CAPPELLO (etim. v. cappa; fr. chapeau; sp. sombrero; ted. Hut; ingl. hat)
Copricapo che asseconda la forma della testa, circondato quasi sempre da un breve lembo sollevato o abbassato, detto tesa. Se ne trovano tracce fin dalla più remota antichità e presso tutti i popoli.
In Cina imperatori e nobili portavano una specie di cappello a calotta quadrata con cordoni di seta, il mien. Il Giappone ebbe larghi copricapi di paglia o di fibra di bambù. Acconciature complicate, talvolta arieggianti il cappello, ebbero gli Egizî. Nell'antica Grecia e poi in Roma si portarono varie fogge di copricapi, per i quali si rinvia alle voci causia; cecrifalo; cucullo; cuffia, petaso; pilfo; tutulo. Nel Medioevo si portò dapprima in Italia una sorta di cappuccio, che ricadeva dal capo a coprire anche le spalle, detto almuzio: poi, quando esso andò in disuso, fu sostituito con berretti di varia foggia, soprattutto fra il popolino di città e nel contado, mentre patrizi e nobili rimasero fedeli al cappuccio, costituito dal mazzocchio, che era il vero copricapo, da cui scendeva fino alla spalla sinistra una falda chiamata foggia e, dietro, una punta di panno detta becchetto, lunga spesso fino ai piedi. Questo cappuccio durò sin verso il termine del sec. XIII e fu soppiantato poi completamente dai berretti e dai cappelli. Da cappello servirono dapprima per le donne cerchi di metallo o intrecci di nastri, penne e fiori, ornati talvolta di gemme, o anche rozzi copricapi di paglia sostituiti spesso dal bicorno da cui si partivano veli ondeggianti o dal cappuccio (v.). Nei conti della corte di Ferrara del 1367 troviamo menzionato "un chapelo d'oro et perle". Ma solo al tempo di Luigi XI di Francia il cappello diventa d'uso comune in Europa. Il cappello di feltro o castoro cominciò a fabbricarsi assai probabilmente all'inizio del Quattrocento, ma il primo che si ricordi è quello che portava nel 1494 Carlo VIII entrando a Roma, foderato di velluto rosso e adorno di un fiocco d'oro.
Nel Cinquecento troviamo anche in Italia, come dappertutto in Europa, splendidi copricapi. Venezia, accanto al corno dogale, ebbe il copricapo di panno rosso fasciato di pelliccia e ricadente sugli omeri in nappe; Napoli vide i suoi gentiluomini con berretti di velluto o con cappelli piumati; Milano usò velluto turchino con penne bianche; Torino berrette varie e cappelli di castoro, lana o paglia, foderati di seta. Cappelli e berretti vengono però portati generalmente dai nobili, mentre il popolo continua a usare il cappuccio. Solo più tardi il cappello si estese a tutte le classi, dapprima a forma rotonda, con l'orlo in basso (cappello a ruota), poi variamente foggiato e colorato. Col sopravvenire della dominazione spagnola si diffondono ovunque i pesanti cappelli ornati di trine, di fiocchi, di medaglie, di piume, così per i gentiluomini come per le dame.
Alla corte di Luigi XIII, essendosi introdotto l'uso della parrucca, il cappello acquista falde amplissime, con uno o due lati rialzati; i popolani e i nobili che non adottarono la moda di corte diedero ai ripristinati berretti larghe tese di seta, di velluto o di feltro. Sotto il Re Sole il cappello diventò più basso e più stretto d'ali, sin che ai primi del secolo XVIII si adotta il tricorno, con l'orlo arrotolato e piegato in modo da formare tre punte. Questa forma di cappello domina in tutto il Settecento; l'uso della maschera lo rende ancor più diffuso; e portano il tricorno le leggiadre figure eternate dal pennello del Longhi e del Guardi. Cappelli con tese amplissime si portano durante la Rivoluzione; mentre l'Impero rende popolare di nuovo il petit chapeau di Napoleone. Nel 1796 fu inventato il cappello a staio che, nato durante la Rivoluzione francese, dilagò poi in tutta l'Europa, diversamente accolto, ma riuscendo a vivere con notevole fortuna sino ai giorni nostri. Dal cappello a staio deriva quello più propriamente detto cilindro, creato intorno al 1805 dal cappellaio londinese Herrigton che fu anzi, per tale sua creazione, solennemente ammonito come perturbatore della pubblica quiete dal lord Mavor. Nel 1812, poi, nacque il gibus, quel caratteristico copricapo di seta inventato da un cappellaio parigino appunto di tal nome: tipico e originale ordigno, al quale un sistema di molle d'acciaio sottilissime, rientranti, permette di essere ripiegato su sé stesso. Sebbene molti seguitassero, nel primo Ottocento, a preferire il tricorno al cilindro, questo si affermò sempre più come cappello da cerimonia e tale rimane anche ai nostri giorni. ll cappello maschile d'uso ha invece mutato di continuo le sue forme, dal cilindro bassissimo e chiaro, a larghe falde, dei tempi della bohème, all'ampio feltro scuro usato in Romagna e inviso all'Austria come foggia rivoluzionaria, al piccolo cappello duro e basso, all'infinito numero dei cosiddetti cappelli a cencio, fatti di feltro molle, divisi talvolta in mezzo da una piega. Quanto ai cappelli femminili, al principio dell'Ottocento si inizia lo sviluppo di quella che diverrà poi una grande industria italiana: quella dei cappelli di paglia di Firenze (v. oltre). Anche per gli uomini all'uso del cappello di feltro si alterna da molti decennî quello del cappello di paglia estivo, rotondo, la cosiddetta paglietta o magiostrina.
Nei paesi nordici si riscontra un'evoluzione del cappello press'a poco analoga a quella tracciata per i paesi latini. Dai berretti a due punte rilevate o dai curiosi cilindri felpati germanici, effigiati del Dürer, si passa nel Seicento e nel Settecento a fogge più ampie. In Inghilterra prima della Riforma protestante si portò un cappello di feltro o di castoro, basso di testa e a larghe tese rivolte in alto. Il Seicento vide i puritani con il tipico severo high hat, il Settecento ebbe il tricorno e l'Ottocento, come si è detto, il cilindro. Il cappello fiammingo culmina nei larghi feltri alla Van Dyck o alla Rubens, che assumeranno in seguito forma più accentuatamente cilindrica. Le regioni più fredde restano in massima fedeli al berretto.
È impossibile seguire in tutte le sue innumerevoli variazioni il cappellino femminile dall'Ottocento in poi; fatto di panno, di velluto, di raso, di paglia, di crine, di merletto, di pelliccia; semplicissimo o carico di piume, di fiori, di nastri, di frutta, di spilloni, di fermagli. Accenneremo solo a certe fogge più tipiche: il cappello Gainsborough, così chiamato dal nome del celebre pittore inglese, cappello di feltro ampio, rialzato da un lato, ornato di grandi piume, il cappello cabriolet, in voga verso il 1830-40, raccolto intorno al viso e chiuso sotto il mento da larghi nastri; il capriccioso cappellino del Secondo Impero, piccolissimo, sospeso in cima al complicato edificio della pettinatura: gli enormi cappelli piatti che, venuti in voga nei primi anni del 1900, creavano dei veri problemi di viabilità, ogniqualvolta due donne s'incontrassero sulla soglia d'una porta. Nel dopoguerra è notevole, insieme all'uniformità delle fogge, a campana o a piccolo turbante, che confonde le età e le condizioni, la bizzarria dell'alternarsi a capriccio del panno e della paglia, senza riguardo alla vicenda delle stagioni. Anche negli ultimi anni è continuata, attraverso qualche passeggera eclisse, la voga dei cappelli di Panama, così chiamati dal luogo d'origine, grandi, morbidi e leggerissimi.
