Carcere
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (Costituzione italiana, art. 27)
La criticità del sistema penitenziario
di
29 luglio
Il Senato licenzia il disegno di legge per il quale i detenuti che hanno commesso reati fino al 2 maggio 2006 potranno godere di uno sconto di pena non superiore a tre anni. Per effetto del provvedimento di clemenza, sostenuto da ampie sezioni della maggioranza e dell’opposizione già nel corso della precedente legislatura per lenire il drammatico problema del sovraffollamento delle carceri, escono di prigione 23.620 detenuti, riducendo di più di un terzo la popolazione carceraria complessiva.
Perché punire e come punire
Il dibattito sul carcere, sulla sua funzione, sui suoi limiti, sulla sua configurazione sociale è spesso contraddittorio. Da un lato, in ogni convegno sul tema e in ogni articolo che analizzi la fisionomia della situazione detentiva attuale, in Italia e un po’ in tutta l’Europa, emerge il consenso nel richiedere un limite alla pena carceraria, indicandola come una tra le punizioni possibili: la più dura, da applicare in casi di effettiva gravità. Dall’altro, l’espansione della detenzione non si arresta e le politiche penali concrete fanno sempre più ricorso al carcere, quasi proponendolo come unico luogo del punire, in ciò attribuendogli un valore simbolico foriero di un presunto consenso d’opinione. Così, mentre si discute del ridurre, si assiste alla continua crescita del numero dei detenuti e alla loro reclusione in luoghi sempre meno adeguati, perché disegnati per accoglierne un numero molto minore. La ragione di questo paradosso risiede in larga parte nella carenza di riflessione sulla finalità attribuita alla pena. Interrogarsi sul significato della pena vuol dire cercare di rispondere alla fondamentale domanda del «perché punire» e a quella conseguente del «come punire». Storicamente, i tentativi di risposta hanno visto confrontarsi concezioni e posizioni diverse anche fra coloro che comunque ritengono legittimo e doveroso l’intervento punitivo dello Stato a seguito del reato commesso e non si collocano, quindi, in una prospettiva meramente abolizionista. Perché la giustificazione di tale intervento può discendere da principi diversi: reintegrare con una violenza opposta al delitto il diritto violato, oppure impedire un maggiore danno, riconoscendo la pena come un male, seppur necessario. Se, nella prima posizione, è centrale il valore di retribuzione che la pena svolge, nella seconda si accentua la sua necessità e la si dirige verso una possibile utilità: la pena deve tendere a determinare qualcosa di positivo a fronte del negativo che già si è verificato con il delitto. È quest’ultima la posizione dichiaratamente accolta dagli ordinamenti degli Stati liberali. Tuttavia l’utilità ricercata può avere due polarità di riferimento: la massima tutela della collettività esterna, o il recupero alla società del reo. Si può individuare l’utilità della pena nel salvaguardare la società da altri possibili delitti, e l’esemplarità della pena inflitta a chi ne ha commesso uno può essere vista come efficace deterrente. Oppure la si può individuare nel costruire una possibilità per il reo di risaldare quel filo sociale che ha reciso delinquendo e riconoscere proprio in tale percorso di reinserimento sociale una forma forte di prevenzione del ripetersi delle azioni delittuose. O, ancora, la si può individuare in un punto intermedio tra le due polarità, che sappia tenere insieme il valore deterrente della pena e la sua finalizzazione al reinserimento sociale. L’accentuazione su questo aspetto porta a centrare l’attenzione sul soggetto destinatario della pena e a determinare una configurazione limitata di questa, pur nelle necessarie funzioni di generale prevenzione e di tutela della collettività a essa assegnate: la pena ha una connotazione di necessità e deve essere soggetta a un continuo controllo del proprio limite. Il diritto penale assume così, come scrive Luigi Ferrajoli nella sua complessiva opera sulla teoria del garantismo penale, «due fondamentali e distinte funzioni preventive: prevenire i delitti e prevenire le pene arbitrarie e sproporzionate» (Ferrajoli 1989). In questo solco di riflessione si inserisce l’ipotesi di pena delineata dalla Costituzione italiana (art. 27 comma 3: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), che è diretta a una doppia utilità, quella della prevenzione e della difesa sociale e quella della rieducazione sociale del condannato, cioè il suo reinserimento, e agisce comunque nei limiti dell’assoluto rispetto della sua dignità e della tutela dei suoi diritti fondamentali. Del resto, ogni pena contraria a tali principi è bandita dall’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948.
