Carattere
Dal latino character, a sua volta dal greco χαρακτήρ, "impronta, marchio, segno particolare", indica il complesso delle doti e disposizioni psichiche che distinguono una personalità dall'altra. In psicologia il termine si riferisce non tanto alle caratteristiche innate, biologicamente determinate, quanto alla configurazione permanente, propria dell'individuo, che deriva dal modo in cui sono integrate le esperienze sia relazionali sia tipicamente soggettive. Con esso si colgono aspetti comportamentali ed emozionali, legati alla consapevolezza e alla dimensione dei valori scelti dal soggetto in rapporto al sistema socioculturale in cui vive e al ruolo che occupa. Nella filosofia la nozione di carattere si è liberata dei presupposti deterministici che stabilivano una connessione con la corporeità e il destino. Sul piano pedagogico, la formazione del carattere si situa tra le istanze della morale e quelle della volontà.
di Paolo Migone
Per carattere s'intende la sintesi delle diverse componenti psichiche di una persona che mostrano stabilità e continuità nel tempo. Esistono tuttavia varie definizioni del termine. Secondo una delle più comuni, il carattere si riferisce alle qualità acquisite attraverso le influenze ambientali; il 'temperamento' attiene invece alle caratteristiche psicologiche innate, biologicamente determinate; il prodotto dell'interazione delle due componenti costituirebbe la 'personalità'. Di fatto, in molti contesti - e anche in questa sede - i termini carattere e personalità vengono usati come sinonimi e sono intercambiabili, perché, soprattutto alla luce delle più moderne concezioni del rapporto corpo-mente, non esiste alcuna componente indipendente da fattori innati: questi sono sempre presenti e codeterminano la strutturazione del cervello. I termini temperamento e carattere andrebbero intesi allora come astrazioni. Più precisamente, il concetto di temperamento alluderebbe a quei fattori innati che possono essere in qualche modo studiati e che differenziano un individuo dall'altro già nei primi giorni di vita, rappresentando la sua identità biologica, con implicazioni anche filosofiche riguardo all'identità del soggetto e all'autonomia della natura dalla cultura; il carattere invece, quale prodotto soltanto delle influenze ambientali, potrebbe essere ipoteticamente esplorato in gemelli monovulari (od omozigoti, cioè identici) separati subito dopo la nascita, senza però dimenticare che incidenze ambientali possono avvenire già in utero. Di fatto, ciò che noi vediamo è solo la personalità.
Nella psicologia accademica, i vari aspetti del carattere, per loro natura costanti nel tempo, sono stati definiti tratti (oppure fattori o dimensioni) in contrapposizione agli stati, termine con cui si designano condizioni relativamente temporanee (ansia, depressione ecc.), spesso scatenate da eventi esterni. Quando uno o più tratti o stati deviano sensibilmente dalla norma, si entra nella sfera del disturbo mentale: nel caso di tratti abnormi, si parla di 'caratteropatia' o 'disturbo di personalità'; nel caso di stati abnormi, di 'sindrome clinica' (depressione maggiore, ansia generalizzata ecc.).
Nella storia della psicologia accademica, la caratterologia (o personologia) si è delineata essenzialmente come una 'psicologia dei tratti', individuati nei soggetti con diverse metodiche (test, interviste ecc.). Dal momento che il carattere rappresenta l'identità stabile di una persona, il proprio modo idiosincrasico di concepire sé e il mondo, spesso il soggetto può non essere consapevole di un suo tratto, da lui considerato normale: in altre parole, i tratti del carattere non sono 'egodistonici' (ossia riconosciuti dal soggetto e visti in modo critico se patologici) ma 'egosintonici' (cioè in sintonia con l'Io e quindi non identificati chiaramente dal soggetto, in quanto facenti parte della sua stessa identità). La dicotomia egosintonico/egodistonico, introdotta da F. Alexander nel 1930, ha avuto una certa importanza nella tradizione psicoanalitica, ove, per es., è stata utilizzata per differenziare un disturbo del carattere (per definizione egosintonico) da una nevrosi sintomatica (per definizione egodistonica).