Forme speciali hanno i cappelli ecclesiastici; agli antichi copricapi, la mitra, la tiara, il triregno si aggiunsero i veri e proprî cappelli di forma rotonda; quello del papa, usato per la prima volta da Innocenzo IV, è rosso porpora, con orlo e fiocchi d'oro; lo stesso pontefice prescrisse nel 1245, al Concilio di Lione, l'uso per i cardinali del cappello rosso a 15 nappe. Nel Quattrocento si cominciò in Spagna ad usare quello verde con 10 nappe per gli arcivescovi e con 6 per i vescovi. Il cappello episcopale passò dalla Spagna in Francia e divenne nero. Il basso clero portò prima anch'esso l'almuzio, poi vi sostituì in parte l'orlicolare, che fu proibito. Anche un tentativo di adottare, nel 1495, il cappello a tre punte, venne represso, ma poi l'uso del tricorno si estese a tutti, ecclesiastici e secolari, sino alla Rivoluzione francese. I tre angoli rimasero quindi solo per il cappello ecclesiastico, ancor oggi in uso accanto al cappello viatorio, rotondo, di feltro felpato (v. anche berretto; tricorno; zucchetto, ecc.).
I cappelli universitarî, o i berretti, qualificarono sin dal Medioevo le diverse classi di studenti o d'insegnanti. Il rector magnificus portava cappello da principe con ermellino; i dottori e i prelati distinti un biretum rosso; i magistri e i prelati di rango inferiore un cappello bruno; gli studenti portarono copricapi di varî colori a seconda delle facoltà, di due logge distinte: o il calottino rotondo come a Pavia, o il cappello a punto e ad ali rialzate come a Torino.
Speciali forme di cappello vennero imposte in altri tempi agli ebrei ai debitori, ai falliti dolosi, alle adultere, ecc. Speciali fogge e colorazioni contraddistinsero i varî mestieri o particolari classi di persone. Così come oggi il cappello a bicorno, o feluca, con galloni d'oro, vien portato da alti personaggi: ambasciatori, ammiragli, accademici o per speciali divise e circostanze. (V. tavv. CCXV a CCXX).
Industria.
Le corporazioni artigiane del cappello. - Sorpassato il periodo in cui ognuno provvedeva da sé alla confezione dei proprî indumenti, anche la produzione e il commercio dei cappelli furono oggetto di una particolare attività professionale e diedero origine alla costituzione di fratellanze e collegi d'arte e mestieri nei maggiori centri d'Italia e dell'estero. Mentre la Francia ha già nel 1292 i suoi Chapeliers organizzati e distinti, in Italia i più vecchi statuti di quest'arte che si conoscano sono bensì quelli del 1280 degli homines artis cappellariorum di Venezia, ma rappresentano un'eccezione, e bisogna giungere poi sino al 1425 per trovare gli statuti dell'"onorata compagnia temporale de' cappellai" di Bologna; del 1442 sono quelli di Città di Castello e del 1473 quelli di Savona. Questo fatto si spiega con la circostanza che i lavoranti cappellai continuarono in origine a far parte delle affini corporazioni dei lanaioli e soltanto quando se ne separarono, troviamo più frequenti accenni a statuti di quest'arte: così le ordinanze statutarie dei "cappellari di lana et feltro" di Milano del 1568, quelle di Palermo del 1614 e quelle ancora più recenti di altre città.
Attraverso i capitula del paratico dei cappellai milanesi (eretto con grida del 4 dicembre 1568) ci è possibile formarci un idea approssimativa di ciò che fosse il carattere di queste organizzazioni, le quali rientravano, per molti dei loro aspetti, nel consueto tipo statutario delle corporazioni (v.). Queste corporazioni furono caratterizzate sempre della presenza di un profondo spirito religioso.
Patrono delle corporazioni dei cappellai fu S. Giacomo Apostolo: alcune corporazioni (p. es. Milano) festeggiavano S. Giacomo detto il Minore il 1° maggio, altre (p. es. Roma e Monza) festeggiavano S. Giacomo Maggiore detto anche di Compostella, il 25 di luglio. Con l'andar degli anni dei due culti prevalse il secondo. È incerta la causa che indusse i cappellai a prescegliersi per patrono S. Giacomo. Sta di fatto che S. Giacomo fu scelto come protettore dei cappellai dagli Spagnoli, può essere quindi che la frequenza di rapporti fra i produttori di merinos di Segovia, Valenza, Galizia e i mercati italiani, abbia servito a diffondere in Italia questo culto. In America, il patrono dei cappellai è S. Clemente.
Le corporazioni dei cappellai partecipano al fenomeno di trasformazione cui andarono soggette tutte le corporazioni: scompaiono o mutano ordinamento parecchi sodalizî e fra la fine del sec. XVIII e l'inizio del XIX le comunità artigiane che esistono in Italia sono spiccatamente intese al mutuo soccorso e alla previdenza. Tali il Pio Istituto dei cappellai di Torino del 1736, l'Università dei lavoranti cappellari di Roma del 1757, l'Associazione dei cappellai di Napoli del 1817 e le Pie Istituzioni dei lavoranti dei cappelli di feltro di Milano e di Monza del 1833. A questo e ad altri fenomeni si accompagna, influendovi, la ricerca, prima timida e localizzata solo in alcuni paesi, poi un po' in ogni dove, dei primi accorgimenti meccanici. Un po' per la loro novità e l'incognita che rappresentavano, e molto per il misoneismo che ha avversato sempre tutte le innovazioni suscitando preoccupazioni di vario genere, questo primo avviarsi dell'industria del cappello alla meccanizzazione suscita paure e malcontenti, sia tra i fabbricanti che non possono o non vogliono seguire il progresso, sia fra gli operai che temono che abbia a derivarne una rarefazione della mano d'opera. Si affacciano così anche nella industria del cappello le prime agitazioni: in Francia sino dal 1796 per aumenti di mercede in Italia nel 1868 contro l'adozione dell'arsone meccanico e poi giù per gli anni a noi più vicini, con un crescendo sempre maggiore.
In Italia, nella prima metà dell'800, sorge con programma nettamente classista la "Federazione italiana dei lavoranti dei cappelli" e tiene il campo fino al 1922. Dal canto loro sino dal 1890 anche i fabbricanti di cappelli, si erano costituiti nella Federazione italiana fabbricanti di cappelli, che preludeva all'attuale "Federazione nazionale fascista della industria del cappello" che inquadra oltre un migliaio di aziende con circa ventimila operai.
Materie prime. - I cappelli a seconda del loro uso e della loro qualità vengono confezionati con diverse materie prime, animali o vegetali: coniglio, lepre, castoro, vigogna, agnello biennale, capra d'angora, talpa ed altri, fra gli animali; paglia di frumento marzuolo, di segale, di riso, cotone, legno, cardo, pioppo, epilobio, ecc., fra i vegetali.