L’ordinamento penitenziario italiano
L’ordinamento penitenziario italiano è del 1975: nel tempo si sono succedute diverse modifiche, che tuttavia non ne hanno alterato l’impianto sostanziale. Venne approvato dopo lunga attesa, perché per molto tempo le carceri italiane erano state gestite secondo gli antichi regolamenti adottati nel periodo fascista, spesso attenuati nella loro durezza solo dal ragionevole impegno degli operatori. La sua approvazione dava una prima attuazione al principio costituzionale, allontanandosi dall’idea retributiva della punizione, per aprirsi alla sua utilità sociale. Un percorso non facile, tanto che solo più di dieci anni dopo trovò una compiuta espressione nella cosiddetta ‘legge Gozzini’ (l. 10 ottobre 1986, nr. 663, «Modifiche alla legge sull’Ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà») che, riformando la legge del 1975, ampliò il ricorso a misure alternative alla detenzione, quali tappe successive verso il ritorno alla società. E, inoltre, solo con una sentenza del 1990, la Corte Costituzionale riconobbe alla finalità rieducativa indicata nella Costituzione un ruolo non accessorio, ma strutturante la pena stessa (sentenza del 2 luglio 1990 nr. 313): «In verità, incidendo la pena sui diritti di chi vi è sottoposto, non può negarsi che, indipendentemente da una considerazione retributiva, essa abbia necessariamente anche caratteri in qualche misura afflittivi. Così come è vero che alla sua natura ineriscano caratteri di difesa sociale, e anche di prevenzione generale per quella certa intimidazione che esercita sul calcolo utilitaristico di colui che delinque. Ma, per una parte (afflittività, retributività), si tratta di profili che riflettono quelle condizioni minime, senza le quali la pena cesserebbe di essere tale. Per altra parte, poi (reintegrazione, intimidazione, difesa sociale), si tratta bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena». Tuttavia gran parte di queste enunciazioni ha trovato un’applicazione meramente formale. A distanza di venti anni dalla legge del 1986, infatti, il riconoscimento e la tutela effettiva dei diritti dei detenuti sono ancora terreno di continui confronti e ripensamenti, mentre il reinserimento sociale al termine dell’espiazione della pena resta sostanzialmente un obiettivo non raggiunto, con la conseguente scarsa incisività sull’allarmante fenomeno della recidiva. Già nella prima applicazione del provvedimento si sono accentuate due linee di tendenza che hanno portato a un progressivo mutamento delle ipotesi iniziali. La prima riguarda la produzione crescente di forme di differenziazione dell’esecuzione penale, la seconda l’avvio di una concezione negoziata della pena nella sua concreta esecuzione. La stessa relazione introduttiva del provvedimento conteneva alcuni punti controversi, laddove individuava nel dilagare del fenomeno dell’insorgenza armata alla fine degli anni Settanta, subito dopo l’approvazione della prima riforma, un fattore di impedimento alla sua piena attuazione. Problema, questo, riproposto e ampliato nei primi anni Novanta con l’accentuarsi delle azioni di una criminalità organizzata avente una connotazione sistemica, tale da configurarsi come una struttura in grado di incidere sulla stessa vita democratica e sulla libertà dei singoli e delle loro espressioni sociali. Si adombrava così la previsione di un sottoinsieme della popolazione carceraria rispetto al quale non solo era doveroso ricorrere a forme di inibizione della comunicazione con l’esterno, al fine di ridurne l’azione di direzione dell’attività criminale, ma era anche possibile derogare alle finalità complessive attribuite alla pena e alle modalità esecutive previste. Sono sorti via via il ‘regime di sorveglianza particolare’, applicato a soggetti ritenuti pericolosi per la vita intramuraria, quello di ‘alta sorveglianza’, applicato a soggetti direttamente o indirettamente appartenenti alle organizzazioni criminali, e quello di ‘elevato indice di vigilanza cautelare’, sostanzialmente applicato agli appartenenti alle formazioni armate degli anni Settanta, pur in assenza di un possibile rapporto con le loro ormai disciolte organizzazioni. Infine, nei primi anni Novanta si è introdotto il regime speciale – il cosiddetto 41 bis (comma 2) – formalmente volto a evitare i contatti con le organizzazioni di appartenenza e che tuttavia esclude la possibilità di accesso al trattamento penitenziario, cioè la possibilità di un percorso volto al reinserimento (l’art. 41 bis della legge 10 ottobre 1986 nr. 663, riguardante soltanto le situazioni di emergenza, prevede che il ministro di Grazia e giustizia abbia facoltà di sospendere, «in caso di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza», le normali regole di trattamento dei detenuti. Con d.l. 8 giugno 1992 nr. 306, adottato subito dopo la strage di Capaci, è stato introdotto il comma 2 che riguarda la criminalità organizzata e stabilisce: «Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro di Grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 4 bis, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». La disposizione restrittiva era valida per tre anni, ma è stata successivamente prorogata fino al 2002, quando con l. 23 dicembre 2002 nr. 279 è entrata a far parte, rivista e ridefinita nei contenuti, in modo stabile dell’ordinamento penitenziario). Si è andato dunque configurando un modello di carcere fatto di cerchi concentrici di riduzione progressiva dei benefici, di diversi significati dell’azione punitiva e, nel concreto, di sempre minore riconoscimento dei diritti dei detenuti; un modello che rischia di riservare le finalità espresse dalla legge a un insieme sempre più ristretto di persone, per il suo effetto di trascinamento dell’intero sistema verso una visione reclusoria e meramente punitiva della sanzione penale. In tale quadro si è inserita da ultimo la cosiddetta legge ‘ex Cirielli’ (l. 5 dicembre 2005, nr. 251, «Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, nr. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione »), oggetto di aspro dibattito tra le forze politiche e di critiche da parte delle organizzazioni non governative che si occupano del carcere. La legge prospetta drastiche riduzioni della possibilità di accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione per i soggetti che risultino essere recidivi, senza considerare che questi costituiscono gran parte della popolazione detenuta, spesso quella socialmente meno tutelata, e scontano in generale pene brevi perché responsabili di reati di minore entità, ma di accentuata ripetitività.
