popoli (tanto che persino nel caso di Scipione il comportamento della Repubblica romana viene giustificato), ma dove al tempo stesso il pensiero mostra incertezze e aporie di fronte alla domanda che dà il titolo al capitolo: Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe (cfr. Martelli 2006, pp. 189-95).
Ancora diversi sono carattere e andamento del “Dell’Ambizione”, il cui esordio ostenta una svagatezza colloquiale che sembra frutto dell’oziosa condizione del Segretario a Verona e insieme della corrispondenza che egli intratteneva in quel periodo con l’amico Luigi Guicciardini (vv. 1-3: «Luigi, po’ che tu ti maravigli / di questo caso che a Siena è seguito, / non mi par che pel verso el mondo pigli»). Il testo – come già per il “Di Fortuna” – si riaggancia infatti a una precedente discussione tra autore e dedicatario, nel corso della quale Guicciardini doveva aver espresso il proprio stupore per la lite tra i fratelli Petrucci; l’episodio offre a M. lo spunto per un discorso sull’ambizione, il cui reale obiettivo si palesa tuttavia solo verso la fine, quando Guicciardini è invitato a mettere da parte i fatti di Siena per concentrarsi sul più vicino e importante exemplum fornito da Venezia, cui sono riservate dodici terzine. Il capitolo è dunque animato da quella polemica contro la città lagunare che costituiva uno dei punti fermi dell’ideologia antioligarchica fiorentina (la denuncia della smodata ambizione di Venezia ricorreva infatti già in scritti machiavelliani del 1503-04 quali le Parole da dirle sopra la provvisione del danaio e il primo Decennale) e che percorre anche i capitoli iniziali del primo libro dei Discorsi, probabilmente non di molto posteriori al “Dell’Ambizione”, se, come pare, furono estrapolati da una perduta opera sulle repubbliche composta da M. ante res perditas. La sconfitta di Agnadello era stata festeggiata con giubilo dal popolo fiorentino, ma nel finale del capitolo M. guarda con preoccupazione al dilagare dell’ambizione ‘cattiva’ (quella, cioè, non accompagnata da «ordine e ferocia»: v. 165) anche fra le città toscane, invocando per queste, e per Firenze in primis, un «miglior ordine» capace di indirizzare a buon fine – grazie, soprattutto, all’impiego di armi proprie – le spinte altrimenti autodistruttive del-l’ambizione stessa. Il capitolo, quindi, correda la riflessione morale con quel momento ‘sociopolitico’ che era invece mancato nel “Di Fortuna”, e sotto questo aspetto deve essere rilevata la sua vicinanza ad alcuni capitoli dei Discorsi, quali I lv e soprattutto I i, dove verranno meglio precisate alcune nozioni solo abbozzate nel capitolo: la «viltà» e l’«ozio» che incoraggiano il diffondersi dell’ambizione saranno infatti lì ricondotte non solo alla «natura» dei popoli, ma anche a quella dei luoghi più o meno fertili in cui essi vivono; e la «fiera educazione», cui al v. 117 – certo pensando, di nuovo, all’Ordinanza – si accenna come all’unico strumento utile a spezzare il nodo mortale viltà-ambizione, non verrà fatta discendere dal solo «esercizio», ma anche dalla «necessità», che impone ai popoli meno fortunati di «industriarsi» per ampliare il loro dominio e difendersi dagli Stati vicini.
