CAPPONI, Nicola, detto Cola Montano
Nacque nella prima metà del secolo XV a Gaggio della Montagna nel Bolognese, donde il nome Montano; il padre aveva nome Morello. Nulla sappiamo della sua famiglia, della sua infanzia e dei primi studi che, con ogni probabilità, si dovettero svolgere a Bologna. Il C. si firmerà in seguito "chierico": ciò sta a dimostrare una intenzione, ben presto abbandonata, di prendere gli ordini sacerdotali. Cominciamo ad avere notizie più precise con il suo arrivo a Milano, che alcuni studiosi suppongono (ma senza prove convincenti) avvenuto già nel 1456; ma senza dubbio nel 1462 il C. è a Milano, come esplicitamente affermerà egli stesso. A Milano entrò subito in contatto con i più reputati protagonisti del mondo letterario della città (basti ricordare, primo fra tutti, il Filelfo, e il Mombrizio, Gabriele Paveri Fontana). Galeazzo Maria Sforza, venuto al potere nel '66, dovette ben presto accorgersi delle notevoli qualità del C. che già doveva essersi formato, forse a Bologna, una vasta cultura classica: tantè vero che nel 1468 gli fu affidata, dietro esplicita richiesta dello Sforza, la cattedra di lingua. e lettere latine; l'importante incarico conferì particolare lustro all'ancora ignoto Capponi. Ma non fu questa l'unica attività in cui egli si prodigò nel periodo milanese: difatti, instancabilmente, cercò di promuovere l'arte della stampa, allora appena agli inizi.
È del 1472 la società tipografica stipulata tra Antonio Zaroto, celebre tipografo, il prete Gabriele Orsoni, Gabriele Paveri Fontana, il libraio Pietro Antonio da Castiglione e, appunto, il Capponi. Il primo libro edito dalla società fu il Compendium de partibus orationis, appositamente commissionato dal C. a Giorgio da Trebisonda. La società, che avrebbe dovuto durare per almeno tre anni, si dissolse dopo poco più d'un anno, probabilmente a causa delle acute discordie tra il C. e G. Paveri Fontana (non ne sappiamo bene i motivi; ma forse ciascuno dei due cercava, a scapito dell'altro, di raggiungere un posto di maggiore favore presso il duca) e dell'essersi la società specializzata, come appare nel contratto, in "iure canonico, iure civili ac medicina", argomenti piuttosto estranei agli interessi del Capponi. Appena sciolta la prima società, si pensa che il C. passasse a una seconda società tipografica, assai più prestigiosa, con Filippo di Lavagna e Cristoforo Waldarfer (il contratto porta la data del 6 agosto del 1473).
Tuttavia c'è da chiedersi se il Montano che strinse il trattato tipografico con Filippo di Lavagna nel 1473 (per il trattato del '72non sembrano sussistere dubbi), nel quale vengono stipulati "pacta et conventiones" tra Filippo di Lavagna e un "Montanum filium quondam Domini Michaelis Portae Vercellinae", non sia piuttosto un Giovanni Montano, autore, come vedremo in seguito, di un'Orazione funebre compostaper Filippo Maria Visconti, dal momento che il padre del C. aveva nome Morello e non Michele.
Il governo di Galeazzo Maria diventava sempre più inviso alla gran maggioranza della popolazione e dei nobili milanesi, sia per i numerosi fallimenti in politica estera (ricordiamo i tentativi o falliti o non compiuti, benché progettati, contro Venezia, Ferrara e Imola), sia per il carattere sempre più autoritario ed assolutistico che stava assumendo. In questo clima il C. divenne il portavoce e il banditore della restaurazione dell'antica virtù romana, del classico amore per la libertà e dell'odio per il tiranno. Il duca (che pure era stato l'artefice della riscoperta del mondo classico) venne, nel suo insegnamento, ad assumere le vesti di Tarquinio; mentre come modelli ai suoi discepoli portava gli esempi di Bruto, Cassio, Catilina e tutti i tirannicidi dell'antichità greca e romana. I giovani che più si infervorarono a quell'insegnamento e che divennero i suoi più fedeli e inseparabili discepoli (il C. si occupò anche di istruirli nell'uso delle armi, inviandoli segretamente presso Bartolomeo Colleoni) furono gli stessi che il 26 dic. 1476 uccisero il duca Galeazzo (Girolamo Olgiati, Gian Andrea de' Lampugnani e Carlo Visconti).