Il secondo aspetto della norma del 1986 che ha condizionato gli esiti della sua applicazione e il dibattito teorico degli anni successivi è il rapporto tra la pena detentiva da scontare e le modalità esecutive alternative. Le misure alternative previste dalla legge sono la semilibertà, l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare. Altre forme di ‘modulazione discrezionale’ dell’intervento punitivo sono la liberazione anticipata, che può comportare la riduzione di 45 giorni per ogni semestre regolarmente scontato, e la concessione di permessi premio. L’ammissione al lavoro esterno è soltanto una modalità dell’accesso al lavoro e sebbene non debba essere interpretata, quindi, come misura premiale, finisce per avere tale connotazione nella quotidianità detentiva. Le misure alternative, destinate nell’intenzione del legislatore ad attenuare la centralità della pena detentiva e diminuirne la consistenza numerica, non hanno nel concreto ridotto la popolazione detenuta, bensì hanno finito con il creare un circuito di esecuzione penale esterna quantitativamente analogo a quello della reclusione, contribuendo a costruire una complessiva area dell’esecuzione penale, interna ed esterna, molto più ampia che non nel passato. Forse si può spiegare questo fenomeno – che è presente un po’ in tutti i paesi europei che hanno adottato una simile legislazione – con la considerazione da parte del giudice di cognizione, nella determinazione della misura della sanzione, della possibilità di un futuro accesso ai benefici, che può spingere verso pene più alte. Non solo, ma nella concessione delle misure alternative si è progressivamente andata consolidando una prassi che tende a leggerle non già come tappe di un percorso graduale verso il reinserimento sociale, in linea con l’impostazione correzionalista che le aveva concepite, bensì come attenuazioni dell’afflizione detentiva, discrezionalmente concesse, sulla base dell’adesione del singolo al programma trattamentale e all’istituzione carceraria. Questa diversa connotazione ha accentuato una forma di contrattualismo all’interno dell’esecuzione penale: quasi una pena ‘negoziata’, che amplifica le asimmetrie con cui i soggetti giungono al sistema penale. Disuguali nella società, essi vedono crescere la loro disuguaglianza nelle possibilità di usufruire in processo di un’adeguata difesa e, successivamente, si ritrovano fortemente disuguali nell’esecuzione della pena, perché diverse sono le loro possibilità di accedere alle alternative alla reclusione, essendo diverse le loro capacità contrattuali. Per molti settori di detenuti – in primo luogo per gli stranieri – le alternative sono così solo enunciazioni sulla carta, perché per essi è molto difficile o impossibile, in concreto, accedervi; al contempo è larga la possibilità di accesso per soggetti socialmente forti o in grado di contare su una solida difesa individuale. Si è così delineato un sistema in cui le misure alternative sono disponibili solo per una parte, pur avendo effetti inflattivi, di aumento della sanzione irrogata, per la totalità; anche cioè per coloro che non accederanno mai a esse. Questo carcere disuguale rappresenta il vero scenario entro cui collocare oggi il discorso sulla pena ed è l’esito di processi culturali e soprattutto normativi che hanno attraversato gli ultimi dieci-quindici anni: la politica proibizionista sulle droghe avviata dai primi anni Novanta e accentuata nel febbraio 2006; l’assenza di un’effettiva inclusione per gli immigrati; l’affermazione di una concezione di tutela della sicurezza che individua nelle forme di microcriminalità urbana il fattore di maggiore pericolo e contribuisce a spostare su di esse le richieste sociali di penalità (Pavarini e Mosconi 2001). Si è così assistito in Italia a un’espansione del sistema penale come strumento principale di gestione delle molte contraddizioni che abitano le nostre società, prima fra tutte l’incapacità di adottare altri strumenti regolativi dei conflitti sociali, quali la mediazione e la promozione di politiche inclusive. Affidarsi al sistema penale è sempre, del resto, il risultato del fallimento del sistema di regolazioni intermedie, della mancata costruzione di spazi di comunicazione sociale e, quindi, dell’acuirsi della criminalità di strada a cui si risponde con la secca risposta data dal vocabolario della penalità e della detenzione. Il penale rappresenta spesso la visibile testimonianza di altre assenze, sociali e politiche, e l’illusione di garantire effettiva sicurezza attraverso il solo strumento repressivo.
Dati quantitativi
È così che la popolazione detenuta è passata da 26.150 presenti al 31 dicembre 1990, a 53.030 al 31 dicembre 2000, a 59.523 alla fine dell’anno 2005, per superare abbondantemente le 61.000 unità nel 2006; nel frattempo l’applicazione delle misure alternative è passata dalle 6252 unità nel 1990 alle 36.320 nel 2000, alle quasi 50.000 nel 2005. Il numero complessivo di coloro che sono sottoposti a controllo penale è, quindi, quasi triplicato in quindici anni, senza che parallelamente si siano verificati un corrispondente aumento del numero dei reati commessi o una maggiore incisività dell’azione di indagine. Se si entra nel dettaglio delle statistiche, ci si accorge poi che la gran parte dell’aumento è stata a carico di persone connotate da una forte marginalità sociale. La fotografia della popolazione detenuta odierna può essere tratta dalla sovrapposizione di più criteri selettivi. La selezione per aree geografiche rivela che la percentuale dei detenuti stranieri è passata dall’8% della metà degli anni Ottanta all’attuale 33,3%. Nel corso del 2005 il numero degli ingressi in carcere degli stranieri è stato pari al 45% (contro il 36% registrato nel corso del 2001). La quota è, quindi, in crescita, soprattutto a seguito degli interventi legislativi ‘panpenalistici’ del 2002 (cosiddetta legge ‘Bossi-Fini’: l. 30 luglio 2002, nr. 189, «Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo») e del 2004 (l. 12 novembre 2004, nr. 271 che ha convertito il d.l. 14 settembre 2004, nr. