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Capocchio

di Pietro Mazzamuto - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Capocchio

Pietro Mazzamuto

. Alchimista, personaggio dell'Inferno (XXIX 124-139, XXX 1-30). La maggior parte dei commentatori antichi (Anonimo, Guido da Pisa, Pietro, ecc.) lo fa nascere a Firenze (però il Buti, il Landino e qualche altro lo dicono di Siena) e sostiene che sia stato compagno di studi del poeta " in physica " (Lana) o " in filosofia naturale " (Buti), probabilmente in quei ‛ corsi di tecnologia chimica ' che D. frequentò per iscriversi all'arte dei medici e degli speziali (Crivelli, Mattalia). Poiché " di grande ingegno ", in filosofia giunse a tanto, " che poi si diede all'alchimia credendosi venire alla vera; ma mancando nelle operazioni s'avvenne alla sofistica " (Buti), cioè si diede a falsificare sottilmente ' i metalli. Lo tramandano anche come " subtilissimus inventionis et ymaginationis artifex " (Graziolo), quanto dire come spirito ' arguto ed estroso ' : racconta, infatti, Benvenuto che un giorno " effigiavit sibi totum processum passionis Domini in unguibus mira artificiositate, et cum Dantes superveniens quaereret : quid est hoc quod fecisti? iste subito cum lingua delevit quidquid cum tanto labore ingenii . fabricaverat "; e, ancora, l'Anonimo attribuisce la sua alchimia alle attitudini imitatorie che possedeva in sommo grado, così che sapeva " contrafare ogni uomo che volea e ogni cosa " ed egli " parea propriamente la cosa o l'uomo ch'egli contrafacea in ciascun atto ", dopo di che " diessi nell'ultimo a contrafare i metalli, come egli facea gli uomini ".

Come alchimista fu arso a Siena il 15 agosto 1293: si possiede il documento dal quale risulta che il comune di Siena pagò trentotto soldi di fiorino a tre ribaldi, perché giustiziassero C. e il figlio di ser Guido da Pometta (ma secondo il Lisini, citato dal Rossi in D. e Siena, op. cit., p. 42, C. sarebbe per l'appunto figlio di ser Guido da Pometta). Altra testimonianza potrebbe essere quella contenuta in un verso di Cecco Angiolieri: " Forse che riguardato par Capocchio " (Torraca).

D. lo condanna tra i falsari di metalli nella decima bolgia dell'ottavo cerchio e immagina sia che egli, tremante e lebbroso - è la sua pena - intervenga nel dialogo con Griffolino d'Arezzo quando D. chiede se vi siano uomini più vanitosi dei Senesi, e dica con divertita ironia che da quella gente vana bisognava escludere Stricca e Nicolò dei Salimbeni e la brigata di cui faceva parte Caccia degli Scialenghi e Bartolomeo dei Folcacchieri, detto l'Abbagliato, proprio i più vanesi e spendaccioni; sia che inviti il poeta a far ricorso alla memoria per riconoscere lui ch'era stato raffinato alchimista e abile imitatore (buona scimia) o della natura, degli uomini e delle cose naturali (Barbi, Crivelli); o per natura, per attitudine innata (Chimenz) : l'episodio di C. si chiude con la rapidissima e sconcertante scena di Gianni Schicchi che lo morde furiosamente alla nuca e lo riduce col ventre a terra, perché questa glielo ‛ gratti ' col suo fondo rude e petroso. Ora, secondo alcuni, D., che ha già usato dell'ironia su Lano de' Maconi da Siena (If XIII 120-121), scialacquatore come gli altri Senesi ricordati da C., e tornerà sull'immagine della gente vana nell'episodio di Sapia (Pg XIII 151-154), sembra voler condannare la città toscana per le sue dissipazioni, sicché l'ironia messa nelle parole del personaggio " va intesa come una forma di condanna indiretta e canzonatoria, perché era questa la forma più adatta per una condanna rivolta a gente, che è soltanto sciocca, vana, senza consistenza, che non merita perciò considerazione di forma più tragica " (Chiari); secondo altri, C. muove sì da " un segreto rancore " contro i responsabili della sua morte, ma il " brio motteggevole " con cui dipinge i Senesi "ad uno ad uno nelle loro stolte e ridicole vanità ", " il gusto e il compiacimento della sua arte di morditore ", sono più forti " del rancore che egli serba ", nel senso che vale più l'arte dell'ironizzare e dello schernire che l'oggetto dell'ironia e dello scherno (Sapegno) o nel senso che la severità morale del poeta sembra rilassarsi o stemperarsi in " questo scherzevole e confidenziale motteggiare " (Vossler); secondo altri, ancora, " Capocchio non si propone davvero di colpire Siena, né tanto meno ha intenzione di mettere sotto accusa gli allegri abitanti di quella città; da bravo opportunista smaliziato e mordace, vuol soltanto accaparrarsi la simpatia e la solidarietà di Dante " (Mariani).

Bibl. - C. Mazzi, Documenti senesi intorno a persone o ad avvenimenti ricordati da D.A., in " Giorn. d. " I (1894) 31 ss.; La sala della Mostra e il museo delle tavolette della Biccherna, Siena 1903 (a c. dell'Archivio di Stato); L. Rocca, Il c. XXIX dell'Inferno, Firenze 1907; N. Zingarelli, Il C. XXIX dell'Inferno, ibid. 1917; P. Rossi, D. e Siena, nel vol. misceli. D. e Siena, Siena 1921, 41-43; G. Mengozzi, Documenti danteschi del R. Archiv. di Stato di Siena, in D. e Siena, cit., 134-135; M. Finzi, I falsari nell'Inferno dantesco, in " Giorn. d. " XXVII (1924) 216-237; K. Vossler, La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata, Bari 1927, II n 120; E. Crivelli, D. e gli alchimisti, in " Giorn. d. " XXXVIII (1937) 29 ss.; N. Sapegno, Il C. XXIX dell'Inferno, Roma 1952 (rist. in Lett. dant. 565-580); S.A. Chimenz, Per il testo e la chiosa della D.C., in " Giorn. stor. " CXXXIII (1956) 161-188; B. Bruni, Il c. XXIX dell'Inferno, Torino 1959; G. Mariani, Il C. XXIX dell'Inferno, in Lect. Scaligera 11027-1056.

Vedi anche
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Vocabolario
capòcchio
capocchio capòcchio s. m. [der. di capo], ant. – Persona di poco intelletto, balordo. ◆ Accr. capocchióne.
capòccia¹
capoccia1 capòccia1 s. m. e f. [der. di capo] (pl. m. i capòccia, f. le capòcce). – 1. Capo della famiglia colonica (capostipite della famiglia naturale o membro al quale sia conferita autorità di capo dagli altri familiari). Nell’uso tosc.,...
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