Dreyer, Carl Theodor (propr. Nilsson, Carl Theodor)
Regista cinematografico danese, nato a Copenaghen il 3 febbraio 1889 e morto ivi il 20 marzo 1968. È da annoverare tra i più grandi registi del cinema, benché abbia girato, in cinquant'anni di lavoro a partire dal 1918, solo ventuno film (compresi molti cortometraggi), intervallati da lunghi periodi di inattività. Sembra quasi che il cinema, come spettacolo di massa, 'costretto' a cercare i consensi di tutti, abbia sempre considerato D. una specie di corpo estraneo, diffidando del suo rigore, della sua intransigenza, dei suoi temi considerati poco spettacolari. Neppure il Leone d'oro a Venezia, nel 1955, per Ordet (1954, La parola), riuscì ad assicurare a D. quel minimo consenso di pubblico che gli venne negato per tutta la vita. Fuori da ogni prospettiva di generi, coerente nel portare fino alle ultime conseguenze la logica di situazioni estreme, D. ha costituito il prototipo del regista-autore, sebbene molti suoi film siano tratti da opere preesistenti; anche per questo, forse, è stato a lungo inserito tra gli esponenti di un cinema 'spirituale' o genericamente 'religioso', sulla base del tutto estrinseca dei temi trattati. Dagli anni Sessanta, mutata la linea interpretativa sul suo cinema, si è teso a valorizzare categorie diverse di non minore rilevanza, come il versante concreto di ogni esperienza di misticismo, la carnalità di ogni miracolo, la fisicità di ogni martirio, il sangue che ineluttabilmente sgorga in presenza di ogni Passione: è questo a far sì che il versante della cosiddetta spiritualità non sempre coincida con quello del sacro, se è vero che il sacro ha a che fare con il sacrificio, quindi con il corpo, con il rito cruento e terribile della sua messa a morte, e con l'erotismo continuamente insidiato dall'angoscia, all'interno, e dalla repressione sociale, all'esterno, ma che costituisce sempre, per D., una potente energia vitale.
Figlio illegittimo di madre svedese (Joséphine Nilsson), morta avvelenata per un procurato aborto poco dopo la sua nascita, venne adottato da una famiglia danese, residente a Copenaghen, i Dreyer. La nascita di D. porta in sé l'assillo di una lacerazione, segnata drammaticamente dall'assenza del padre e dalla morte della madre. La famiglia che lo accolse era una famiglia in seno alla quale il giovane Carl non trovò né amore né comprensione. Dopo gli studi medi, svolse diversi lavori, seguì contemporaneamente corsi d'arte e di storia dell'arte, frequentando anche la Società degli studenti, associazione radicale per un impegno nella società e nella cultura, aderendo infine alla Gioventù liberale. Coltivò anche la sua passione per l'aeronautica. Iniziò quindi a scrivere per numerosi giornali danesi, sino a diventare un vero giornalista e in questa veste ebbe i suoi primi contatti con il mondo del cinema. Avvicinarsi al cinema significò per D. in primo luogo emanciparsi dal clima asfissiante della famiglia adottiva. Tra il 1912 e il 1919 scrisse numerose sceneggiature, ma l'avventura dietro la macchina da presa cominciò con Præsidenten (1918, Il presidente), girato in Danimarca per la Nordisk Film, non senza concessioni al melodramma, e proseguì con i vari episodi di Blade af Satans bog (Pagine dal libro di Satana), girato nel 1919 e uscito nel 1921, film ancora influenzato da Intolerance (1916) di David W. Griffith. Questa prima fase, con film come Prästänkan (1920, La vedova del pastore), Die Gezeichneten (1921, Gli stigmatizzati) e Der var engang (1922, C'era una volta), girati in Danimarca, Svezia e Germania, culminò con Mikaël (1924; Michael o Desiderio del cuore), il cui soggetto, molto coraggioso per l'epoca, si basa sul rapporto implicitamente omosessuale di un anziano pittore con il giovane modello Mikaël. Lo stile di D., in una produzione tedesca molto accurata, si dimostra ormai maturo, e ricco di originali soluzioni di montaggio. In seguito al successo, anche commerciale, di Du skal ære din hustru (1925; Il padrone di casa o L'angelo del focolare), D. venne