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione). Quest’ultima norma, oltre a inasprire le pene per i reati preesistenti, ha introdotto nuove figure di reato per lo straniero che violi le prescrizioni relative all’espulsione e ha portato, nel corso del 2005, a 9619 nuovi ingressi in carcere solo per infrazioni di questo tipo. La selezione per età mostra la prevalenza di soggetti giovani, compresi tra i 25 e i 40 anni, quella per sesso che la pena detentiva è una forma di disciplinamento pensata per maschi e a essi prevalentemente rivolta. Per quanto riguarda le caratteristiche di inserimento sociale, emerge che solo una piccola parte della popolazione detenuta aveva un lavoro stabile prima dell’ingresso in carcere (circa un quinto nel 2005), una larga parte non ha concluso il ciclo dell’obbligo scolastico, una parte consistente non ha ricevuto affatto istruzione. L’analisi per tipologie di comportamenti e di vita indica l’altissima incidenza delle norme proibizioniste: i reati ‘responsabili’ dell’aumento numerico sono infatti ben individuabili e rappresentano gli esiti di una politica tendente a racchiudere nell’ambito penale il problema della tossicodipendenza – al dicembre 2005 il 27% della popolazione detenuta risultava tossicodipendente – e della pressoché assente possibilità di ingresso legale nei paesi d’Europa da parte di persone provenienti dalle aree più povere del pianeta. Con ciò non si intende affermare che le persone detenute non rispondano di reati specifici e siano recluse in carcere solo su basi comportamentali o per il loro status di migranti. Significa piuttosto che il fallimento di tali politiche ha avuto e ha un effetto criminogeno, restringendo sempre più persone nell’area dell’illegalità e, quindi, ampliando il loro possibile contatto con organizzazioni criminali ed estendendo la loro esposizione al rischio di commettere reati. Il consistente aumento, negli ultimi quindici anni, delle presenze in carcere non è stato accompagnato da un sostanziale ampliamento della capienza degli istituti penitenziari, né delle risorse finanziare e umane destinate alla gestione dell’esecuzione penale. Avviene così che, a fronte dei più di 61.000 detenuti, gli istituti penitenziari italiani abbiano una capienza regolamentare di 42.959 unità (a questa si associa a volte il dato della capienza ‘tollerabile’, che non ha tuttavia alcun riscontro nelle statistiche internazionali), con conseguenti condizioni di sovraffollamento, e che il numero degli operatori addetti all’area educativa è rimasto invariato negli anni, fino a giungere al rapporto di un educatore per più di 100 detenuti, mentre quello dell’area della sicurezza è aumentato del 130%. La fisionomia del carcere si è sempre più ripiegata verso una struttura di mero, difficile contenimento, vanificando le ipotesi della riforma iniziale che centrava la sua funzione sul trattamento: non esiste ‘trattamento rieducativo’ all’interno di una situazione dove ogni giorno è difficile garantire a tutti i diritti elementari, dalla salute, al posto letto, alla dignità personale. Questa situazione, che tra la fine del 2005 e il primo semestre del 2006 è stata sempre più portata all’attenzione dell’opinione pubblica da parte dei mezzi di informazione, è oggetto di denuncia non solo da parte delle organizzazioni di volontari che frequentano il carcere, ma anche di chi in carcere opera, nelle varie aree di competenza, perché le loro stesse condizioni di lavoro peggiorano all’aumentare delle difficoltà soggettive delle persone recluse e al parallelo restringersi degli spazi di vivibilità quotidiana. A sua volta il peggioramento delle condizioni di lavoro degli operatori retroagisce nel deterioramento della qualità delle relazioni con le persone a essi affidate, avviando così un circolo negativo che rischia di aggravare la condizione complessiva del sistema detentivo e di divenire possibile terreno di abusi.
Il quadro europeo
Questo quadro allarmante non riguarda soltanto l’Italia, ma una larga parte dei paesi europei, anch’essi investiti in anni recenti dal processo di espansione della detenzione e dell’accentuarsi della debolezza sociale dei suoi destinatari. Le stesse attenzioni e riflessioni di chi da sempre osserva il carcere e discute sulle finalità della pena tendono ad arretrare: dalla ricerca di modalità per costruire percorsi di effettivo reinserimento, alla garanzia di tutela dei diritti fondamentali delle persone recluse, al controllo che le pene non finiscano per configurare quei «trattamenti inumani o degradanti» che la Convenzione europea per la salvaguardia delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo esplicitamente bandisce. L’art. 3 della Convenzione, che, approvata il 4 novembre 1950, è trattato vincolante per gli Stati del Consiglio d’Europa, recita, infatti, che «nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti e pene inumani o degradanti». A differenza della tortura, che si manifesta in atti singoli e volontari, un trattamento inumano o degradante può ben essere il risultato di mere circostanze, delle condizioni di detenzione, dei comportamenti omissivi; di una serie di fattori, quindi, che lo configurano, pur in assenza della esplicita volontà di alcuno di infliggere sofferenza. Questo è stato il fulcro di una sentenza della Corte Europea di Strasburgo (l’organo giudiziario preposto al controllo del rispetto degli obblighi derivanti dalla Convenzione da parte degli Stati firmatari) del 2003, riguardante un ricorso nei confronti della Federazione Russa, che ha stabilito che le condizioni di detenzione nelle quali era stato tenuto il ricorrente, dati l’alto sovraffollamento e le condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili, costituivano di per sé una violazione dell’art. 3, indipendentemente da qualsiasi volontà specifica da parte delle autorità di infliggergli sofferenza, ma solo in virtù della loro incapacità a garantire condizioni minimamente rispettose della sua dignità personale. Simile preoccupazione è espressa nelle raccomandazioni rivolte alle autorità di vari Stati europei dal Comitato per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumani o degradanti, l’organismo del Consiglio d’Europa istituito nel 1987 con compiti ispettivi nei luoghi di privazione della libertà e costituito da membri indipendenti, uno per ogni Stato firmatario della Convenzione. Nella sua ispezione più recente in Italia, del 2004, il Comitato ha riscontrato in diversi istituti di pena condizioni igieniche critiche e cure mediche insufficienti; in alcune situazioni sono state segnalate violenze che non hanno trovato un’adeguata risposta sanzionatoria da parte delle autorità responsabili. Sono segnali di sofferenza dell’attuale sistema, a cui si aggiungono quelli forniti per il 2005 dalla stessa Amministrazione penitenziaria italiana che parlano di 11.800 detenuti – circa un quinto del totale – affetti da patologie del sistema nervoso e da disturbi mentali, di 16.185 tossicodipendenti e di 57 suicidi. Questi numeri portano a ritenere doverosa una discussione sul carcere che non sia