È indubbio che questi tre poemetti, essendo, come il primo Decennale, opera di un esponente di spicco della Repubblica, e risalendo agli anni in cui più stretta era la collaborazione di M. con Piero Soderini, presentino una chiara coloritura politica e si propongano quindi di intervenire sulla situazione fiorentina del momento. “Di Fortuna”, in cui, nonostante il tono pessimistico di fondo, si manifesta la preferenza per i comportamenti energici e impetuosi, «potrebbe intendersi come un tentativo, per quanto mediato, di creare opinione fra i sostenitori del ‘governo’ a favore di una politica estera e, soprattutto, interna, di iniziativa e di movimento, imperniata sulle milizie nuove» (G. Inglese, introduzione, cit., p. 89). “Dell’Ingratitudine” sembra voler mettere in guardia contro i pericoli per la stabilità dello Stato insiti nella facilità con cui in una repubblica si diffondono e trovano udienza le «calunnie» a danno dei buoni cittadini: «E le triste calunnie e tanto ardite / contr’a’ buon cittadin tal volta fanno / tirannic’uno ingegno umano e mite» (vv. 148-50); e alla pericolosità delle «calunnie» in uno Stato repubblicano è riservato il cap. viii del libro I dei Discorsi, anch’esso appartenente alla sezione più antica dell’opera.
Quanto all’ultimo dei tre C., dedicato a un sostenitore di Piero Soderini come Guicciardini, esso sottolinea con forza la necessità di reprimere l’ambizione ‘interna’, quella cioè dei singoli cittadini, che porta alla disunione e al proliferare delle «sette»: un probabile invito rivolto al gonfaloniere, questo, affinché tenga sotto controllo con la massima attenzione le manovre dell’infida opposizione ottimatizia, forse (come fa supporre l’uso tipicamente machiavelliano del verbo spegnere in chiusa, v. 187: «se grazia o miglior ordine non le spegne», riferito alle «faville» dell’ambizione) ricorrendo anche a misure drastiche. Il carattere più direttamente politico e ‘militante’ di questo capitolo rispetto ai precedenti – che appaiono maggiormente debitori della tradizione letteraria – è d’altronde dimostrato anche dalla presenza al suo interno di soli esempi moderni (Venezia, la Francia, Firenze) legati alla più immediata e bruciante attualità.
Alla convenzionalità dei contenuti corrisponde nei C. quella delle fonti, tutte riconducibili alla cultura di un letterato fiorentino del primo Cinquecento di formazione prettamente volgare e municipale; non la cultura degli umanisti, ma piuttosto quella della borghesia colta e dell’aristocrazia cittadina, dedite in prima istanza al commercio, alle professioni, alla diplomazia e alla politica. È la cultura fortemente tradizionale e non vastissima del primo M., facente capo quasi per intero a tre ambiti principali: un manipolo ristretto di autori latini (Ovidio, Livio, Valerio Massimo e pochi altri), in prevalenza appartenenti al canone scolastico; le opere delle tre ‘corone’, in particolare la Commedia, i Trionfi e l’Amorosa visione, anche per l’adozione preferenziale della terza rima e per il frequente ricorso alle personificazioni allegoriche; la poesia, la storiografia e la trattatistica volgari, segnatamente fiorentine, dei secc. 14°-15°. Dal punto di vista formale, domina incontrastato il modello dantesco, la cui pervasività, come già nel primo Decennale, è capillare a tutti i livelli (lessicale, sintattico, rimico e ritmico), fino al calco fedele di espressioni e interi versi; minore, ma ugualmente rilevante, l’incidenza di Francesco Petrarca volgare e quella di autori quattrocenteschi come Lorenzo de’ Medici, Angelo Poliziano e soprattutto Luigi Pulci.
Più nello specifico, il genere, o istituzione metrica che dir si voglia, del capitolo ternario di argomento politico-morale, benché sotto certi aspetti praticato da M. in modo innovativo (combinando i modelli danteschi, petrarcheschi e boccacciani con la tradizione dell’epistola in versi e del sermone rimato di stampo giovenaliano e oraziano), affonda le sue radici in una rigogliosa tradizione quattrocentesca, soprattutto fiorentina, illustrata da autori ai loro tempi assai noti quali Antonio di Meglio, Niccolò Cieco, Antonio Bonciani, Francesco d’Altobianco degli Alberti, Simone Serdini detto il Saviozzo e Francesco Accolti; una letteratura di larga diffusione, generalmente occasionale e rivolta a un pubblico semicolto, alla quale possono essere ascritti anche poeti quali Lorenzo Gherucci, Anselmo Calderoni, Bastiano Foresi e soprattutto Federico Frezzi, il cui Quadriregio – che conobbe vasta fortuna e che occupa un posto di primo piano nella poesia di imitazione dantesca – deve considerarsi, per la fusione della componente morale con quella allegorica e con quella storica, uno dei modelli primari dei Capitoli.