Il pelo. - È costituito da una cuticola alla sua base, da un secondo strato epidermico detto rite mucosum, dal dermis papillare e dal corium; la sezione anatomica del pelo mostra una parte esterna composta di una embricatura di scaglie piatte, poi uno strato di cellule fibrose, infine un tessuto midollare di cellule circolari. Questa embricatura di scaglie permette l'impiego del pelo in cappelleria per la naturale disposizione di esse a intrecciarsi, disposizione che, artificialmente aiutata, produce la feltrazione del pelo nel tessuto compatto che forma poi il cappello.
Non tutti i peli servono in egual misura alla confezione dei cappelli, presentando diversa morbidità e finezza. Per i cappelli più fini si usa pelo di castoro, di lontra, di nutria, di ondatra o rat musqué, di lepre e di coniglio garenne; per quelli meno fini invece si impiega pelo di vigogna, camoscio e coniglio clapier.
Il pelo di castoro è il più fino, più raro e più costoso, tanto che raramente si usa da solo e per lo più si mescola con altri. È d'un bel colore bruno castano, caldo, soffice e forte, e le migliori qualità provengono dalla Baia di Hudson, dal Canada e dalla Louisiana. Apprezzatissimo è pure il pelo di lontra fittissimo e lucente, d'un colore che a seconda delle qualità va dal bianco al bruno castano, morbido come seta; è pure pregiato quello del nutria (mus castoroides) che vive sulle rive del Paraná e dell'Uruguay, bruno rossiccio, lungo, morbido al tatto come quello della ondatra più propria del Canada. Fine e soffice è il pelo di lepre; di colore variabile con la qualità dell'animale è quello del coniglio selvatico, allevato in recinti detti garennes. La qualità migliore è data dagli allevamenti di Scozia e Australia. Meno fini ma non spregevoli sono le pellicce del coniglio domestico o clapier, che ha magnifici esemplari come il Nankin, fulvo, l'argentato di Champagne, il coniglio bianco di Vienna, e le varie specie di coniglio semi-selvatico o petits-bons, come il bariolé, punteggiato o striato di nero. Il pelo di coniglio viene usato poi oltre che nella confezione dei cappelli più andanti, anche per aiutare la feltrazione di quelli fini. Il pelo di camoscio viene pure impiegato in diversi modi a seconda dell'età, del nutrimento e dell'allevamento, coefficienti questi che influiscono sulla sua finezza e sul suo colore.
Fra i varî elementi che particolarmente esercitano una ripercussione sulla qualità del pelo, il principale è quello della stagione nella quale vengono catturati gli animali da pelo. È l'inverno in genere che dà le pellicce più pregiate, poiché il pelo ha in quel periodo un colore più uniforme, senza macchie e striature. Il colore muta da paese a paese, senza però che ciò abbia influenza sul pregio del pelo: nei paesi caldi abbiamo tonalità forti, bruno-rossiccie, castane e fulve; e nei paesi freddi, grige, bianche e argentee.
Un altro coefficiente di pregio è dato dalla distribuzione del pelo sul corpo: più scuro dove è più esposto alla luce, come sulla schiena e sui fianchi; più chiaro sul ventre. Il pelo più pregiato è quello del dorso, delle spalle, delle cosce e dei fianchi; il cosiddetto pelo di "schiena"; quello meno pregiato proviene dal petto, dal ventre e dall'interno delle cosce.
Una speciale terminologia tecnica contraddistingue le varie specie di cappelli a seconda del diverso assortimento di pelo che li compone e della qualità e provenienza di esso. Cappelli a tre quarti di castoro si dicono quelli con tre quarti di castoro e uno di coniglio: di mezzo castoro quelli con due parti di castoro, una di coniglio e una di vigogna.
L'importanza del pelo nell'industria del cappello ha dato origine a una vera e propria industria di allevamento degli animali da pelliccia e a cacce organizzate periodicamente per quelli che non sono suscettibili di allevamento razionale. Le pelli prodotte in questi allevamenti o incettate dai cacciatori vengono poi concentrate in grandi mercati che si tengono a Londra, vicino al maggior centro produttivo che è la Scozia, a Saint Louis, a Bruxelles, ad Amburgo. In questi mercati si determina il prezzo delle varie qualità di pelo.
L'allevamento del coniglio costituisce un notevole cespite di ricchezza nazionale. I principali paesi produttori sono: la Francia, con 150 milioni di conigli all'anno, il Belgio, la Svizzera, la Germania e la California. In Italia si allevano circa 10 milioni di conigli all'anno e mercé gli sforzi dell'Istituto nazionale di coniglicoltura di Alessandria questa cifra sta per venire largamente superata. Un forte incremento alla coniglicoltura avrà come conseguenza una maggiore disponibilità di pelli di coniglio italiane sul mercato interno e per l'esportazione che ha notevole importanza.
Altra ripercussione si avrà in una certamente maggiore diffusione in Italia dell'industria del taglio del pelo, che è oggi ancora prevalentemente esercitata da fabbriche francesi, belghe, inglesi e germaniche.
La lana. - Dotata in assai maggior misura del pelo di potere feltrante, la lana viene largamente impiegata nella fabbricazione di un tipo speciale di cappello, per lo più di consumo popolare. Il potere feltrante della lana è dato dalla conformazione del pelo lanoso che presenta una caratteristica struttura embricale, con alla base sottilissime appendici laterali uncinate, protese verso l'interno, che, sotto l'azione degli acidi, entrano le une nelle altre, feltrandosi in un tessuto compatto. Questo pelo, di lunghezza variabile da pochi millimetri ad alcune diecine di centimetri, è di diverso diametro a seconda della sua qualità, e, come negli animali da pelo, la sua finezza muta a seconda della parte del corpo da cui viene tosato: più fine la parte tosata dalla spalla, meno fine il ventre.
La produzione del cappello di lana assorbe in tutto il mondo parecchî milioni di quintali di lana, prodotti soprattutto dall'Australia e dall'America meridionale. La lana impiegata è quella soprattutto delle pecore e capre, dei cammelli e delle auchenie. La lana di pecora più pregiata è quella della razza spagnola merinos (Andalusia occidentale ed Estremadura), una volta prerogativa degli Spagnoli, ora acclimatata anche in Argentina, nell'Africa meridionale e in Australia. Il suo pregio sta nella morbida foltezza e regolarità dei bioccoli che formano il suo vello. Lane di pecora inglesi molto usate sono le specie di South down, Shropshire down, Hampshire down, Suffolk down; notevoli le razze italiane romanina e piemontese; la cheviot delle montagne scozzesi; la elettorale delle regioni dell'Assia e la incrociata cross-breed.
La capra di Angora dà una lana detta moerro, lucente, morbida e ondulata. Ha una concorrente nella capra del Kashmir, il cui pelame bianco argenteo è morbido come piuma. Il llama d'America, il guanaco delle Cordigliere, il paco e la vigogna forniscono altre qualità di lana, di pregio diverso, che vengono, sole o commiste, usate nella confezione delle varie specie di cappelli. Si adopera anche la lana del ventre dei cammelli, ma quasi esclusivamente nella confezione dei cappelli da carabiniere italiani.
La paglia. - E la materia prima più anticamente conosciuta presso tutti i popoli nella confezione dei cappelli.