episodica ed evidenziano la necessità di affrontare l’attuale situazione con interventi strutturali. È emblematica, in questo quadro, l’esperienza del provvedimento di indulto adottato con la legge 1° agosto 2003, nr. 207 – detto ‘indultino’ per la sua limitatezza – che ha comportato la sospensione condizionale della pena detentiva residua, purché nel limite di due anni, per coloro che avessero scontato almeno la metà della pena complessiva e che non fossero condannati per alcuni gravi reati elencati nel provvedimento. Secondo dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria, per effetto del provvedimento sono stati scarcerati 4051 detenuti, ma già alla fine del 2004 il numero dei carcerati superava di quasi 2000 unità quello che si aveva all’atto della sua emanazione. Ciò conferma che l’assenza di interventi strutturali capaci di incidere sulla riproposizione del fenomeno dell’estensione detentiva vanifica in tempi brevi gli effetti degli interventi deflativi, anche quando questi sono resi necessari dalla drammaticità della situazione. Per questo il dibattito ripreso con la nuova legislatura e che in luglio ha portato al varo del provvedimento di clemenza deve accompagnarsi con quello più generale sull’avvio di una diversa politica penale e di una più consistente risposta sociale. È stato lo stesso Consiglio d’Europa a invitare, già nel 1999, gli Stati aderenti a non affrontare il problema dell’affollamento carcerario con provvedimenti contingenti o con la mera espansione del numero di celle. Ha sollecitato invece una riconsiderazione complessiva del sistema penale, accentuandone la connotazione di sussidiarietà, quale risorsa che interviene laddove altre forme di intervento non sono riuscite e che comunque agisce in cooperazione con esse. Il Consiglio ha altresì sollecitato a restringere al suo interno il ricorso al carcere, prevedendo altre forme di pena, non limitandosi alle sole misure alternative a una pena centrata sulla detenzione. Questa raccomandazione è resa necessaria dalla constatazione, a cui si è già accennato, della quasi omogeneità del fenomeno all’interno degli Stati membri: ovunque alte percentuali di tossicodipendenti, di stranieri, di detenuti malati e affollamento. Se, infatti, in Italia poco più di un abitante ogni 1000 è detenuto, in altri paesi la percentuale è ancora più ampia: 1,4 abitanti per ogni 1000 nel Regno Unito, in Spagna e in Lussemburgo, 1,3 in Olanda e Portogallo; tassi ben maggiori nei paesi di recente democrazia, provenienti dall’ex blocco sovietico. Il rischio è quello di una linea tendenziale che possa riprodurre quel fenomeno estensivo che ha riguardato il panorama detentivo degli Stati Uniti d’America negli anni Ottanta-Novanta: nel 1975 la situazione era simile a quella attuale in Europa, oggi il sistema coinvolge più di sette persone ogni mille abitanti, senza che tale processo abbia aumentato la percezione di sicurezza dei cittadini. Al contrario, il carcere cresce numericamente mentre cresce l’insicurezza, e questa produce richieste di maggiore ricorso a esso.
Una tendenza da invertire
È possibile invertire tale tendenza? Per rispondere occorre ricercare le radici dell’estensione della richiesta di carcere da parte della collettività insicura. Questa non nasce certamente dal riconoscere a esso una qualche utilità effettiva ma piuttosto dalla volontà di non vedere, di rinchiudere, di porre in un luogo ‘altro’ ciò di cui si ha paura. Ma questa paura e il continuo inseguimento di una irraggiungibile totale sicurezza sembrano essere il prodotto di altre paure, di una insoddisfatta domanda di sicurezza sociale, di un lavoro, una casa, di una mancanza di certezza sul proprio futuro, che invece di trovare espressione nell’agire e nella volontà di trasformazione porta a restringersi nell’ambito del proprio privato, a difenderlo da potenziali aggressori. L’insoddisfatta richiesta di sicurezza sociale diviene così richiesta sociale di sicurezza individuale: una domanda, mai appagata, di difesa dalle diversità. Le risposte della politica sempre più inseguono tale inesaudibile richiesta. Aumentano di conseguenza le risorse destinate alle risposte repressivo-penali e, parallelamente, calano fortemente quelle destinate alle risposte sociali, al welfare: ciò progressivamente riduce le possibilità dell’inclusione sociale, mantiene forte il rischio di esclusione e anche la possibilità di commissione di reati. Il processo di criminalizzazione e di autocriminalizzazione, che così si innesca, trova riscontro nella continua crescita della recidività e finisce con il confermare risposte di questo tipo. Il cerchio non si chiude mai e la domanda di sicurezza non è mai soddisfatta. Per questo, in Europa come in Italia, è oggi ineludibile capire quali siano gli strumenti per evitare di alimentare la devianza, la marginalizzazione e la carcerizzazione di massa delle fasce deboli. Solo all’interno di questa riflessione può riaprirsi su basi non effimere il dibattito sulle modalità del trattamento penitenziario e sulla costruzione di percorsi di reinserimento: perché altrimenti è destinato a rimanere un puro esercizio sempre minato dal crescente numero dei soggetti reclusi e, quindi, dalla constatazione della propria inefficacia. Ma è anche essenziale riportare il carcere a luogo di esperienza di diritti, togliendo quella caratteristica che oggi lo contraddistingue di luogo in cui si vive la distanza tra ciò che la legge afferma e la realtà che quotidianamente si sperimenta. Quasi tutte le legislazioni nazionali sono fortemente enunciative e rischiano di indicare più le intenzioni che la realtà, con il risultato di far vivere proprio chi deve ricostruire il senso della legalità in una situazione sostanzialmente illegale perché non conforme a ciò che le norme stabiliscono. Ben pochi degli standard di alloggio in carcere enunciati nel Regolamento degli istituti penitenziari italiani del 2000 sono, per esempio, attualmente rispettati. Per questo è essenziale che il carcere si apra sempre più agli sguardi esterni, al controllo, al monitoraggio continuo da parte di organismi indipendenti. Gran parte degli Stati europei ha introdotto in questi anni un organo di garanzia con tale funzione e con possibilità di accesso ai luoghi di detenzione, di colloquio privato con i singoli, di esame della documentazione relativa ai loro casi. In Italia il dibattito sull’introduzione del ‘Garante per le persone private della libertà’ è recente: nelle ultime due legislature sono stati depositati diversi disegni di legge volti alla sua introduzione, che tuttavia non sono approdati