Girolamo Olgiati, catturato dopo la congiura, iniziò col nome del C. la sua confessione davanti ai giudici: "Cola de Montanio de Sagio, Bononiensis, vir summi ingenii et eloquentiae, praeceptor meus..." (B. Corio, Historia di Milano, Milano 1503, ad annum 1476). Ma sui reali motivi della predicazione antitirannica del C. affiorarono seri dubbi, espressi già dal Machiavelli nelle Istorie fiorentine:"Insegnava a Milano la latina lingua a' primi giovani di quella città Cola Montano, uomo litterato e ambizioso. Questo, o che gli avesse in odio la vita e i costumi del Duca, o che pure altra cagione lo movesse, in tutti i suoi ragionamenti il vivere sotto un principe non buono detestava, gloriosi e felici chiamando quegli a' quali nascere e vivere in una republíca aveva la natura e la fortuna conceduto..." (VII, 33). Sulla scorta di quanto di lui dice il Machiavelli e delle successive vicende della sua vita, possiamo ben vedere nel C. quella diffrazione, chè tipica a Milano d'un Francesco Filelfo, tra il nobile insegnamento di stampo classico e la vita morale, che era, tanto nel C. quanto nel Filelfo, ben discordante dal loro insegnamento. L'operato del C. fu probabilmente suggerito anche da rancori personali contro il duca: infatti nel 1474 lo Sforza l'aveva rinchiuso in carcere, probabilmente perché si erano diffusi alcuni epigrammi, attribuiti al C., contro G. Paveri Fontana, che, in qualità di precettore del fratello del duca, era diventato personaggio di notevole autorità. La lunga tenzone col Paveri Fontana era dovuta sì a motivi di discordia e gelosia reciproci, ma rientra anche in un ben preciso genere letterario (la tenzone poetica, combattuta di solito con epigrammi e sonetti) che sembra aver avuto particolare fortuna nella seconda metà del '400. Uscito nel 1474 dal carcere, poco dopo, l'anno seguente, venne di nuovo incarcerato con l'ignominiosa accusa (e non sappiamo quanto vera) di aver violentato una fanciulla. Paolo Giovio parla anche di una fustigazione pubblica che il C. avrebbe subito ad opera dello Sforza che, memore delle frustate ricevute dal C. quand'egli era suo allievo, una volta divenuto duca di Milano, avrebbe voluto in questo modo vendicarsi della troppo severa educazione ricevuta dall'antico maestro (P. Giovio, Elogia..., Florentiae 1551, p. 138).
Alla fine del '75 il C. decise di abbandonare per sempre Milano (non fu dunque presente al momento dell'uccisione del duca); nel biennio 1476-1477 lo troviamo tra i lettori di retorica e poesia dello Studio bolognese. L'ultima fase della vita fu particolarmente movimentata; il C. stesso ce ne ha lasciato precisa testimonianza nella sua Confessione (edita dal Lorenzi nel suo saggio sul C.), scritta e recitata a Firenze nel 1481 davanti ai giudici, come giustificazione del suo operato antifiorentino, poco prima della condanna a morte. In essa il C. espose con numerosi particolari e in modo piuttosto caotico le sue molte, avventurose e ingarbugliate vicende biografiche dal 1475 al 1482; ne risulta un'instancabile attività, densa di difficili ambascerie e di trame politiche, al servizio ora d'uno ora d'un altro signore. Il C. da prima si recò, spinto da Piero Vespucci (una volta fervente mediceo e poi acceso antimediceo, tanto che in seguito fu rinchiuso nelle Stinche fiorentine) a Lucca per avvertire la città delle mire di Firenze e Milano. Poi prese parte al tentativo di Niccolò d'Este contro lo zio Ercole, ma Niccolò fu ben presto scoperto e giustiziato. Poverissimo, il 12 apr. 1478 partì "dalla valle del Reno bolognese", deciso a portare al re di Napoli, per pochi soldi, il piano di un fuoruscito pistoiese che voleva sottrarre la città ai Fiorentini e offrirla alla lega avversaria (Confessione, p. 54); fatto conoscere il piano anche al conte Girolamo Riario, divenne da allora suo fedele collaboratore e consigliere.