Noto certamente sino dall'antichità, troviamo il cappello di paglia affermarsi in Italia nell'età moderna e avere come principale centro di produzione l'Appennino tosco-emiliano: di Toscana vennero le pamele o monachine celebri in ogni età e in ogni terra, e dall'Emilia i trucioli di Carpi.
Il cappello di paglia ci riporta del resto con la sua storia al sec. XIV. Il Liber feudorum estense ricorda nel 1410 un capellum de paleis: poi sono i tri capelli de paglia cremonesi che costituivano il titolo di feudo per un'investitura ferrarese del 1447. La gabella di Siena della prima metà del sec. XV comprendeva fra le varie voci di tassazione anche i capegli di paglia, e un inventario delle masserizie del fiorentino Pucci risalente al 1449 annovera tre chappegli, uno di velluto nero e due di paglia. E paglia ha l'inventario della guardaroba Pitti nel 1548, artieri della paglia elenca una nota del 1574 e cappelli di paglia pone in repertorio la dogana fiorentina nel 1579.
Peraltro solo all'inizio del 1700 si può parlare di vera e propria industria toscana della paglia, con l'introduzione del grano marzolo (triticum sativum) fatta a Signa dal bolognese Domenico Sebastiano Michelacci il quale vi prese dimora nel 1714 e seppe a tal grado di perfezione condurre la coltura del marzolo ottenendone colmi sottili e uniformi, che la sua iniziativa, avversata dapprima, venne poi favorita dal governo toscano e seguita dalle popolazioni vicine e si affermò saldamente nella regione.
La paglia per cappelli è fornita da alcune qualità di grano: il semino dell'Abetone e il gentile rosso, particolarmente coltivati in Toscana, le cui fibre, costituite di fasci compatti segmentati in altrettanti tubi e sottili pareti porose con largo canale mediano, si prestano per la loro pieghevolezza ed elasticità all'esigenze della confezione fatta d'intrecci e di annodature. Altre fibre vegetali usate nell'industria del cappello sono l'alpha (stipa tenacissima), originaria della Tripolitania, Algeria e Tunisia, e lo sparto, coltivato nell'Africa Settentrionale e in alcune regioni del Mezzogiorno della Spagna.
L'Ecuador, il Perù e il Canale di Panama producono un arbusto particolarmente pregevole per la confezione dei cappelli: la carludovica palmata, la cui fibra, sottoposta a speciale trattamento, serve alla fabbricazione dei cappelli di panama, costosissimi per la difficoltà e lentezza della lavorazione. Il più fino è il panama equatoriale, a fibra arrotondata detto anche Montecristo; poi vi è il cuenca pure equatoriale, quindi il peruviano e ultimo il colombiano. La Livistona Australis dell'America centrale fornisce una fibra elastica e particolarmente resistente che serve per una qualità di cappelli affine al panama, ma meno pregiata.
Oltre a quelle citate si possono usare come materie prime, ma eccezionalmente, sughero, legno, carta, cotone, seta, ecc.
La lavorazione del cappello. - Feltri di pelo. - Scelte che siano le pelli, queste devono essere sottoposte a un'operazione (detta dégaler "disrognare") necessaria per ripulire il pelo dalla polvere e dalle impurità. Tale pulizia si fa con cardìni di ferro a minutissimi denti. Si passa quindi alla cernita dei peli non feltrabili (detti tara), e alla loro separazione da quelli adatti alla fabbricazione, e, mediante la sbarbatura, si elimina quella molle e corta peluria che si accompagna al pelo. Le pelli devono essere quindi sottoposte al cosiddetto secretaggio, vale a dire a un trattamento con una soluzione di nitrato di mercurio, arsenico bianco, e sublimato corrosivo disciolti in acqua, la quale ha come sua proprietà caratteristica quella di rendere atti i peli alla feltratura, ossia a quella commistione di pelo con pelo in una fittissima embricatura, che è caratteristica del feltro. Il secretaggio si fa strofinando nei due sensi la pelle con una spazzola di cinghiale imbevuta della sopraddetta soluzione mercuriale: le pelli, così trattate, vengono poi riunite pelo contro pelo a due a due e messe in stufe calde ad essiccare.
La pelle è così pronta a cedere il suo pelo per l'ulteriore trattamento nella confezione del cappello. A seconda della qualità del pelo si segue diverso metodo. Alcuni peli, come quelli di castoro e di coniglio, si tagliano; altri, come quello di lepre, invece si strappano. In entrambi i casi, bisogna, prima dell'operazione, ammorbidire le pelli in acqua di calce spenta. Il taglio del pelo viene fatto con un dispositivo di lame elicoidali giranti attorno ad un albero mosso con un volante a pedale.
Il pelo così tagliato deve poi essere preparato per la feltrazione vera e propria. La feltratura era preceduta dalla mischia del pelo, necessaria per ottenere i diversi gradi di finezza del cappello. Tale operazione veniva eseguita col cosiddetto accordellamento, che consisteva nello sfioccare il pelo in velli leggerissimi, mediante un apparecchio detto arco o arsone consistente in un arco di legno dolce, con una minugia tesa dall'una all'altra estremità, e sul quale l'operaio, dopo aver passato la corda nel mucchio del pelo da sfioccare adunatosi dinnanzi, batteva rapidamente con una mazzetta di bossolo, rimescolando il pelo con le vibrazioni trasmessegli. Questo arco o arsone assunse anche struttura diversa e uso meno rudimentale, ed ebbe talora forma di un telaio di legno attraversato da 8 o 10 coppie di corde equidistanti, con le quali si procedeva alla rimescolatura del pelo che si portava sotto una specie di grande arco da violino appeso al soffitto. Anche in questo caso l'operaio, impugnato a un'estremità l'arco, ne percuoteva a mezzo di un mazzuolo di legno la corda di budello alla quale era appeso, e le vibrazioni della corda trasmesse al pelo lo scuotevano e rimescolavano lanciandolo in alto e facendolo ricadere in velli soffici e leggerissimi. A questa operazione, dalla quale il pelo usciva già intrecciato in mille modi, seguiva la cosiddetta imbastitura mediante la quale il pelo era avvolto per strati sottilissimi in tela da imbastire inumidita, in modo da aumentare la forza filtrante dei peli e da favorirne sempre più l'intreccio. Congiunti questi strati di pelo in maniera da formare un solo feltro, se ne foggiava come un cono; poi per dare a questo cono maggior consistenza lo si sottoponeva alla cosiddetta follatura mediante la sodatura alla gualchiera con immersione in un bagno acidulo in ebollizione. Il calore agendo sul pelo ne completava l'arricciamento in un saldo tessuto e il cono di feltro poteva essere tolto dal bagno senza che se ne alterasse la forma; anzi era proprio in quest'ultimo stadio di lavorazione, che se ne operava la formatura, introducendovi a forza la forma e su questa modellando con le mani il cono di feltro. Formato che fosse, il cappello doveva essere tinto; poi, dopo essere stato esposto alternativamente a correnti d'aria calda e fredda, gli si toglievano i peli vani rimastivi durante la follatura, si abbruscava col setolino, se ne rialzava mediante lo scardassino il pelo nei punti in cui si era troppo schiacciato, e poi gli si dava l'appretto (v.) o apparecchio che gli conferiva il grado di saldezza richiesto. Il pezzo passava poi alla finitura.