alla discussione delle aule parlamentari; alcune esperienze di introduzione di ‘garanti’ sono state avviate a livello territoriale, ma, in assenza di una normativa nazionale che ne definisca caratteristiche e poteri, tali figure hanno ben poche possibilità di intervento. Le forme di controllo oggi esistenti sono invece quelle espletate dai parlamentari, nazionali e regionali, e dalla magistratura di sorveglianza. Per i primi, però, si evidenzia il limite di un controllo che non può essere costante nel tempo e che inoltre non si avvale della possibilità di accesso alla documentazione relativa ai reclusi. Per la magistratura di sorveglianza il limite è dato dall’eccessiva quantità di compiti a essa attribuiti. Infatti, se il controllo della magistratura è di per sé la massima garanzia offerta per la tutela dei diritti delle persone recluse, tuttavia la funzione del magistrato di sorveglianza è andata sempre più configurandosi nel tempo come quella della decisione sul possibile accesso alle misure alternative. La funzione di vigilanza si è andata affievolendo e il monitoraggio continuo è spesso divenuto impraticabile. L’istituzione di un garante per le persone private della libertà non va, quindi, nella direzione di diminuire la rilevanza del controllo del magistrato sul carcere bensì di supportarla perché garante e magistrato dovrebbero agire su piani diversi, il primo rivolto alla osservazione, mediazione e prevenzione dei conflitti, il secondo alla tutela giurisdizionale dei diritti. La mediazione e la tutela giurisdizionale operano su piani, appunto, separati e con regole diverse, ma è il loro congiunto operare a comportare effetti positivi, così come avviene nell’esperienza europea tra il Comitato per la prevenzione della tortura e la Corte di Strasburgo. Infine, la possibilità di un’inversione che riporti a normalità la situazione detentiva risiede nella capacità di intervenire nello stesso impianto di codificazione penale in due direzioni: diminuendo il continuo ricorrere all’introduzione di nuove leggi in materia penale sulla base del loro astratto valore simbolico e ampliando la gamma delle possibili sanzioni, con l’introduzione per molti tipi di reato di pene non detentive, bensì centrate sull’interdizione, sul possibile rimedio al danno inferto, sul recupero attraverso lavori socialmente utili. Si riserverebbe così il carcere quale pena da utilizzare limitatamente – quasi una extrema ratio – riservata a delitti di effettiva gravità e laddove altre forme risultassero inadeguate o ineffettuali. Avendo ben chiaro che non si rende giustizia se non tenendo come riferimento tutti gli attori coinvolti: chi è vittima di un reato e vuole vedere riconosciuto il male subito, chi ha il diritto a essere tutelato da possibili reati, chi ha diritto a non essere escluso dal contesto sociale e chi, avendo commesso un reato, sconta una pena ed è pur sempre portatore di diritti legalmente definiti. Il cui non rispetto stride con ogni affermata volontà di esercitare giustizia.
repertorio
Cenni storici
Dal carcere al penitenziario
In senso generale il termine carcere è usato per indicare il luogo in cui vengono rinchiusi sia coloro che sono in attesa di giudizio, sia coloro che debbono scontare la pena inflitta per il reato commesso. In senso tecnicamente più preciso, nel primo caso si può parlare propriamente di carcere, mentre il luogo dove è costretto il condannato dopo la sentenza del giudice si definisce più propriamente penitenziario. Questo mutamento di significato, dal sistema carcerario come luogo di mera custodia a luogo di espiazione della pena, è relativamente recente e andò affermandosi, a partire dal secolo 18°, a mano a mano che la condanna alla reclusione – cioè all’imprigionamento considerato come punizione in sé stessa – divenne una delle principali forme di sanzione penale, via via prevalente sulle più tradizionali e più crudeli forme di punizione corporale. Prima della nascita del penitenziario, il carcere ha comunque una lunga storia. In origine luoghi di supplizio o di custodia dei condannati in attesa di essere giustiziati, le prigioni non si distinguevano per particolari caratteristiche architettoniche, prestandosi allo scopo qualunque luogo da cui fosse impossibile fuggire, come caverne, cisterne o locali sotterranei. Uno dei primi edifici carcerari di cui si ha notizia è il Carcere Mamertino, situato a Roma ai piedi del Campidoglio e ancora ben conservato: esso consta di una sala superiore di forma trapezoidale e di un locale sotterraneo di forma quasi circolare, dove per lo più avvenivano le esecuzioni dei condannati. I Germani e i Franchi non conoscevano il carcere come luogo chiuso e la privazione della libertà personale avveniva mediante i ceppi; quando si stanziarono in Italia, il cippus si trasformò in carcere, conservando il nome originario. Durante tutto il Medioevo e nei primi tempi dell’età moderna furono adattati a carceri torri, vecchi edifici e sotterranei privi di luce, di aria e di qualunque requisito igienico; anzi, per il carattere essenzialmente punitivo della reclusione erano preferiti locali nei quali le condizioni di vita fossero particolarmente dure. Tali carceri in Italia vennero chiamate segrete e un esempio tristemente famoso è costituito dai Piombi del Palazzo Ducale di Venezia. Non meno famose, per motivi analoghi, furono la Torre di Londra, la cui costruzione fu iniziata nell’11° secolo sotto Guglielmo il Normanno, e la parigina Bastiglia, iniziata nel 1370 e abbattuta dalla Rivoluzione il 14 luglio 1789. Non diversamente da quanto avveniva nell’antichità, per lunghi secoli solo eccezionalmente il carcere veniva previsto negli ordinamenti in sostituzione della pena capitale e delle pene pecuniarie. Per questo suo carattere secondario e sussidiario, la pena detentiva non fu oggetto di una vera e propria regolamentazione. Ciò che occorreva era rendere la detenzione sempre più dura perché potesse reggere al confronto con le pene corporali, senza allontanarsi dalla finalità sostanziale di quelle pene che si riduceva alla realizzazione della vendetta sociale. Nella tristezza della prigione si ricercò in tutte le ore, in tutte le occasioni, in tutte le manifestazioni della vita morale e della vita materiale, la possibilità di colpire atrocemente il condannato: offese all’onore e alla dignità, lavoro a esaurimento senza utilità e senza soddisfazione, negazione di un obbligo statale alla somministrazione del vitto, che bisognava attendere dalla pietà di benefattori, promiscuità di vita fra detenuti diversi per età, per criminalità, per recidiva.