chiamato a Parigi dalla Société générale de films, per la quale realizzò La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco). A interpretare la parte di Giovanna fu scelta un'attrice di teatro, Renée Falconetti, del cui volto 'contadino', liberato da qualunque tipo di trucco, D. intuì le straordinarie capacità espressive. La Giovanna della Falconetti è stata, in realtà, il Gesù del film che D. non riuscì mai a realizzare, pur avendone composto lo scenario che sarebbe stato pubblicato, postumo, nel 1968 (Jesus; trad. it. Gesù. Racconto di un film, 1969). Forse qualcosa di straordinario, di magico, di sacro appunto, accadde su quel set, come ebbe a dire Antonin Artaud (interprete del monaco Massieu) sulla strana corrente psichica che s'era stabilita tra lui, la Falconetti e il regista. Dal braccio di Giovanna, sottoposta a salasso, il sangue sprizza come una fontanella, i suoi capelli cadono, tagliati davanti alla macchina da presa. I santi hanno un corpo, e D. sapeva bene che non avviene accesso alla santità senza sacrificio, e non esiste sacrificio se non del corpo. Si evidenzia nella Giovanna di D., ma forse in tutte le Giovanne, una misteriosa androginia, che dovette probabilmente turbare i suoi contemporanei, giudici compresi, le cui domande volentieri si aggirano sull'argomento dell'abito maschile, se ella sia o no disposta a deporlo, per vestirne uno più confacente al suo sesso. Il taglio dei capelli già corti della Falconetti, ribadisce così, l'ambiguità sessuale della Pulzella: è un rito sacrificale, ma anche la ratifica di una diversità. È per questo, e non solo perché il titolo vi alluda o per la rigorosa struttura processuale, che quella della Falconetti è una Passione, e tanto più lo è in quanto, forse in nessun altro caso nella storia del cinema, sono state ricercate con implacabile coerenza tutte le condizioni (non solo la famosa regola del silenzio sul set di un cinema ancora muto) affinché l'attrice potesse andare decisamente oltre l'interpretazione. Entro certi limiti, forse mai più raggiunti, l'attrice qui è il personaggio, la Falconetti è Giovanna d'Arco, bruciata sul set. "Attraverso la discontinuità dello spazio-tempo, la riduzione della profondità di campo, l'insistenza sui primi piani, il ricorso al particolare e l'uso creativo della didascalia Dreyer fa della Passion l'eco dell'indicibile e dell'incomunicabile. […] Il film raggiunge il limite estremo delle possibilità espressive del cinema, ma resta concreto e materiale perché analizza solo la dimensione dell'essere-nel-mondo, l'orizzonte della vita: si arresta dove non c'è più nulla da dire o da suggerire, di fronte all'aldilà" (Tone 1978, pp. 53-54).
Il successo di critica non evitò alla Passion il più totale insuccesso di pubblico. La società di produzione francese ruppe il contratto con D., che dovette aspettare sei anni prima di riuscire a girare Vampyr (1931). Una particolarità del film sta nel fatto che non si collega al Dracula di B. Stoker, ma a una breve novella di J.Sh. Le Fanu, Carmilla, pubblicata nel 1872 nella raccolta In a glass darkly, che mette in scena per la prima volta un vampiro donna, Carmilla. Ma dal lavoro di Le Fanu D. non trasse che lo spunto, e la stessa donna vampiro, ribattezzata Marguerite Chopin, resta in fondo un personaggio secondario. In realtà, anche Vampyr registrò, all'uscita, un clamoroso insuccesso di pubblico, e benché sia stato poi rivalutato dalla critica, è rimasto sempre appartato dalla rosa dei film legati ai temi del vampirismo. La ragione è che si tratta di un film con un filo narrativo esilissimo, poco più che un pretesto, governato invece dalla logica fantastica del sogno. In genere, l'incubo culmina in un picco d'angoscia, scatenante una violenta crisi di panico, che determina il risveglio. I personaggi di Vampyr (e lo spettatore con essi) sono invece immersi in un'atmosfera d'inquietudine sottile, impalpabile, la cui origine resta nascosta. L'universo di Vampyr è affetto da una malattia misteriosa, in esso i personaggi sembrano