La distinzione tra sindromi cliniche (che possono essere circoscritte e di durata limitata) e disturbi del carattere (che sono permanenti, caratterizzanti la persona nel corso della vita, e coesistono a volte con le sindromi cliniche influenzandole negativamente) è stata ufficialmente sancita dalle ultime tre edizioni del Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM) della American psychiatric association (DSM-III, 1980; DSM-III-R, 1987; DSM-IV, 1994), che è attualmente il sistema diagnostico più usato in psichiatria. In esso le sindromi cliniche (schizofrenia, depressione, ansia ecc.) e i disturbi di personalità sono stati collocati in due 'assi' diversi, rispettivamente l'asse I e l'asse II.
Nella psicologia accademica sono stati formulati molti sistemi di classificazione dei tratti del carattere.
a) Il sistema di Eysenck.
È storicamente uno dei più noti e prevede tre fattori: estroversione, nevroticismo e psicoticismo, misurati con lo strumento Eysenck personality inventory (EPI). I primi due fattori costituiscono le più importanti dimensioni della personalità e compaiono in quasi tutte le classificazioni; in base ai vari modi con cui si combinano è possibile ricreare, secondo H.J. Eysenck, i quattro temperamenti individuati, nel 2° secolo, da Galeno secondo la teoria degli 'umori' (sanguigno, melanconico, flemmatico e collerico). L'estroversione è caratterizzata da dinamismo, vivacità e ricerca di stimolazioni interpersonali (l'introversione designa il comportamento opposto). Il nevroticismo indica la tendenza all'instabilità e al turbamento emozionale (un quoziente basso di nevroticismo, al contrario, corrisponderebbe al temperamento sanguigno di Galeno). Lo psicoticismo (la cui denominazione è impropria, in quanto non si collega al concetto di psicosi), è riferito a un basso livello di coinvolgimento nei rapporti interpersonali ed è assente in altre classificazioni. Per Eysenck, un grado patologico di queste tre dimensioni può corrispondere approssimativamente ai tre raggruppamenti (clusters) dei dieci disturbi di personalità elencati nell'asse II del DSM-IV (1994): rispettivamente, un'alta estroversione sarebbe tipica dei disturbi del cluster A (dove prevale 'stranezza o eccentricità': paranoide, schizoide e schizotipico), un elevato psicoticismo sarebbe tipico del cluster B (dove prevale 'iperemotività o drammatizzazione': antisociale, borderline, istrionico e narcisistico), un nevroticismo accentuato sarebbe tipico del cluster C (dove prevale 'ansietà o paura': evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo).
b) Il modello a cinque fattori.
Nell'America del Nord il sistema di Eysenck è stato sostituito dal modello a cinque fattori (Big five), che è stato formulato da P.T. Costa e R.R. McCrae. I fattori in questione sono nevroticismo, estroversione, gradevolezza, scrupolosità, apertura all'esperienza. I primi due fattori corrispondono a quelli di Eysenck; il terzo e il quarto derivano da una distinzione operata all'interno dello psicoticismo individuato dallo stesso Eysenck: rispettivamente, la gradevolezza indica la presenza di calore emotivo contrapposto a freddezza; la scrupolosità indica autocontrollo in opposizione a impulsività. La quinta dimensione, infine, è riferita alla capacità immaginativa in contrasto con l'inibizione.
Nei modelli a) e b) considerati, i tratti del carattere di origine temperamentale o innati non sono facilmente distinguibili da quelli derivati dalle influenze ambientali (nel sistema a cinque fattori, per es., solo la gradevolezza è messa in stretta correlazione con l'ambiente, mentre le altre quattro dimensioni avrebbero una forte componente ereditaria): ciò mostra quanto sia difficile separare, nella personalità, il carattere dal temperamento.
c) I modelli temperamentali e neurochimici.
Il modello di D.M. Buss e R. Plomin, a impronta decisamente temperamentale, prevede tre fattori evidenziabili fin dalla prima infanzia: emotività, attività e socievolezza (EAS); quello, di ordine neurochimico, di C.R. Cloninger è legato a variazioni dei livelli dei neurotrasmettitori cerebrali e si basa su quattro fattori: ricerca della novità, evitamento del pericolo, dipendenza dalla gratificazione e persistenza. A questo proposito, L.J. Siever e L. Davis hanno ipotizzato l'azione dei neurotrasmettitori cerebrali su quattro dimensioni del carattere: cognizione-percezione (dopamina), impulsività-aggressività (serotonina), instabilità affettiva (noradrenalina o acetilcolina) e ansia-depressione (GABA, Gamma amino butyrric acid, o norepinefrina).
d) I modelli interpersonali.