Soltanto nel 16° e 17° secolo si cominciarono a costruire edifici carcerari appositi, dove le condizioni dei detenuti migliorarono gradualmente. Tali iniziative accompagnarono l’affermazione di un movimento di opinione che cominciò a proporsi lo scopo non solo di far cessare gli abusi offensivi della persona umana nelle carceri, ma anche di sfruttare lo stato di detenzione per migliorare il detenuto e riadattarlo alla vita sociale. Diversi elementi contribuirono al successo di questo movimento. Gli avvenimenti politico-militari dei secoli 16° e 17°, sconvolgendo l’Europa, avevano prodotto un aumento spaventoso della delinquenza. Giuristi e uomini di governo si trovarono di fronte all’impossibilità di colpire un così gran numero di delinquenti con le solite pene corporali e, d’altra parte, l’ammassamento dei colpevoli in luoghi chiusi, senza ordine, senza disciplina, creava condizioni propizie al degrado progressivo dei condannati che, una volta scontata la pena, tornavano in società peggiori di prima. Ebbe allora inizio il tentativo di trovare nel lavoro svolto durante la pena detentiva un mezzo di rieducazione. Si trattò inizialmente di tentativi isolati che non si riconnettevano a veri e propri sistemi. Tuttavia l’indirizzo rieducativo della pena detentiva conobbe già notevoli applicazioni: fra di esse, il Rasphuis, adattamento, eseguito nel 1595, di un convento di Amsterdam con celle individuali disposte intorno a un ampio cortile, ove i detenuti esplicavano attività lavorative. Seguì la creazione di istituti affini a Brema (1609), Lubecca (1616), Amburgo (1622), Danzica (1629). Nella casa di detenzione fatta costruire nel 1623 dal cardinale Zapata a Napoli, si attuò la separazione dei detenuti secondo l’età e le condizioni sociali; a Firenze fu istituita una ‘Casa pia di rifugio per minorenni’ (1650-77); a Roma nel 1655, sotto il pontificato di Innocenzo X, furono erette le Carceri Nuove, site in via Giulia, e più tardi, nel 1703, sorse l’Istituto romano di San Michele, il primo carcere cellulare al mondo. Sul piano culturale, e più specificamente su quello delle teorie giuridiche, il nuovo movimento di opinione conobbe la sua realizzazione più alta nella pubblicazione (1764) della celebre opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, in cui la condanna dell’asprezza delle pene scaturiva direttamente dalla dimostrazione della loro inutilità.
Le origini del sistema penitenziario
L’opera di Beccaria esercitò la sua grande influenza più nel campo degli ordinamenti penali in generale che in quello più specifico delle modalità dell’esecuzione della pena detentiva. Il problema della riforma dei sistemi carcerari fu invece posto all’ordine del giorno da un filantropo inglese, John Howard (1726-1790), la cui opera destò nell’opinione pubblica mondiale un’attenzione e un interesse paragonabili solamente a quelli suscitati dalla pubblicazione del libro di Beccaria. Nominato sceriffo della contea di Bedford nel 1773, Howard era rimasto sconvolto dalla visita alle carceri locali, cui era tenuto dai doveri dell’ufficio. Oltre alle pessime condizioni di vita dei detenuti, a colpirlo fu in particolare il fatto che l’esercizio del sistema carcerario era soprattutto un affare economico per i privati che lo gestivano: tutto era a pagamento, a cominciare dalla possibilità di deambulare senza le catene, e anche coloro che venivano assolti dal giudice non venivano rilasciati prima di aver pagato le spese di vitto e alloggio. Tra le raccomandazioni di Howard, le principali furono volte a rendere i carcerieri dei pubblici ufficiali stipendiati dalla contea e a responsabilizzare i giudici nei confronti dello stato di salute dei detenuti. Nel 1777, dopo aver viaggiato per tutta l’Inghilterra e aver visitato le principali nazioni europee, pubblicò il volume Lo stato delle prigioni, che grazie alla ricca appendice statistica, continuamente aggiornata nelle diverse edizioni comparse in vita dell’autore, affrontò per la prima volta il problema sociale della detenzione carceraria sulla base di analisi dettagliate. Le riforme auspicate da Howard riguardavano il miglioramento delle condizioni igieniche degli ambienti carcerari, la fornitura ai detenuti di un abbigliamento adeguato, la garanzia di assistenza sanitaria, la segregazione in base al sesso, all’età e alla natura del crimine commesso. Convinto che la prigione dovesse essere anzitutto strumento di recupero, Howard sottolineò l’importanza della religione nella rigenerazione spirituale del carcerato e fu soprattutto un sostenitore dell’etica del lavoro e della necessità di tenere lontani i detenuti dal peccato di pigrizia. Da queste idee, a partire dalla fine del Settecento, sorsero i sistemi penitenziari, ossia i vari tipi di ordinamenti esecutivi delle pene detentive prescelti nei vari stati per realizzare, nelle case di pena, il riadattamento del condannato alla vita sociale. La diversità dei sistemi non riguardò tanto la finalità da raggiungere, quanto la scelta dei metodi più appropriati per realizzarla. Sia sul terreno teorico sia su quello pratico si registrò un accordo su alcuni punti fondamentali, come la necessità del lavoro, la separazione dei detenuti, l’opportunità di creare ambienti rispondenti ai più elementari principi di igiene, l’utilità dell’istruzione per correggere l’analfabetismo e della religione per rafforzare i sentimenti morali. La discussione si aprì invece su un punto centrale della vita carceraria, quello relativo alla scelta tra l’isolamento continuo del condannato e la vita in comune. Su questo punto neppure lo stesso Howard ebbe idee precise e sicure, e si può dire che proprio nella preferenza per l’una o l’altra soluzione risieda sostanzialmente la diversità tra i sistemi penitenziari.