Queste operazioni sono state trasformate dal progredire dei mezzi tecnici di lavorazione. Il secreto, che palesa nel nome d'origine personale a ciascun cappellaio di questa primissima operazione, non viene più eseguito dal fabbricante di cappelli ma da una particolare industria che raccoglie, prepara, taglia e vende il pelo già suddiviso per qualità e razza. Così la prima vera operazione del cappellaio è quella della mischia, fatta mediante macchine soffiatrici che aspirano e mandano il pelo in un battitore che con giro vorticoso lo immette in uno stretto corridoio orizzontale, dove incominciano a depositarsi i peli vani, e poi in una cassa, nella quale un cilindro di tela metallica lo riceve e lo porta in un'altra cassa; quivi un congegno combinato di altri cilindri con fitta dentatura, detti pickers, lo sottopone a continua selezione spingendo in alto il pelo buono e trattenendo in basso le materie impure.
Dopo la mischia, il pelo viene passato alla mescolatrice, destinata alle miscele delle diverse qualità di pelo necessarie ai varî tipi di feltro; poi alla pesatrice che lo ripartisce in tante unità di materia quante sono necessarie alla confezione di altrettante unità di feltri, e quindi alla arsonatrice o arcatrice nel cui nuovo congegno meccanico è scomparsa la caratteristica semplicità dell'arco a mano (arsone). Anche l'arsonatrice, pur sostituendo l'arsone a mano con un meccanismo a pale che sfioccava e mescolava il pelo, era sempre comandata da un volante a manubrio manovrato dall'operaio; nella seconda metà del sec. XIX si trasformava e scompariva, sostituita dalla imbastitrice, inventata nel 1860 dal Coq, di Aix-en-Provence, e perfezionata in Inghilterra dal Carrick, la quale, con gli ultimi tipi creati dalle case Heinze, Turner e Merloch e Hush ha portato la produzione giornaliera dell'archetto a mano da 10 cappelli a circa un migliaio per macchina.
L'imbastitrice, mediante l'azione di due pickers giranti vertiginosamente, assorbe da una pezza continua la quantità di pelo necessaria a formare il cono del cappello e la deposita su un tamburo a spazzola di crine il quale la proietta su un gran cono metallico bucherellato che, mediante un aspiratore interno, attira e trattiene il pelo. Quando sul cono la distribuzione del pelo vien giudicata sufficiente ed omogenea, la si sottopone a un getto d'acqua calda, poi queste falde o veli di pelo, detti campana o imbastitura, vengono tolti dal cono e . sottoposti da una centrifuga a una eliminazione degli eccessi d'acqua contenutivi. Indi, eseguita una prima sodatura a mano di controllo del velo, si sottopongono le imbastiture alla sodatura a macchina mediante le macchine slanatrici composte di rulli e cilindri sui quali si svolge una tela gommata, con scanalature parallele, a rotazione continua in una vasca di acqua bollente. Le imbastiture, avvolte a tre e quattro in tele resistenti, vengono portate con sé dai cilindri durante la loro rotazione e sodate.
Dopo la sodatura come sopra ottenuta con le slanatrici, si deve continuare il processo di feltrazione dei peli, il che si ottiene sottoponendo le imbastiture alla follatura, che - fatta una volta a mano con l'aiuto di manopole di legno che crociavano e scrociavano in ogni senso i feltri nell'acqua bollente - è ora affidato alle fouleuses a cilindri dette anche coq (dal nome dell'inventore), alle rolettatrici, alle mezzera a grande tamburo oscillante, anch'esse così chiamate dal nome del loro inventore italiano, ottenendo così via via la necessaria consistenza (v. tav. CCXX).
In ciascuna di queste operazioni, per eliminare le pieghe che la follatura produce nel feltro, si deve far subire all'imbastitura la crociatura come nella lavorazione a mano. Il numero medesimo delle operazioni che la sodatura richiede ne dimostra la difficoltà: tuttavia, se la follatura a macchina consente maggior resistenza di quella latta a mano, non raggiunge però il grado di perfezione, come tatto e regolarità, cui arrivava quest'ultima.
Quando la falda di feltro si è attraverso la follatura sufficientemente ristretta, così da coprire la forma alla quale è destinata, si procede alla sua sbarbatura, che serve a levare le irregolarità del pelo, e quindi alla informatura.
Generalmente questa operazione è fatta ponendo i feltri su appositi coni dove formano le cosiddette campane che, sotto l'azione delle dresseuses, cominciano a formare il cocuzzolo e le ali del cappello; e quindi, a mezzo di vapore umido, come si usò dapprima, o di vapore secco assumono la vera e propria forma definitiva del cappello. Essiccati che siano i feltri subiscono la rasatura o pomiciatura, praticata con speciali carte vetrate che li ripuliscono di ogni eccesso villoso rendendoli perfettamente lisci. L'informatura segna il limite della prima fase di lavorazione del cappello o fase in bianco. Dopo s'inizia la tintura o fase in nero.
Occorre notare che il cappello può essere tinto in diversi stadî della sua lavorazione. Si può operare sul pelo in fiocco e tale procedimento, usato solo per determinati tipi di colori, si fa con le macchine dette obermayer (dal nome dell'inventore) consistenti in una vasca nella quale per mezzo di una pompa il pelo viene continuamente attraversato da correnti di soluzioni colorate fino a che ha raggiunto il grado di colorazione voluto. Si può tingere al follone, vale a dire in caldaia durante la follatura, e tale operazione, altrimenti detta della tinta in zuppa, è usata con una certa larghezza per la facilità di penetrazione della tinta nel feltro ancora a mezza follatura, e per la maggior rapidità del lavoro. La vera tintura però è quella che si opera sui feltri già formati, sottoponendoli a ebollizione in un bagno di un colorante disciolto in una soluzione di solfato di sodio. Anticamente la tintura dei feltri si faceva con materie vegetali estratte da radici e legni speciali o da terre coloranti.
Per la tintura si usano oggi per lo più delle vasche nelle quali girano a immersione completa dei cilindri perforati contenenti i feltri. Questi cilindri, in continuo movimento rotatorio e di oscillazione, permettono la distribuzione uniforme della tinta, distribuzione ancor più favorita da un apposito dispositivo che muove i medesimi cappelli nei cilindri. Usati del pari sono il già descritto apparecchio a circolazione forzata del liquido, sul tipo dell'obermayer, la macchina a coni Meler e Rey, basata sul principio di dividere la circolazione della tintura, e l'antica ma sempre usata macchina a ruota. Ultimata la tintura e asciugati convenientemente i feltri, questi vengono passati alla informatura (v. tav. CCXX), che deve dare loro la forma e misura definitive, dopo di che i feltri subiscono una nuova pomiciatura in nero, una lucidatura o biscionnaggio, e un apposito appretto con un grasso speciale detto gandino. Il feltro è così pronto per passare alla piegatura, ora eseguita con macchine piegatrici dette sabbioni. Il feltro viene munito del cosiddetto marocchino, una striscia di pelle che lo cinge internamente, fatto per lo più con pelli di pecora e di capra conciate col sommacco - completato di fodera e di nastro e diviene pronto per la vendita.