Meno stretti sembrano invece i rapporti che legano i C. a quella tradizione settentrionale che fiorì a cavallo tra Quattro e Cinqucento e che, muovendo da Antonio Vinciguerra (le cui satire vennero parzialmente stampate a Bologna nel 1495), da Niccolò da Correggio e Panfilo Sasso (cui si devono decine di ternari sui temi più diversi), da Antonio Fileremo Fregoso (autore, negli stessi anni di M., di poemetti filosofico-morali in terzine) e da altri, avrebbe di lì a pochi anni condotto alle satire ariostesche. Tutto fa pensare infatti, per i C. machiavelliani, a una genesi ‘autoctona’, anche alla luce della grande fortuna fiorentina del genere: basti considerare i numerosi ternari – satirici, dottrinali, bucolici, religiosi – di Lorenzo il Magnifico e basti ricordare che anche stretti amici del Segretario quali Biagio Buonaccorsi e il già ricordato Casavecchia si dedicarono al capitolo in terza rima. Anche nei C., dunque, come nei Decennali, M. si muove nel solco della tradizione comunale che fa capo al grande modello dantesco, sviluppando in chiave argomentativa e morale quella forma del ternario che il primo Decennale aveva sperimentato in direzione cronachistica.
Da questa tradizione i C. desumono, oltre a fondamentali caratteri metrico-stilistici, anche importanti particolarità strutturali e tematiche. Fra le prime, merita almeno un cenno la costruzione dei testi intorno a tre componenti principali, «una di esposizione delle caratteristiche del tema trattato; una seconda di ambientazione allegorica del tema stesso, che diviene un’entità personificata con il suo seguito; infine una terza parte dedicata agli exempla» (Matucci 1982, p. 111); componenti, tutte, nelle quali risulta decisivo il peso della tradizione toscana tre-quattrocentesca, e tra le quali un ruolo speciale gioca la terza, che nel caso del “Dell’Ingratitudine”, come già detto, occupa uno spazio preponderante, e che vede un progressivo incremento degli esempi moderni nel passaggio dal primo al terzo dei Capitoli. Gli esempi antichi sono quelli obbligati in tal genere di letteratura; tra questi non poteva mancare, nel capitolo “Dell’Ingratitudine”, quello di Scipione, titolare nel Quattrocento fiorentino di un vero e proprio culto, che trova espressione in innumerevoli testi a lui dedicati, fra i quali si segnala il ternario di Antonio di Meglio Il gran famoso Publio Scipïone, probabilmente messo qui a frutto da Machiavelli. In questi testi – non solo poetici: è opportuno ricordare almeno il Commento al Trionfo della Fama di Jacopo Bracciolini, che M. ben conosce e che nella parte dedicata al condottiero romano volgarizza la celebre epistola del padre di Jacopo, Poggio, a Scipione Mainenti del 1435 – l’accento cade sempre sui medesimi episodi, emblematici delle eccelse virtù sia militari sia morali dell’Africano.