Sono tra i modelli di tipo più strettamente psicologico; i tratti considerati riguardano in prevalenza le modalità di relazione. T. Leary formulò per primo, negli anni Cinquanta, un modello 'quadrante' (Circumplex model), poi rielaborato da J.S. Wiggins e da L. Benjamin. Quest'ultima ha proposto un sistema complesso (SASB, Structural analysis of social behavior), 'triplo' in quanto vengono considerati i modelli del Sé, degli altri e degli introietti, a due dimensioni (indipendenza o autonomia in contrapposizione a dipendenza o coinvolgimento, e deaffiliazione o rabbia-repulsione in contrapposizione a affiliazione o avvicinamento-piacere) collocate su due assi che si incrociano al centro di un cerchio producendo molte combinazioni. La studiosa ha provato anche a decodificare i 93 criteri diagnostici dei disturbi di personalità del DSM-IV e a introdurli nella SASB per vedere quali configurazioni emergessero, cercando così di indagare un tipo di validazione indiretta dell'asse II del DSM-IV.
e) I modelli clinici.
Sono dotati di numerose dimensioni, descritte in modo più specifico rispetto ai sistemi precedenti; tra questi, i modelli di P. Tyrer, W.J. Livesley e S. Torgensen sono articolati rispettivamente in 24, 18 e 17 dimensioni. Inoltre T. Millon, studioso che ha avuto un ruolo di primo piano nella progettazione dell'asse II dei DSM, ha formulato una teoria della personalità basata su principi evoluzionistici. Come detto, nella psicologia accademica la caratteriologia è una psicologia dei tratti fondata sull'analisi del comportamento esteriore; al contrario, la psicoanalisi ha sempre cercato di comprendere le possibili cause intrapsichiche, cioè le dinamiche conflittuali sottostanti a quelli che esternamente appaiono come tratti. Tra i primi contributi psicoanalitici allo studio del carattere si ricordano quelli di S. Freud (Carattere ed erotismo anale, 1908; Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico, 1916; Tipi libidici, 1931), in cui descrisse i caratteri 'orale', 'anale' e 'genitale', determinati da fissazioni alle varie fasi dello sviluppo della libido: una classificazione oggi in gran parte abbandonata. Altri apporti vengono da K. Abraham (Studi psicoanalitici sulla formazione del carattere, 1925) e da C.G. Jung, che per primo parlò di atteggiamenti estroversi e introversi (Tipi psicologici, 1925). Anticipando di alcuni anni gli studi di A. Freud (L'Io e i meccanismi di difesa, 1936), W. Reich concepì la nevrosi non come conflitto nucleare ma come alterazione delle difese dell'intera personalità (Analisi del carattere, 1933). Nel nevrotico, secondo Reich, operano modi di essere restrittivi e induriti, che si generalizzano in modi automatici e cronici di reazione: quella che lui chiama 'corazza caratteriale'. Recentemente O. Kernberg (1984) ha individuato tre criteri per diagnosticare le tre strutture della personalità (nevrosi, borderline e psicosi), evidenziabili tramite un'apposita 'intervista strutturale': diffusione di identità, esame di realtà e meccanismi di difesa primitivi. Per es., la presenza di diffusione di identità nonché di meccanismi di difesa primitivi, e un esame di realtà conservato, indicano la struttura borderline, che si colloca ai bordi, cioè in mezzo, tra nevrosi e psicosi. Questa struttura (o organizzazione) intrapsichica viene concepita da Kernberg come responsabile di una vasta area di alterazioni descritte dal DSM-IV, comprendendo tutti i disturbi di personalità in asse II e anche alcune sindromi cliniche in asse I.