Il C. dunque era entrato in quell'acceso clima antifiorentino che caratterizza la politica di Napoli e Roma, almeno fino al 1480, anno in cui Lorenzo de' Medici, col suo coraggioso viaggio a Napoli, ottenne la pace con l'Aragonese. Tuttavia il Riario, cui il C. rimase sempre fedele, signore di Imola, nipote di Sisto IV e organizzatore insieme con lo zio della congiura dei Pazzi, continuò nella sua politica antifiorentina anche dopo l'80.
Perché il tanto elaborato piano di conquista di Pistoia fosse più facile, il C. si recò una seconda volta a Lucca, per convincere i Lucchesi a sottrarsi definitivamente a qualsiasi legame con la casa de' Medici. Pronunciò in quella occasione la famosa Oratio ad Lucenses.
L'orazione fu stampata ripetutamente dal 1480; ma, a detta del C., senza il suo consenso: egli dichiarò infatti ai Fiorentini ch'essa fu stampata ben differente da come era stata pronunciata, perché "prendesse aspetto di maldicenza quella che non era che industria del mio ingegno in trattar quell'affare". E nella stampa infatti le parole del C. sono davvero intessute delle più svariate ingiurie contro Firenze e contro Lorenzo de' Medici, il quale assume nelle parole del C. le vesti d'un bieco e diabolico tiranno. Contrapposto alla figura di Lorenzo sta invece, ricolmo di virtù e magnanimità, Ferdinando d'Aragona, dal quale fu con ogni probabilità commissionata l'orazione.
Nel gennaio del 1480, trovandosi a Napoli, il C. ricevette da Neri Acciaiuoli, esiliato fiorentino, la proposta di uccidere Lorenzo de' Medici che appunto era a Napoli per stipulare la pace con l'Aragonese. Ma il C. rifiutò, forse perché il compenso promessogli dall'Acciaiuoli era troppo esiguo o forse perché non volle mai compiere praticamente ciò che aveva insegnato teoricamente. Ultima delle sue trame politiche fu il tentativo di macchinare contro Pisa per conto del Riario, l'irriducibile nemico dei Fiorentini. A tal fine fu inviato per l'Italia in cerca di alleati all'impresa, ma l'allontanamento da Roma, dove aveva da tempo stabilito la sua dimora quale emissario del Riario, dispiacque alquanto al C., poiché lì aveva da poco iniziato un assiduo studio della filosofia guidato dal dotto bizantino Giovanni Argiropulo. Dopo numerose peripezie giunse il 24 ott. 1480 a Genova, dove trovò un alleato all'impresa di Pisa nella persona di Agostino Fregoso. Il trattato fu stipulato e sottoscritto dai due: Agostino Fregoso, in cambio della sua partecipazione all'impresa, voleva dal Riario 18.000 ducati, sei prima dell'assalto, dodici dopo l'occupazione della città; i ducati sarebbero stati restituiti poi al Riario una volta saccheggiata Pisa.
Mentre tornava verso Roma il C. fu catturato sugli Appennini bolognesi dalle truppe fiorentine, e in suo possesso furono trovati i compromettenti capitoli del trattato d'alleanza contro Pisa. La recita della Confessione non riuscì a commuovere i Fiorentini: nel 1482 quell'instancabile ideatore di trame fu impiccato per ordine di Lorenzo de' Medici.
L'Oratio ad Lucenses del C. si trova manoscritta a Bologna (Bibl. universitaria, cod. Pal. 21.4.1028) e a Milano (Bibl. Ambrosiana, ms. S. Q. I. 3). La prima edizione a stampa apparve a Roma intorno al 1480 per i tipi di Johann Bulle (cfr. Indice generale degli incunaboli..., IV, p.115); seguì quella, assai più diffusa, stampata sempre a Roma da Stephan Plannck nel 1481-84 (I.G.I., IV, p. 115; Hain, Repertorium..., n. 11573). La Confessione èstata edita, volgarizzata, da G. Lorenzi in Cola Montano; studio storico, Milano 1875 (pp. 51-88), il quale pubblicò anche, attribuendola al C., un'Orazione funebre composta per Filippo Maria Visconti (op. cit., pp. 123-132). Ora, se teniamo conto che Filippo Maria Visconti morì il 13 ag. 1447, l'attribuzione al C. risulta tutt'altro che convincente, poiché quella data il C. ancora niente aveva a che fare con Milano. Il Lorenzi ha confuso il C. con Giovanni Montano; basta infatti vedere l'intitolazione dell'orazione per averne conferma: "Montanus Johannes ad illustrissimum principem. Mariae Vicecomitis funebris oratio" (ms. M. 2 sup. della Bibl. Ambrosiana di Milano).