Se topici sono gli esempi, non meno topiche sono nei C. machiavelliani le riflessioni politico-morali, delle quali – onde non sopravvalutare l’originalità teorica di simili prove – è bene tener presente la frequente dipendenza dalla tradizione fiorentina, letteraria come trattatistica. Quanto mai consueti sono infatti i temi affrontati, a cominciare dall’ingratitudine intesa come «vizio» specifico delle repubbliche, su cui insistevano, con i canonici exempla, testi fortunati quali l’epistola boccacciana a Pino de’ Rossi (ben nota a M., che la adopera anche nella lettera a Vettori del 10 dicembre 1513) o il Commentario della vita di Giannozzo Manetti di Vespasiano da Bisticci, che compose inoltre un ancora inedito Trattato contro a la ingratitudine (BNCF, Magliabechiano VIII 1442, cc. 224r-251v), forse tenuto presente da M. nel capitolo (cfr. N. Marcelli, introduzione a N. Machiavelli, Capitoli, 2012, pp. 72-73). Senza dimenticare altri scritti meno noti, ma egualmente importanti, come la pure quattrocentesca canzone morale di Niccolò Cieco “a detestazione dell’Ingratitudine” (in Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, 2° vol., 1975, pp. 198-200), che a sua volta rivela qualche affinità con il capitolo machiavelliano: per es., nella raffigurazione allegorica dell’Ingratitudine, che ha tra le sue compagne l’Avarizia; nel suo «velenoso dente» (v. 39), da confrontare con l’«arrabbiato dente» che M. gli attribuisce (v. 33); nella sconsolata chiusa (vv. 101-02: «chi serve amico ingrato alfin può dire: / Perduto è il tempo, l’amico e ’l servire»), riecheggiata da M. al v. 19 («E come gli anni del servir sien persi»).
Per l’ambizione, di cui M. tornerà a occuparsi nel-l’Asino (vv. 37-87), basti citare – oltre alle riprese dantesche, soprattutto dal canto XVI del Purgatorio – il Libro chiamato Ambitione di Bastiano Foresi (1480-1488 circa), di nove capitoli in terzine, stampato a Firenze intorno al 1485 con dedica a Lorenzo il Magnifico (ed. a cura di G. Corbo Cerruti, 1991). In questo complesso poema l’autore, deciso ad abbracciare la vita solitaria perché disgustato dalla corruzione e dalla violenza imperanti nel mondo, incontra l’Ambizione, che biasimando la sua scelta lo esorta a far ritorno in Firenze, e per convincerlo gliene narra le gloriose origini mitologiche; ma quando il poeta, persuaso, sta per tornare sui suoi passi, gli appare Virgilio, che lo mette in guardia contro gli inganni dell’Ambizione e, per indurlo a ritirarsi in campagna, gli espone la materia delle Georgiche, di cui il cap. ix altro non è che un volgarizzamento (rispetto al quale gli otto capitoli precedenti si configurano come una sorta di premessa e giustificazione autobiografica: e si badi che l’opzione anticivile prospettata da Foresi come rimedio al veleno dell’ambizione ricompare nella chiusa dei machiavelliani “Di Fortuna” e “Dell’Ingratitudine”).
Quanto alla fortuna, se l’archetipo è rappresentato come sempre dalla Commedia, dall’Amorosa visione e dal Quadriregio, i precedenti più diretti appaiono nuovamente ascrivibili alla poesia volgare di consumo (dove il tema è pressoché onnipresente), sia essa di genere satirico, gnomico, politico-morale o carnascialesco; mentre risulta inapprezzabile e indimostrabile l’influenza della pur ricca tradizione umanistica (da Poggio Bracciolini a Giovanni Pontano), come anche nel caso del “Dell’Ingratitudine” (si pensi al De ingratitudine fugienda di Giovanni Antonio Campano). A questo proposito, va ribadito che M. certo non conosceva il De fortuna di Pontano, uscito a stampa solo nel 1512, e che comunque gli rimase ignoto anche in seguito, come emerge dalla lettera a Vettori del 20 dicembre 1514, dove, replicando alla citazione del dialogo pontaniano fatta dall’amico nella sua lettera del 15, scrive al riguardo parole inequivocabili: «E conosco ogni dì che gli è vero quello che voi dite che scrive el Pontano» (Lettere, p. 345, corsivo redazionale). Le analogie con testi umanistici in latino sono in genere riconducibili a fonti comuni oppure all’inventario dei materiali topici, non diversamente da quanto accade nei Ghiribizzi, ai quali il detto attribuito a Tolomeo «sapiens dominabitur astris» («e verrebbe ad essere vero che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati»: p. 137) perviene certamente da un sapere diffuso, accessibile a M. per mille vie, da quella della poesia volgare (L. Pulci, Morgante XXVIII 6: «ché il sapïente supera le stelle») a quella della letteratura scolastica (C. Landino, Comento sopra la ‘Comedia’, a cura di P. Procaccioli, 1° vol., 2001, p. 447: «el docto astrologo dixe che ’l savio signoreggia a le stelle»; e anche 2° vol., p. 506).