di Gianni Carchia
La più nota trattazione del carattere tramandataci dall'antichità, I caratteri di Teofrasto (4°-3° secolo a. C.), va considerata come un'estensione e un'applicazione di taluni principi contenuti nella Poetica di Aristotele. In questa, subito dopo aver illustrato il 'principio e l'anima' della poesia, vale a dire il μῦθος (la fabula, l'azione), Aristotele aveva indicato come secondo aspetto chiave della poesia l'ἦθος (il carattere), che manifesta l'inclinazione morale dell'individuo ed è la qualità che fa essere le persone in un modo piuttosto che in un altro. Teofrasto, riprendendo la distinzione accennata da Aristotele fra caratteri 'nobili' e 'ignobili', descrive trenta caratteri della seconda specie, quelli cioè che si ritrovano nella poesia comica e nella commedia antica. In linea generale, come è evidente dall'esempio fornito da Teofrasto, ciò che caratterizza la teoria antica del carattere è la tendenza a considerarlo una forza ultrasoggettiva e ultrapersonale, indipendente dalla volontà e dalla morale. Da qui la propensione alla tipizzazione dei caratteri e, soprattutto, il legame stabilito fra carattere e corporeità nell'ambito della teoria medica dei temperamenti, dalle anticipazioni di Ippocrate fino alle prime codificazioni di Galeno. Questa considerazione prevalentemente fisica del carattere, che vi scorge attitudini e facoltà in certo modo predeterminate e quantificabili, ebbe in Occidente una lunga fortuna, combinandosi fra l'altro con la dottrina della sua determinazione astrale, di origine orientale, dunque con una fisiognomica deterministica di indirizzo magico-religioso, ben viva fino alle soglie della modernità e in auge soprattutto nel Rinascimento, come hanno mostrato le ricerche della scuola di A. Warburg. Una tradizione affatto diversa, volta a cogliere nel carattere non già l'elemento generico e quantitativo, bensì quello individuale e qualitativo, è rappresentata dall'analisi morale dei caratteri così come si è espressa nel pensiero antico dell'epoca ellenistica e romana, e in particolare negli stoici, in Seneca, Marco Aurelio, e poi nella ricerca dei grandi moralisti moderni, come M. de Montaigne, J. de La Bruyère, F. de La Rochefoucauld e L. de Clapiers Vauvenargues.La filosofia moderna ha cercato di porre in relazione dialettica le due diverse tradizioni, nel tentativo di spezzare la connessione fra destino e carattere, ovvero di sottrarre quest'ultimo alla determinazione dell'uomo puramente naturale. Incarnazione esemplare di tale dialettica è la distinzione realizzata da Kant fra il carattere 'empirico' e quello 'intelligibile', il primo assoggettato al rapporto di causalità, il secondo ispirato all'immutabilità della legge morale trascendentale. Nell'Antropologia pragmatica (1798) Kant ha riepilogato l'ambivalenza della nozione di carattere spiegando che di essa ci si serve in doppio senso, poiché per un lato si dice 'un certo uomo ha questo o quel carattere (fisico)', per un altro, 'egli ha in genere un carattere (quello morale)', il quale può essere uno solo o non essere affatto. Il primo è il segno distintivo dell'uomo come segno di natura; il secondo è il segno dell'uomo come essere razionale, provvisto di libertà. Questa distinzione e, più in generale, la nozione stessa di carattere, sono state criticate dalla filosofia relativistica di G. Simmel (Introduzione alle scienze morali, 1892-93), che ha insistito sull'inutilità e sulla natura metafisica dell'idea di carattere intelligibile affermando che i soli elementi dati sono le singole azioni degli uomini. Dal canto suo M. Scheler (Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori, 1913-16), tra Otto e Novecento, presenta una contrapposizione fra persona e carattere, che mira a porre il problema della libertà su un piano d'essere affatto diverso. Voler riportare la libertà della persona a una mera causalità del carattere - afferma Scheler - significa rimanere molto al di sotto del vero significato del problema della libertà. Anche se noi conoscessimo in senso causale le disposizioni innate o acquisite di un uomo nonché tutti gli influssi del mondo esterno sopra di lui, tuttavia la sua azione sarebbe diversa, secondo la diversità della persona cui quel carattere e quelle disposizioni appartengono. Questi indirizzi della filosofia morale contemporanea sono stati ripresi dalle diverse scuole psicologiche che, proprio in forza del loro scopo teraupetico, tendono a subordinare il concetto di carattere a quello più mobile ed evolutivo di personalità.