Del C. èanche un trattatello (il Casati e il Tiraboschi lo conoscevano solo manoscritto) di Regulae grammaticales, pubblicato a Milano da Leonard Pachel nel 1499 (cfr. I. G. I., IV, p. 115) e che si trova manoscritto a Venezia al Civico Museo Correr; sappiamo infine che egli collaborò all'edizione della Cosmografia di Tolomeo insieme a Girolamo Manfredi, Galeotto Marzi, Pietro Avogadro e Filippo Beroaldo il Vecchio: assai discussa è la data di stampa, variamente identificata nel 1462, nel 1482 o nel 1477.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Missive, n. 82, cc. 97v, 211v; n. 108, c. 214; Ibid., nella Sezione Letterati, sono conservate alcune lettere del C.; Venezia, CivicoMuseo Correr, cod. Cicogna 290 (=2353), ff. 26rv: vi si trovano le Regulae grammaticales del C. e lettere a luiindirizzate; Bologna, Bibl. univers., ms. 2948, vol. 6 (materiale sul C.), vol. 15 (opuscoli del C.), vol. 18 (altro materiale sul C.), vol. 35 (Giunte di mons. Tiolialle Notizie degli scrittori bolognesi raccolte da P. A. Orlandi, con note sul C.); I rotuli... dello Studio bolognese dal 1384 al 1799, a cura di U. Dallari, I, Bologna 1880, p. 102; F. Argelati, Bibliotheca script. Mediol., I, Mediolani 1745, coll. 96, 98 s., 158, 447, 455 s.; A. M. Quirini, De optimorum script. editionibus, Lindaugie 1761, pp. 236-239; F. Cicereii Epist. lib. XII..., a cura di D. P. Casati, II, Mediolani 1782, p. 224; G. Marini, Degli archiatri pontificii, Roma 1784, I, p. 30; II, pp. 209 sa.; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, VI, Bologna 1787, pp. 64-66; D. Moreni, Bibliografia storico-ragionata della Toscana, II, Firenze 1805, p. 91; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VI, 1, Firenze 1807, pp. 1023-1025; G. Lorenzi, Cola Montano. Studio storico, Milano 1875 (recensito da P. Rotondi in Arch. stor. ital., s. 3, XXII [1875], pp. 291-299); J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di D. Valbusa, I, Firenze 1876, ad Ind.;F. Berlan, Cola Montano, letterestorico-crit., in Il Propugnatore, IX(1876), pp. 363-372; X (1877), pp. 80-94; E. Legrand, Bibliographie héllenique, III, Paris 1885, p. 31; A. Corradi, Notizie sui professori di latinità nelloStudio di Bologna..., in Docc. e studi pubbl. percura della R. Deput. di storia patria per le prov. diRomagna, II(1886), pp. 478 ss.; E. Morta, DiFilippo di Lavagna e di alcuni altri tipogr. editoridel Quattrocento, in Arch. stor. lomb., s. 3, X (1898), p. 28; G. Biscaro, Panfilo Castaldi e gliinizi dell'arte della stampa a Milano (1469-1472),ibid., s. 5, II (1915), p. 9; M. Pesenti Villa, I letterati e i poeti a Milano durante la signoria di Ludovico il Moro, Milano 1923, P. 28; B. Belotti, Ildramma di G. Olgiati, Milano 1929, passim;F. Catalano, Il ducato di Milano nella politica dell'equilibrio, in Storia di Milano, VII, Milano 1966, p. 307; E. Garin, La cultura milanese nella secondametà del XV secolo, ibid., pp. 564, 566 s.; C. Santoro, Gli inizi dell'arte della stampa, ibid., p.876; Enc. Ital., VIII, p.822; General catalogue of theprinted books in the British Museum, CLXIII, London 1963, p. 71.