La tradizione manoscritta dei C. comprende nove codici, tutti del 16° sec., e una stampa coeva:
AS = Firenze, Biblioteca medicea laurenziana, Ashburn. 564;
B = Città del Vaticano, Barber. Lat. 3945;
CM2 = Firenze, Autografi Palatini, Carte Machiavelli V 184;
H = Cambridge (Mass.), Harvard University, Houghton Library, senza segnatura;
MA2 = Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Magliab. VII 1186;
N = Firenze, Biblioteca nazionale centrale, II III 335;
NA = Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Nuove Accessioni 1024;
PAL =Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Palat. 288;
V = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5225;
G = L’asino d’oro di Nicolò Machiavelli con alcuni altri Cap. & Novelle del medesimo, Firenze 1549.
Le sigle sono quelle impiegate in Capitoli, a cura di Nicoletta Marcelli, 2012; i mss. AS, H, MA, PAL sono stati scoperti in anni recenti (cfr. Jodogne 1983, Marcelli 2009). Come già detto, solo “Dell’Ingratitudine” presenta una tradizione autonoma, costituita da cinque manoscritti (CM, H, MA, N, PAL); MA2 e PAL recano tracce di probabili interventi censori, mentre H è di scarsa utilità, poiché trasmette soltanto i vv. 169-77, all’interno di una lettera di Ludovico Alamanni a Francesco Guicciardini del 19 ottobre 1518. Benché sia probabile che anche gli altri due C. abbiano circolato singolarmente, di essi non ci è pervenuto alcun testimone indipendente: sono infatti tràditi esclusivamente da AS, B, G, NA, V, che contengono l’intero corpus e che annettono al gruppo, in posizione iniziale, anche l’epigramma “Dell’Occasione”, in virtù dell’omogeneità metrica. Le varianti di questi testimoni sono compatibili con la normale fenomenologia della copia e non forniscono alcun documento di pluriredazionalità; i titoli, non sempre presenti, adottano talora la forma latina (“De Fortuna capitulum”, e simili). Data la natura occasionale di tali componimenti, tutti dettati da circostanze contingenti, pare improbabile che la loro aggregazione materiale si debba all’autore; una conferma di ciò potrebbe trovarsi nel variabile ordinamento offerto dai testimoni (AS: “Dell’Ingratitudine”, “Dell’Ambizione”, “Di Fortuna”; B + NA: “Dell’Ambizione”, “Dell’Ingratitudine”, “Di Fortuna”; V: “Di Fortuna”, “Dell’Ambizione”, “Dell’Ingratitudine”; G: “Di Fortuna”, “Dell’Ingratitudine”, “Dell’Ambizione”).