Feltri di lana. La loro fabbricazione s'identifica in parte con quella dei feltri di pelo. Diverso è naturalmente il trattamento della materia prima. La lana presenta già di per sé, come si è visto, un notevole grado iniziale di feltrabilità e, più che altro, la preparazione che le si fa subire è un' operazione di sgrassatura e di pulizia, indispensabile per separare dai cascami di lana usati per l'industria dei cappelli, i detriti eterogenei che contengono. Tale pulizia si ottiene a mezzo di lavaggi con carbonato di soda e borace, in speciali apparecchi Zimmermann e poi, essiccata che sia, in una battitura con battilana o con apposite pettinatrici dette lupette (v. tav. CCXX). La lana quindi viene sottoposta a un trattamento chimico a base di acido solforico, detto carbonizzazione, che isterilisce le fibre vegetali; poi, convenientemente lavata, essa è pronta per la cardatura.
Apposite cardatrici, simili alla carda di filatura e come queste imponenti di mole e complicate di movimento, a mezzo di cilindri muniti di cardìni a fitte punte di acciaio, ruotanti l'uno sull'altro strappano la lana e la riducono in strati sottilissimi e leggieri che, portati su appositi coni oscillanti, vi si dispongono e intrecciano in modo da ricoprirli della quantità di veli necessaria al cappello (v. tav. CCXX). Gli strati dei veli, generalmente doppî, vengono poi tagliati per metà e sottoposti alla sodatura; operazione, questa, che mediante le sodatrici a vapore - macchine a forma di campana o di tavoli con piatti forati, attraversati dal vapore - dà una certa consistenza al feltro esercitando su di esso una pressione calda e umida. Dopo questa lavorazione, i coni dei veli passano alla follatura analoga a quella del cappello di pelo.
Dopo la follatura i feltri di lana vengono sottoposti al décatir, un apparecchio che a pressione di vapore permea il feltro di particolari sostanze gommose che lo irrobustiscono; quindi passano alla informatura e alla rasatura.
Incomincia a questo punto la fase della lavorazione in nero preceduta dall'appretto indispensabile a dare consistenza alla fibra della lana. I feltri vengono lucidati con la cosiddetta vellutosa che dà alle lane morbidità pari a quella dei peli di lepre: passano quindi alla sabbiosa, alle brideuses, e sono pronti per la rifinitura.
Cappelli di paglia. - A differenza di quelle del cappello di pelo e di lana, che hanno subito una completa evoluzione dalla originaria lavorazione manuale a quella meccanica, l'industria del cappello di paglia è ancora in gran parte esercitata a mano.
Il frumento marzolo seminato in appositi terreni detti "albarese", nel mese di marzo, e maturo a giugno, viene sradicato, messo a seccare e trebbiato, per subire poi una selezione delle paglie, secondo la grossezza. Le paglie o magline, vengono quindi sottoposte alla soleggiatura e poi, riunite in mannelli detti manate, passate all'imbianchimento con suffumigazioni di zolfo o bollitura in soluzione di potassa in acqua. Vengono in seguito separate le grosse cannocchie dalle bave più fini, e le prime spaccate in due o più fibre per uguagliarle agli steli più sottili.
La paglia è così pronta per la lavorazione e viene affidata alle operaie trecciaiole, che devono procedere alla trecciatura.
Le trecce, composte da un numero di fili che vanno da 3 a 21 a seconda della grossezza, vengono affidate ad altre operaie che avvolgendole a spira, orlo con orlo sul medesimo piano, partendo dal cocuzzolo per scendere al fianco e all'ala, le cuciono fra di loro, foggiando il cappello nella forma voluta. Le valli dell'Arno, i dintorni di Pistoia e di Firenze, sono celebri in questa lavorazione; e per quanto anche Milano, Venezia e Carpi, in Italia; la Svizzera, la Francia e l'Inghilterra, in Europa; il Giappone e l'America, producano ottimi cappelli di paglia, quello di Firenze ha un incontestato primato che, se gli è in parte conferito dalla irriproducibile varietà della materia prima, in assai maggior misura è frutto dell'abilità delle sue operaie.
Dopo la cucitura, che ora non si fa più a mano come una volta, ma bensì con apposite macchine a punto visibile e a catenella o con le perfettissime e rapide macchine a punto invisibile, il cappello deve essere lisciato, lucidato e apprettato. La lisciatura e la lucidatura sono eseguite o mediante pressione delle varie parti del cappello in un torchio, oppure mediante una stiratura a caldo; l'appretto consiste in un trattamento con soluzione d'acetosella alcalinata e colla di pesce, che dà alle forme, secondo l'uso cui sono destinate, il grado di consistenza voluto.
Oltre al cappello di Toscana, tipico per la materia prima di cui è composto e per la confezione speciale, vi sono altri tipi di cappelli: di frumento o di segale a undici paglie, cucite di due in due maglie; di paglia fessa cucita in trecce da 7 a 9 fili, a strisce che mostrano alternativamente il lucido (l'esterno) e l'opaco (interno) della paglia; di vetrice o d'orzo siberiano (hordeum disticum nudum, Linn.); di tagal e di sparto. Altri poi se ne confezionano con trecce di seta, di lino, di cotone, di loglio, di riso, di segale e in genere con tutte le fibre tessili.
Un cenno deve però ancora essere fatto dell'industria del truciolo del Carpigiano, scoperta da Nicola Biondo nel sec. XV e che nel 1594 ebbe già tal rinomanza e larghezza di adepti da dar vita a una corporazione di truciolai.
Questa industria, ancor più accresciutasi nel sec. XVII, cominciò a estendersi fuori dal ristretto territorio Carpigiano, a Bologna; nel secolo seguente i suoi prodotti si incominciarono ad esportare, in Francia prima e nel 1760 a Londra. Poi Mirandola nel 1802, Parma nel 1803, Modena nel 1806, Reggio nel 1807 si mettono pure a lavorare il truciolo, insidiando il primato Carpigiano. Soccorre nel frangente l'invenzione fatta da Giovanni Bellodi della macchina per tagliare il truciolo: la scuola del truciolo fondata nel 1818 coopera a conservare viva la tradizione locale; ma il declino della tipica industria è ormai segnato, anche per le necessità che conducono a lavorare altre paglie e fibre.
Il truciolo viene ricavato dai tronchi sottili di legno bianchi e teneri, come il salix alba e il popolus canadensis; questi tronchi, presi ancor verdi e senza nodi, sono sottoposti a particolare processo di inumidimento per permettere ai pagliari di tagliarlo con le loro alpe, e poi il truciolo ricavatone viene passato alle trecciaiole che lo intessono a 4, 5, 7 e più maglie.
Un altro tipo di paglia usata nell'Emilia è la Marostica la quale diede alla regione una tipica industria che dalle sole paglie si volse poi a lavorare anche il truciolo; anche Carpi dal truciolo passò a lavorare canape di Manilla, Visca, crinol, cellophan, tagal, picot, ecc.
Modernizzatasi nel 1876, per mezzo di Vincenzo Bonomo che introdusse nella lavorazione sino allora manuale la macchina da cucire, l'industria di Marostica crebbe sino a produrre prima della guerra 4 milioni e mezzo di cappelli all'anno, travagliata poi dall'universale crisi della paglia. A Carpi, dopo il truciolo, un'altra scoperta diede fervore di lavoro; quella fatta nel 1895 da Giuseppe Menotti del cosiddetto tagal, fibra ricavata dalla Musa textilis (abaca) di Manilla che consentì di fare trecce meccaniche di 32 fili in tredici fusi.