Modelli di sistema penitenziario
Nel corso del 19° secolo si distinsero sostanzialmente tre modelli di organizzazione penitenziaria: il sistema filadelfiano, il sistema auburniano e il sistema irlandese. Il primo prende nome dal penitenziario di Cherry Hill, edificato nel 1829 nella città di Filadelfia (Pennsylvania). L’istituto si componeva di sette blocchi di celle distribuiti a raggiera a partire da una struttura centrale destinata all’amministrazione; ogni cella aveva a disposizione un piccolo cortile, ma il prigioniero non poteva vedere nessun altro al di fuori dei carcerieri, e ogni sua attività – mangiare, dormire e lavorare – si svolgeva nell’isolamento completo all’interno della cella. L’idea che stava alla base del sistema filadelfiano, noto anche come separate system per la sua principale caratteristica, era che l’opera di recupero del condannato sarebbe riuscita più efficace se esercitata su individui isolati, dal momento che l’isolamento garantiva da contatti che avrebbero annullato gli effetti dell’attività rieducatrice dei dirigenti.
Il sistema auburniano si chiama così dal nome del carcere modello costruito a Auburn nello Stato di New York nel 1824. L’istituto prevedeva l’isolamento notturno, ma durante il giorno era consentito il lavoro in comune, che doveva comunque svolgersi nel più rigoroso silenzio (da cui la definizione di silent system). Il vantaggio del sistema auburniano veniva individuato nel fatto che esso consentiva ai prigionieri di partecipare insieme a lavori più impegnativi di quelli che potevano essere affidati ai singoli rinchiusi nelle celle (in genere lavori di tessitura). I fautori di questo sistema non si nascondevano i rischi potenziali dell’attività in comune, ma ritenevano che un’opportuna selezione dei condannati in gruppi omogenei potesse attenuare i pericoli del ‘contagio morale’. In realtà la differenza tra il metodo auburniano e quello filadelfiano era molto più apparente che reale: entrambi si basavano su una ferrea disciplina, sulla durezza del lavoro e sull’impedire in tutti i modi che si instaurassero rapporti tra i carcerati. Il sistema auburniano fu seguito soprattutto negli Stati Uniti, mentre l’Europa guardò con maggior favore al sistema filadelfiano. Intorno alla metà del secolo tuttavia si venne affermando un nuovo modello, che pur condividendo le linee di fondo dei precedenti sistemi tendeva a esaltarne le capacità di rieducazione e la finalità del pieno reinserimento nella vita civile dei condannati. Il nuovo sistema, chiamato anche ‘intermedio’, perché inteso come una sorta di via di mezzo tra la reclusione rigida e la libera comunità, fu ideato da sir Walter Crofton e da lui posto in atto a partire dal 1854, quando divenne amministratore del Sistema penale irlandese (da cui anche la denominazione di ‘sistema irlandese’). Crofton si ispirava, a sua volta, ai principi di riforma penale che avevano guidato un altro pioniere del penitenziario moderno, Alexander Maconochie, il quale nella colonia penale dell’isola di Norfolk (Australia) aveva sperimentato un metodo di certificazione dei progressi ottenuti dal prigioniero nella condotta, nel lavoro e nell’istruzione. Il sistema irlandese di Crofton prevedeva un periodo di reclusione in isolamento, sul modello filadelfiano, dopo il quale i condannati venivano trasferiti nelle cosiddette ‘prigioni intermedie’, una sorta di istituti di lavoro con una supervisione minima, in cui era possibile ai detenuti dare prova della loro affidabilità e della loro capacità di riadattamento al lavoro esterno. In base alle note positive accumulate, il detenuto meritevole, prima di aver completamente scontato la pena, avrebbe potuto ottenere la libertà sulla parola, sotto il controllo di un ufficiale di polizia che si sarebbe occupato anche di trovargli nuovi lavori e di sorvegliarlo nel corso di tali attività.
Evoluzione del sistema
La specializzazione degli studi e il moltiplicarsi degli esperimenti volti a fare del carcere anzitutto uno strumento di rieducazione portarono, da un lato, ad abbandonare la ricerca di schemi rigidi di esecuzione e, dall’altro, al maturare di un vasto moto riformatore, che ha contribuito a riformulare la definizione stessa del sistema penale intorno a tre punti essenziali. Il primo è l’umanizzazione della pena, da assicurare in primo luogo con il rispetto della dignità e della personalità dei reclusi. Un secondo punto riguarda la concezione dello scopo della pena, non più ancorata a mere finalità repressive e afflittive, ma diretta a favorire, attraverso appositi trattamenti, il reinserimento sociale del condannato; in questo senso le moderne teorie criminologiche insistono sulla necessità di evitare che i carcerati si trovino del tutto esclusi dalla vita esterna, non solo familiare, ma anche sociale; di qui lo spazio dato in molti ordinamenti positivi ai regimi di trattamento in semilibertà (fino alla condanna scontata con limitazione della libertà nelle sole ore notturne) e il sorgere dei cosiddetti istituti aperti, perfettamente inseriti nel tessuto sociale delle località in cui si trovano, anche attraverso l’ampia libertà concessa ai loro ospiti di avere contatti (e a volte di lavorare) all’esterno. Il terzo punto, diretta conseguenza delle indicazioni sopra esposte, è la tendenza a limitare al massimo grado possibile la durata delle pene, sostituendo a esse diversi strumenti di controllo sociale, come per esempio il sistema della probation, o libertà condizionale in luogo della prigione, istituto adottato per la prima volta nel 1878 dallo Stato del Massachusetts e poi esteso al resto degli Stati Uniti.
bibliografia
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