In epoca moderna, i C. sono stati letti a lungo nell’edizione curata da Mario Casella (in N. Machiavelli, Tutte le opere storiche e letterarie, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, 1929, pp. 841-53), che si fonda su B (correggendone gli errori con l’ausilio di V e, talvolta, di G) e che dispone i componimenti nell’ordine verosimilmente cronologico già adottato in G e poi ripreso dagli editori successivi. Ora disponiamo di due edizioni critiche e ampiamente commentate, curate da Giorgio Inglese (1981) e da Nicoletta Marcelli (2012); mentre a Mario Martelli (2005 e 2006) si devono le singole edizioni commentate di due capitoli, “Di Fortuna” (basata, quanto al testo, sull’ed. Inglese) e “Dell’Ingratitudine” (con un nuovo testo critico). Inglese disegna, limitatamente alla raccolta organica dei tre C., uno stemma a due rami, e non esclude l’esistenza di un archetipo; il testo da lui così ricostruito di “Di Fortuna” e “Dell’Ambizione” è sostanzialmente accolto da Marcelli (2012), che rinuncia a tracciare lo stemma, ma che solo in alcuni luoghi fa posto a lezioni diverse. I due editori concordano anche nel ricorso, per le forme e la grafia, a B, copiato da Biagio Buonaccorsi e più vicino degli altri codici alle abitudini linguistiche di Machiavelli.
Quanto al “Dell’Ingratitudine”, secondo Inglese (Nota al testo, in Capitoli, 1981, pp. 170-73) CM e N sono portatori di varianti d’autore, e N risale a una seconda stesura o a un esemplare corretto dall’autore; egli però non accoglie a testo le loro lezioni, confinandole in due apparati specifici, e preferisce fondarsi anche in questo caso sui codici della tradizione organica, giacché ritiene che M., quando procedette all’accorpamento dei tre C., ne abbia eseguito un’ulteriore revisione testuale. Invece, secondo Martelli (2006) e Marcelli (Nota al testo, in Capitoli, 2012, pp. 508-17) ci troviamo di fronte a due distinte redazioni del capitolo, l’una trasmessa da CM, l’altra dai rimanenti testimoni (compresi quelli che tramandano l’intero corpus): solo la prima, però, risalirebbe all’autore (si tenga presente che il copista di CM è Guido Machiavelli, terzogenito di Niccolò, e che in questo manoscritto il capitolo conserva, nel titolo Joanni Folci Niccolaus Maclavellus, un probabile residuo della sua originaria funzione epistolare), mentre la seconda sarebbe frutto di una cospicua revisione sostanziale e formale eseguita da altri. Di conseguenza, sia Martelli sia Marcelli mettono a testo la lezione di CM, stampando separatamente la redazione vulgata sulla base di B.
Bibliografia: Edizioni: N. Machiavelli, Capitoli, introduzione, testo critico e commentario di G. Inglese, Roma 1981; N. Machiavelli, Capitoli, a cura di N. Marcelli, in Id., Edizione nazionale delle opere, III.2, Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina et al., coordinamento di F. Bausi, Roma 2012, pp. 69-128 e 496-518.
Per gli studi critici si vedano: M. Martelli, I Ghiribizzi a Giovan Battista Soderini, «Rinascimento», 1969, 2, 9, pp. 147-80; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 69-99; A. Matucci, Le terze rime di Machiavelli, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», 1982, 47, pp. 93-182; P. Jodogne, Una citazione sconosciuta del capitolo de la Ingratitudine di Machiavelli in una lettera di Lodovico Alamanni a Francesco Guicciardini (1518), «Studi e problemi di critica testuale», 1983, 26, pp. 29-34; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 19933, pp. 245-48, 279-83 (1ª ed. Napoli 1958); F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, pp. 135-43; M. Martelli, Machiavelli tra retorica e politica. Il capitolo Di Fortuna a Giovan Battista Soderini, «Interpres», 2005, 24, pp. 147-75; M. Martelli, Machiavelli tra politica e retorica. Il capitolo De ingratitudine a Giovanni Folchi, «Interpres», 2006, 25, pp. 169-224; N. Marcelli, Due testimoni sconosciuti dei Capitoli di Niccolò Machiavelli, «Filologia e critica», 2009, 34, pp. 282-89.