Il cappello moderno. - Abbandonando ora il cappello di paglia per ritornare al copricapo in generale, è necessario rilevare che il cappello moderno, quale è da noi concepito nella forma e nella materia prima attuali, nasce relativamente tardi.
È Willcox che inizia nel 1808 in Inghilterra la fabbricazione dei cappelli di feltro con seta mescolata a pelo, e quasi contemporaneamente, nel 18I2, un italiano, certo Miraglio o Miroglio, annunciava in Parigi la medesima scoperta. Ma forse il primo inventore dei cappelli di seta fu il famoso cappellaio parigino Leprevost vissuto mezzo secolo prima.
E del resto G. B. Gnecchi, cappellaio di Melegnano, sino dal 1786 fabbricava cappelli misti con un terzo di filugello e due di pelo di lepre, riuscendo a imbastire perfettissimi feltri. È ancora Parigi che nel 1816 produce i primi cappelli di pelo di lontra marina, nel trattamento dei quali non è più necessario alcun uso di mercurio. Avvicinandoci a epoche più vicine a noi e a forme e tipi di cappelli di più recente creazione si possono citare i cappelli a catrame, o cappelli duri, fabbricati verso il 1860 da cappellai inglesi col nome di pooffs; i cappelli velours, di pelo di lepre lungo e fine, originariamente lavorati solo in Austria e poi diffusi dovunque; i cosiddetti cappelli piuma di feltro leggerissimo, pieghevoli; il tipico cowboy, grande cappello delle pampas americane e le cento forme che la moda crea indocile, ora rialzando, ora abbassando un'ala, indurendola o afflosciandola, elevando il cocuzzolo del cappello o riducendolo a calottina, spingendo i colori a tinte forzate e piene o smorzandoli nelle più crepuscolari soavità di pastelli.
I centri di produzione. - I principali centri esteri sono; in Inghilterra: Stockport, Midland, Londra, Luton, Dublino, Denton, ecc.; in Francia: Espéraza per la lana con l'Isère, Chalabre, ecc.; e Chazellessur-Lyon, Serrières, Givors, ecc. per il pelo; Guben e Berlino in Germania; Vienna in Austria; Bruxelles e Gand nel Belgio, ecc. L'America ha numerose fabbriche di cappelli di pelo negli Stati Uniti e nel Canada; nel centro America, Messico e Cuba; nel sud, il Brasile, l'Uruguay, l'Argentina e il Chile. L'oriente non ha che fabbriche di cappelli di paglia in Cina e nel Giappone, e nelle altre parti del mondo non vi è produzione locale o è affatto insignificante.
Per quanto si riferisce all'Italia i centri principali sono ad Alessandria, Biella, Intra, Monza per i cappelli di pelo e di lana, a Milano per i berretti, in Toscana e in Emilia per i cappelli di paglia.
Alessandria che tiene un dominio incontrastato nella fabbricazione del cappello fino di pelo, vide fondare la propria fortuna nel 1857 da Giuseppe Borsalino che, dopo esser emigrato in Francia, allora classica terra di cappellai, e dopo avere peregrinato per anni, ritornò in patria ed aprì in Alessandria in Piazza S. Lucia una bottega con tre lavoranti e di lì sviluppò quella vasta azienda che portò ben presto la marca e la fama dei suoi cappelli per tutto il mondo e che oggi, nelle due aziende che dal nome del fondatore della casa traggono la loro ragione sociale, arriva a una produzione di oltre 12.000 cappelli al giorno.
Monza, che ebbe secolari tradizioni di cappellai e di berrettai fino dal sec. XVI, che vide tale sua industria accrescersi a tal punto da competere con quella della contermine ducale Milano, che ebbe ricchi e potenti i paratici dei cappellai e dei berrettai, e nella gara di ugual forza assisté all'urto delle due corporazioni sino a che nel 1742 si fusero, assisté nel sec. XVIII alla trasformazione della vecchia lavorazione manuale in quella meccanica e alla nascita dell'industria moderna.
Lo sviluppo del cappello di lana a Monza è rapidissimo nel secolo XIX sino ad arrivare in poco più di mezzo secolo a una potenza di produzione che in 23 fabbriche e con 380 cardìne o coni, produce oggi sino a 75 milioni annui di feltri. Paleari, i Valera, i Ricci, i Cambiaghi e Carozzi, per dir solo dei maggiori, continuano l'esempio dei precursori e dànno alle loro città un primato assoluto nella fabbricazione del feltro di lana.
Nell'intrese già la seconda metà del 700 registra fabbriche di cappelli, con i vecchi casati tradizionali di cappellai: Frova, Nava, Petroli. La industrializzazione s'inizia però nel 1862, quando Gaetano Albertini introduce nella fabbrica fondata nel 1817 soffiatrici ed arsoni meccanici. Oggi le fabbriche di Intra producono circa 6000 cappelli al giorno.
Altri centri di produzione del cappello di pelo sono il Biellese, con Andorno, Chiavazza, Sagliano Micca e Tarigliano; Voghera, Torino, Sampierdarena, Modena, Montevarchi, Pescia, Cremona, Alzano Maggiore. Per la lana, ancora Acquaseria (Como), Torino, Mortara, Voghera, e Sampierdarena. Alla paglia si dedica tutta la Toscana, con Firenze, Signa, Empoli, Montaione, Castelfiorentino, Poggibonsi, Fucecchio; l'Emilia col Modenese; il Veneto con Marostica; la Lombardia con Codogno e Milano. Al truciolo, oltre all'Emilia, con Carpi, Concordia, Mirandola, Guastalla, Novellara, Gualtieri, Cadelbosco di Sopra, ecc., il Veneto con Marostica, Villa Bartolomea, Castagnaro, Lusiana, Molvena e Mestre, e la Lombardia con Mantova, Poggio Rusco, Suzzara, Viadana, Tabellano, Pegognaga Ostiglia, Sermide, Gonzaga, ecc.
Complessivamente le aziende produttrici di cappelli e berretti sono in Italia oltre un migliaio con più di 20.000 dipendenti, senza calcolare gl'imprenditori di lavoro a domicilio.
Per mostrare l'importanza per l'Italia dell'industria del cappello si riferiscono alcuni dati statistici. L'Italia esporta annualmente all'estero cappelli e feltri per un valore complessivo di poco inferiore ai 680 milioni (1929). Nel 1929 sono stati mandati all'estero feltri per cappello per 40.508 q. e per 240 milioni di lire (1927: q. 23.740 per 168.660.000), cappelli da uomo di feltro in numero di 12.273.747 per 283 milioni e mezzo di lire, cappelli da uomo di paglia in numero di 11.185.248 per 83 milioni e mezzo, cappelli da donna di feltro non guerniti in numero di 4.774.298 per 51 milioni e mezzo e poi ancora cappelli di paglia da donna, cappelli da donna guerniti, berretti per uomo, in numero di 463.999 per 3 milioni.
L'esportazione dei feltri per cappelli è stata assorbita in gran parte dagli Stati Uniti (18.939 q.), dalla Gran Bretagna (14.382 q.), dalla Francia (24.039) e dalla Svizzera (1750). Sia il mercato americano sia il meicato inglese tendono ad acquistare quantità sempre maggiori dei nostri prodotti (1927: rispettivamente 12.250 e 9716).