muoversi in stato sonnambolico o di trance. Accadono cose strane ‒ chiavi che girano da sole nelle toppe, ombre rese indipendenti dai corpi, rumori, brusii ‒ mentre le morti violente, le uccisioni, avvengono quasi sempre fuori campo, a eccezione del finale con la morte del malvagio dottore, aiutante di Marguerite. Il dottore, rinchiuso in un vecchio mulino, muore soffocato dalla farina che, cadendo dall'alto, lo sommerge: una morte orribile, mostrata in primo piano, eppure, in un certo senso, una morte soft, immersa nella morbidezza della polvere bianca. La 'bianchezza' rende questo film importante e singolare. Il classico horror è consegnato a un destino di tenebre, si svolge di notte, di solito in antri cupi e bui, perché in genere il vampiro può agire solo di notte, mentre la luce del giorno lo distrugge. Vampyr, invece, è immerso in una strana luminosità. L'azione si svolge in un incerto crepuscolo, tanto da sembrare di trovarsi nella classica 'notte bianca' nordica, quando un bagliore innaturale e diffuso prende il posto delle tenebre, un effetto accentuato dal notevole intervento dell'operatore Rudolph Maté. C'è un'altra singolarità. I film horror, per quanto fantastici, hanno pur sempre a che fare (almeno prima dell'avvento degli effetti speciali elettronici) con i corpi, più o meno belli, brutti, mostruosi, ripugnanti. In Vampyr, invece, il malessere più sottile è trasmesso dalle ombre, che si muovono e agiscono indipendentemente dai corpi. Tra gli assistenti della donna vampiro, oltre al dottore, vi è un guardiano con una gamba di legno, del quale infatti si vede soltanto l'ombra zoppicante arrampicarsi lungo una scala a pioli e raggiungere poi il suo posto accanto al corpo corrispondente. Ombre senza corpi ballano stagliandosi sulle mura labirintiche di una vecchia fabbrica in rovina, al suono di una musica fantomatica. Una tale predominanza delle ombre, che hanno rilievo maggiore di quanto ne abbiano i corpi, ha pochi precedenti perfino nell'ambito del cinema espressionista tedesco, cinema delle ombre per antonomasia. Fantomatica, o sonnambolica, è stata definita anche la recitazione del protagonista David Gray, il non-attore Julian West (pseudonimo di Nicolas de Gunzburg, mecenate e finanziatore del film). David è una di quelle nature ultrasensibili, capaci di sintonizzarsi con le forze nascoste dell'universo, di cui parla la didascalia iniziale del film. Egli giunge a tarda sera nella locanda di Courtempierre, in un villaggio desolato, vicino a un fiume e a un castello solitario: luoghi reali, non ricostruiti in studio, ma non per questo meno fantastici e inquietanti. La scena ricorda l'arrivo dell'agrimensore K al villaggio, nel Castello di Kafka, con la differenza che K non verrà mai ammesso all'interno del castello, mentre David vi viene attirato quasi contro la sua volontà. Egli, in realtà, è entrato in un sogno. Il film stesso costituisce un'esperienza d'incubo, che culmina nella famosa sequenza in soggettiva di David all'interno della bara. David sogna (sogno nel sogno) di sdoppiarsi, e che il suo doppio, morto, inchiodato nella bara, sia condotto lungo il paese verso il cimitero. Da una finestrella aperta nel coperchio all'altezza del viso, il morto osserva l'esterno dal basso verso l'alto, le case, i tetti, i rami degli alberi: paradossale soggettiva del cadavere (per la quale forse D. prese spunto dall'analoga scena girata da Jean Epstein tre anni prima in La chute de la maison Usher). Primo film sonoro del regista danese, una parte del fascino di Vampyr si basa (oltre che su un commento musicale suggestivo e discreto) anche su un universo di rumori, brusii, voci misteriose, suoni incomprensibili. La 'strana avventura di David Gray' (con tale titolo il film venne presentato in alcuni Paesi) è un'avventura sottile e impalpabile, una scorreria nei territori dell'inconscio. Passarono dodici anni, durante i quali, tra il 1936 e il 1941, D. riprese il suo lavoro di giornalista, specializzandosi come cronista giudiziario presso il quotidiano "B.T.". Nel 1943, in periodo di occupazione nazista e di persecuzioni degli ebrei, D. riuscì a girare un emblematico lungometraggio, Vredens dag (1943; Dies irae), film sull'intolleranza e sulla repressione, ambientato nel contesto seicentesco di persecuzioni e processi sommari per stregoneria, in prevalenza intentati nei confronti delle donne. La storia è incentrata sulla forza inesorabile del desiderio che lega una 'figlia di strega' Anne, giovane sposa mal maritata con un Pastore vedovo, al figlio di questi, Martin: desiderio carnale, legato all'esplosione della natura, e al contempo espresso dai mille fili, dal tessuto intrecciato, di un oggetto-metafora, il ricamo fissato su telaio al quale Anne, nel corso del film, lavora. Il disegno che ella intende copiare rappresenta una donna con un bambino, e si pone non solo come inconscio rivelatore del desiderio, ma anche come scenario di sostituzioni simboliche significanti. La figura di donna, sulla destra, è infatti già ricamata, mentre, sulla sinistra, l'ordito mostra ancora vuota la sua trama. Attraverso la trasparenza dell'ordito stesso, nel gioco delle inquadrature, il posto vuoto del bambino è occupato prima da Martin, poi, in controcampo, da Anne; quando arriva il Pastore, e i due giovani se ne vanno, la figura sulla destra rimane sola e resta un vuoto (l'assenza del bambino) che attende di essere colmato. Attesa vana, però, visto che la meschinità, il bigottismo, la spaventosa intolleranza di una mentalità chiusa, cui il Pastore soggiace, si riflettono anche su Martin. Quando il marito muore, la giovane viene accusata dalla suocera di averne causato il decesso, in quanto strega, né trova in Martin una sufficiente convinzione nel difenderla. In un universo limitato e asfittico, ricostruito dalle scenografie spoglie di Erik Aaes, dai costumi severi e dalla fotografia basata su contrasti essenziali di bianchi e neri, la religiosità, pur se vissuta sinceramente, si confonde con il fanatismo, e appare quasi inevitabile il tramutarsi di ogni slancio vitale in pulsione di morte. Rifiutando ogni facile razionalizzazione, D. mostra che anche una creatura come Anne può autoconvincersi, in un certo senso, di aver davvero operato una stregoneria: per questo, alla fine 'confessa'.Trascorse un altro lungo intervallo tra la Svezia e la Danimarca, riempito da un film claustrofobico, a due soli personaggi, non privo di motivi d'interesse per le sperimentazioni attuate come Två människor (1944; Due esseri) e da alcuni splendidi cortometraggi, tra cui va senz'altro ricordato De nåede färgen (1948, Raggiunsero il traghetto), commissionato dall'ente danese per la sicurezza stradale e caratterizzato dalla presenza ossessiva della morte, causata dagli incidenti automobilistici. Nel 1954 D. girò Ordet, tratto dal dramma omonimo di K. Munk (già portato sullo schermo nel 1943 da Gustaf Molander). Nel personaggio di Johannes, studente di teologia impazzito per il troppo studio, si ritrova un possibile Gesù di oggi: un Gesù visionario, che semina scandalo predicando cose in cui più nessuno crede, giudicato un folle dalla sua stessa famiglia e dai rappresentanti della religione ufficiale; ma un miracolo, alla fine, avviene davvero per opera di Johannes, davanti al feretro della giovane Inger, moglie del fratello, morta di parto. L'uomo dalla falce, figura simbolica della morte, porta via prima il bambino, poi la madre, ma Johannes riesce a strappargli la seconda preda. Inger giace su un catafalco sollevato come un altare, tutti possono vedere il suo viso che però rimane in ombra. Ai lati del cadavere, sulla parete di fondo, si aprono infatti due finestre, dalle quali irrompe la luce, lasciando il resto, per contrasto, quasi nell'oscurità. Di fronte, Johannes, mano nella mano con una bambina che crede in lui con fede ingenua. Forse la Parola, la parola che egli invoca di trovare, non è che luce, energia cosmica: tuttavia Inger si risveglia, si leva, abbraccia suo marito. Se non è avvenuto un miracolo, è qualcosa che molto gli somiglia.