di Bruno A. Bellerate
La riflessione sulle valenze pedagogiche del concetto di carattere prese le mosse, tra Sette e Ottocento, dai lavori del filosofo tedesco J.F. Herbart, secondo il quale il carattere, anzi la 'forza di carattere nella moralità', è l'obiettivo e l'asse portante di quella 'coltura morale' che, nella sua concezione, è la dimensione educativa più rilevante. Alla forza di carattere contribuiscono, in modo quasi determinante, le conoscenze e gli atteggiamenti psichici, ma essa è guida di tutto l'agire umano. Su questa scia, pur tenendo conto delle successive elaborazioni di ordine psicologico, studiosi di pedagogia come A. Stifter, F.W. Foerster, E. Spranger, P. Lersch e J. Lindworskj, hanno riconfermato il legame tra morale, psicologia e pedagogia: la prima costituisce lo scenario in cui ci si muove, la seconda offre i presupposti di ogni intervento, la terza elabora le strategie e ricerca i mezzi più opportuni per realizzarlo.La formazione del carattere - dizione preferibile a 'educazione' - va distinta dall'educazione morale e da quella della volontà. L'educazione morale ha infatti un ambito più vasto, in quanto ricopre l'intero territorio dell'etica, riguardando l'acquisizione di atteggiamenti e comportamenti adeguati alle norme che ne promanano; l'educazione della volontà si pone invece un obiettivo più ridotto, occupandosi del problema della decisione, che occorre saper prendere con autonomia e coerenza nella linea di una scelta ragionata. Tuttavia, in una prospettiva pedagogica globale, si tende oggi a superare ogni tipo di frammentazione, come peraltro aveva fatto lo stesso Herbart nella Pedagogia generale derivata dal fine dell'educazione (1806): la formazione del carattere si colloca tra le due istanze, poiché presuppone la disponibilità di un volere forte, che intervenga alla luce di una chiara moralità, dirigendosi di volta in volta verso obiettivi specifici che contribuiscano a dar consistenza e stabilità a orientamenti generali corretti.Il carattere, che si costruisce su un dato originario di ogni soggetto (il temperamento), implica dal punto di vista educativo un progetto che, pur preservando i tratti peculiari di ciascuno, richiede un loro equilibrato sviluppo e una loro armonizzazione con le esigenze etiche, nei confronti sia del singolo sia della società. Questo processo non solo coinvolge la ragione e la volontà, ma chiama in gioco altri concetti come la motivazione, gli ideali o valori, l'ambiente, la presenza o mancanza di rapporti umani e la coscienza. Di qui l'immediata conclusione che il carattere, come preconizzava Herbart, è frutto, più che di natura, di 'coltura', per usare il suo termine, preferibile a 'cultura' che ne è solo un presupposto: coltura infatti esplicita una valenza dinamica e operativa indispensabile, senza disconoscere l'importanza del fattore soggettivo e ambientale. In tale processo concorrono tanto le disponibilità educative e temperamentali del singolo, che deve essere conosciuto nella sua realtà originale e nelle sue potenzialità, quanto gli elementi esterni: questi producono condizionamenti ma al tempo stesso arricchimenti nel soggetto, sollecitati da coloro che vengono in contatto con lui con intenzioni educative. A concetti quali autoeducazione o autoformazione, che ignorano o sottacciono l'inevitabile dipendenza dell'uomo dall'esterno e dagli altri, sarebbe preferibile quello di coeducazione. Gli obiettivi cui tendere nella formazione del carattere sono quelli tradizionalmente noti dell'autocontrollo, che si manifesta nella capacità di tollerare divergenze o difficoltà e di gestire in modo equilibrato i propri comportamenti, e dell'impegno attivo, che implica partecipazione, attenzione agli stimoli e alle richieste che giungono al soggetto, il quale li valuta alla luce di valori morali, condivisibili e non solo personali, pur senza rinunciare a riconoscimenti e gratificazioni. I mezzi di cui servirsi in tale prospettiva vanno dall'esempio all'ampliamento di orizzonti, all'affinamento della sensibilità verso nuovi significati e bisogni.
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