Anche l'esportazione italiana di cappelli da uomo di feltro è in promettente incremento (esportazione complessiva: 1927, 8.352.291 cappelli; 1928, 10.331.763; 1929, 12.273.767). Il mercato principale d'acquisto è stato nel 1929 la Colombia (1.113.748), seguita dalla Gran Bretagna (1.089.913), dagli Stati Uniti (1.065.769) e dalla Cina (1.057.4189; i primi due stati avevano acquistato anche negli anni precedenti una quantità non molto dissimile, mentre invece gli Stati Uniti e la Cina appaiono mercati nuovi per la nostra esportazione (1927: rispettiiamente 366.477 e 426.561). Gli altri stati che acquistarono nel 1929 più di 200 mila cappelli furono i seguenti: Africa meridionale britannica 813.508: Indie orientali olandesi 802.779; Indie britanniche 530.549; Perù 350.121; Venezuela 341.066; Federazione australiana 300.735; Stabilimenti dello Stretto 299.044, Francia 259.937; Germania 251.513; Hong Kong 256.202; Svizzera 254.056; Argentina 241.853.
L'esportazione dei cappelli da uomo, di paglia o di truciolo, è pure in aumento (1927: 6.499.825 cappelli esportati; 1929; 11.185.248). Il mercato d'acquisto di gran lunga prevalente è quello degli Stati Uniti (7.732.718 cappelli acquistati nel 1929), cui seguono a distanza l'Argentina (615.995) la Gran Bretagna (313.422), la Cina (239.184) e le Indie Orientali Olandesi (235.999). Segue la Svizzera con 206.273, la Colombia con 130.098, l'Egitto cnn 127.959, la Germania con 114.937. Nel 1927 gli Stati Uniti avevano acquistato 3.837.668 cappelli e l'Argentina 405.401; più alta era stata l'esportazione nella Gran Bretagna (476.811). La Turchia ha molto diminuito gli acquisti (1927: 105.392 e 1929: 10.456).
Bibl.: H. De Bysterveld, Album de coiffures historiques, voll. 4, Parigi 1863-65; Comtesse de Villermont, Histoire de la coiffure féminine, Parigi 1891; A. Guillaumot, Costumes et coiffures du XVIII siècle, Parigi 1891; G. Riva, l'arte del cappello e della berretta a Monza nei secoli XVI e XVIII, Monza 1909; O. Thimidior, Der Hut und seine Geschichte, Vienna 1914.
Per l'industria del cappello: P. Nebbia, La fabbricazione dei cappelli di lana; L. Ramenzoni, Il cappello e sue fabbricazioni, 2ª ed., Milano 1924; P. Madocco, Il coniglio, Torino 1927; G. Pirotti, La paglia in Toscana, Firenze 1927; P. Rossini, Il cappello nel passato e nella mod. industria ital., Casale Monferrato 1930.
Riviste: Il cappello, Milano; La gazzetta dei cappellai, Torino; The American hatter, New York; la chapellerie belge, Bruxelles; Deutsche Hutmacher Zeitung, Berlino; Le Gibus, Basilea; Hatter's Gazette, Londra; Revue de la chapellerie, Parigi.
Cappello d'arme, o Cappello di ferro (fi. chapmn d'armes; sp. capiello de hierro; ted. Eisenhut; ingl. iron hat). - È una copertura del capo costituita di un casco, o elmo, senza visiera né coprinuca, ma con tesa sotto al coppo, più o meno sporgente e di solito a giro completo. Elmì e caschi a forma di cappello d'armi si trovano nel Medioevo.
Nell'equipaggiamento delle truppe del comune di Firenze per la guerra contro Siena (battaglia di Móntaperti nel 1260) è indicato per i militi o uomini a cavallo il cappellum de acciario, e per gli uomini a piedi è detto: cappellum de acciario vel cervelleriam. Molte altre sarebbero le citazioni del sec. XIV sia per l'Italia sia per l'estero; basti ricordare che al principio del sec. XV furono rinomati i caschi o cappelli di Montauban, la cui tesa spiovente era munita nella parte anteriore di due fori per la vista. I cappelli d'arme si diffusero con questo nome tra le fanterie, specialmente dopo la prima metà del sec. XVI. I cappelli d'arme, benché così semplici nei loro elementi, assunsero svariatissime forme; quelli rappresentati nelle figure da 1 a 7 della tavola CCXVII sono senza nasale; le figure 8, 9 possono valere come esempio di cappelli d'arme con nasale.
Cappello militare. - Dai cappelli d'arme di ferro del sec. XVII si è passati ai cappelli alla moschettiera a larghe falde, con cervelliera (v. elmo). Il primo ricordo d'uso di cappello di feltro nell'esercito è quello sardo dei dragoni bleu, o del re (v. tav. CCXVII, fig. 10), che lo ebbero di feltro nero con orlatura bianca (1683). Detto cappello fu presto trasformato in cappello a tre punte (fig. 11). E questa foggia di cappello militare (e fu anche cappello civile ed ecclesiastico) si diffuse presto per tutti gli eserciti e durò, per alcuni corpi speciali, fino a metà del secolo passato. Con Napoleone le divise militari furono radicalmente cambiate, in Francia e nel resto d'Europa. Il cappello alla napoleonica, o a due punte, o feluca fu in origine molto grande, di feltro nero, con un grande pennacchio bianco rosso e verde. Il cappello a due punte o feluca si portava o trasversalmente al viso (fig. 12) o normalmente (fig. 13). Questo cappello era di feltro nero, con coccarda rossa, cappietto (agrafe) d'oro, e pennacchio giallo. In alcuni eserciti il cappello fu ornato con un ricco pennacchio di piume cadenti (fig. 14).
Cappelli posti trasversalmente al viso o normalmente al viso sono rimasti in uso nell'esercito italiano per i carabinieri e sono adottati anche per gli ufficiali di marina italiani e stranieri.
Un singolare copricapo fu introdotto nel 1848 nell'esercito sardo (poi italiano) per i soldati del Genio (fig. 15).
Il cappello da alpino (fig. 16), ardito, artigliere da montagna (fig. I7),R. Guardia di finanza (fig. 18), M.V.S.N. (fig. 19), è di feltro, di pelo di coniglio color grigio-verde; ha una tesa rialzata posteriormente e degradante verso la parte anteriore, ove risulta pressoché orizzontale. Ha un fregio diverso secondo le armi o i corpi e una nappina color scarlatto, bianco, giallo, turchino, verde per gli alpini; nero per gli arditi; scarlatto con numero ricamato in giallo per l'artiglieria, giallo per la guardia di finanza, nero per la milizia volontaria.
Il cappello da bersagliere è di pelo di cammello, feltrato, indurito, nero; è formato da una coppa e da una tesa piatta; porta pennacchio di penne e sul davanti ha un fregio metallico (fig. 20).
Il cappello da carabiniere è a due punte, di feltro di pelo di cammello, annerito; ha un bordo di seta nero, una coccarda, un fregio metallico e può essere ornato di un pennacchio scarlatto e turchino per tutti i carabinieri meno che per i musicanti e trombettieri che lo hanno scarlatto e bianco (fig. 21).