Nell'attesa illusoria di realizzare il progettato film su Gesù, trascorsero altri dieci anni, durante i quali D. preparò sceneggiature e progetti di vario genere, tutti rimasti però nel cassetto. L'ultimo suo film, Gertrud, venne realizzato nel 1964, suprema sfida al conformismo di una critica, per la quale si era di fronte al parto anacronistico di una mente senile. Occorre invece esaminare il senso, e la profonda coerenza, di certe scelte stilistiche apparentemente datate: Gertrud vive della propria interiorità, e costringe anche gli uomini che entrano in contatto con lei a un insolito, doloroso esercizio d'introspezione. Ecco perché la postura tipica della conversazione, nel film, presenta due personaggi (Gertrud e un uomo) che siedono su due sedie, ovvero su un divano, su una panchina, su un sedile, frontalmente alla macchina da presa (in prevalenza fissa) e parlano quasi senza guardarsi, in una solitudine dolorosa, non meno assoluta per il fatto di essere in due. Non si tratta di teatro filmato, bensì, al contrario, dell'esasperazione formale di una figura filmica. Talvolta, tra i due si insinua la presenza di un terzo silenzioso: il fantasma del desiderio, sotto forma di una statua (la Venere nel parco, durante il colloquio tra Gertrud e il suo giovane amante) o di un arazzo (la donna nuda assalita dai cani, esattamente corrispondente al sogno già narrato da Gertrud). Altre volte, per es. nell'inquadratura finale, i personaggi escono di campo e restano gli oggetti, gli arredi, a emettere nel vuoto segnali enigmatici. Sulla soglia che divide il pubblico dalla postazione del pianoforte, durante la festa all'ambasciata, Gertrud, invitata a cantare, ha un mancamento e crolla a terra. Forse è qualcosa inerente alle parole della canzone, o alla tensione di cantare accompagnata dal suo amante segreto, ma è comunque significativo che Gertrud si trovi sulla soglia, in uno spazio instabile di passaggio. In altri momenti, si troverà riflessa in uno specchio oblungo, anzi in due, uno regalatole dal suo antico amante (lo scrittore), l'altro, identico, regalo del marito. Tutti e due gli specchi (con un effetto volutamente funebre) sono affiancati da candele, e se lo scrittore (tornato in patria dopo molti anni) vorrà riaccendere le sue, Gertrud non mancherà di spegnerle: ciò che ella precisamente non accetta è di essere una semplice immagine riflessa in uno specchio maschile. Così il vecchio D., che aveva cominciato a fare cinema ai tempi del muto, sul finire della vita si ricongiunse a tematiche dalle quali emergeva una visione attualissima della donna, a conferma del fatto che egli era sempre stato attuale proprio in ragione della propria apparente 'inattualità', perseguita con implacabile coerenza lungo i sentieri del silenzio come rischio della parola e dell'immagine.
E. Neergaard, Dreyer, København 1963 (ried., ampliata da B. Neergaard e V. Steinthal, dell'opera in danese del 1940).
Ph. Parrain, Dreyer: cadres et mouvements, Paris 1967.
"Cahiers du cinéma", 1968, 207, nr. monografico.
C. Perrin, Carl Theodor Dreyer, Paris 1969.
A. Aprà, Dreyer: artificio, spazio, luce, in "Cinema & film", 1970, 11-12, pp. 144-54.
J. Sémolué, Carl Dreyer, Paris 1970.
T. Milne, The cinema of Carl Dreyer, New York-London 1971.
D. Bordwell, Dreyer, London 1973.
P.G. Tone, Carl Theodor Dreyer, Firenze 1978.
Tutto Dreyer, a cura di G. Cincotti, Roma 1978.
D. Bordwell, The films of Carl Theodor Dreyer, Berkeley-Los Angeles-London 1981.
M. Drouzy, Carl Th. Dreyer né Nilsson, Paris 1982 (trad. it. Milano 1990).
Il cinema di Dreyer. L'eccentrico e il classico, a cura di A. Martini, Venezia 1986.
La maggior parte degli scritti di D. sul cinema è raccolta in Om Filmen. Artikler og interviews, København 1959; questi materiali sono pubblicati in traduzione italiana in I miei film, a cura di C. Bassotto, Venezia 1965, e in Cinque film, Torino 1967, che presenta anche le più importanti sceneggiature e altri scritti.