CARLO ALBERTO re di Sardegna
Nacque a Torino il 2 ottobre 1798 da Carlo Emanuele, principe di Carignano e da Maria Cristina Albertina principessa di Sassonia-Curlandia; morì a Oporto il 28 luglio 1849.
Al fonte battesimale ricevette i nomi di Carlo, Emanuele, Vittorio, Maria, Clemente, Alberto. Due mesi dopo la sua nascita, i Francesi, che occupavano le principali fortezze del Piemonte, costringevano il re Carlo Emanuele IV ad abdicare. Alcuni mesi dopo anche il principe di Carignano, Carlo Emanuele, fu costretto a trasferirsi con la famiglia a Parigi dove morì nel luglio del 1800. Puerizia travagliata da disagi materiali e morali fu quella di C. A. a Parigi. Nel 1812 si recò a Ginevra, dove passò un anno in un collegio privato tenuto dal ginevrino Vauchez, che C. A. ricordò sempre con grato affetto. Nel gennaio 1814 tornò in Francia, e nell'aprile era a Bourges, sottotenente del reggimento dei Dragoni imperiali; nel maggio di quell'anno medesimo, alla caduta dell'impero napoleonico, C. A. tornava a Torino, alla corte di Vittorio Emanuele I.
Nel 1817 sposò la principessa Maria Teresa, figlia del Granduca Ferdinando III di Toscana, buona, timida e a lui sempre devotissima. Già intorno a quell'anno e in particolar modo fra il 1818 e il '19 si possono cogliere segni ben chiari d'attività spirituale del principe, di fervore di studî e d'ideali nazionali. Nel Piemonte d'allora, accanto ai più rigidi conservatori, giovani animosi e colti sentivano e volevano un Piemonte italiano: C. A. trovò fra quei giovani degli amici e come essi fu infiammato dagli stessi ideali.
I moti carbonari del 1820 a Napoli ebbero grave ripercussione in Piemonte, la propaganda carbonara per la costituzione di Spagna si fece sempre più attiva e fortunata e all'azione della Carboneria s'era affiancata quella della setta dei Federati, che aveva raccolto patrioti del Lombardo Veneto e del Piemonte nella comune aspirazione all'indipendenza. C. A. durante il 1820 ebbe rapporti e abboccamenti con Federati lombardi, disse di volere la guerra di liberazione, ma non prese alcun impegno formale, anche perché non prestò fede alle assicurazioni che con molta leggerezza gli furono fatte sullo spirito rivoluzionario dei Lombardi. La notizia della spedizione austriaca nel Napoletano spingeva i Federati all'azione; essi s'illudevano di avere a capo il principe di Carignano. Il 6 marzo si recarono da lui Santorre di Santarosa, Giacinto di Collegno, Carlo di San Marzano, Guglielmo Lisio e Roberto d'Azeglio. Dissero che tutto era pronto e che reggimenti guadagnati alla causa costituzionale avrebbero reclamato dal re la costituzione e la guerra. Il principe promise di conferire con il re, illudendosi di poter frenare l'audacia di quei patrioti; viceversa il 12 marzo a Torino soldati ammutinati innalzavano nella cittadella la bandiera carbonara e la notte stessa Vittorio Emanuele abdicava nominando reggente C. A. nell'assenza del nuovo re, Carlo Felice, che si trovava a Modena. Il 13 marzo C. A. era costretto a concedere la costituzione di Spagna "salva - egli aggiunse - l'approvazione del re". Ma questi dichiarò di non voler riconoscere alcun mutamento politico introdotto, e C. A. obbedì all'ordine ricevuto di recarsi a Novara presso le truppe fedeli, e quindi a Firenze.
C. A. usciva dalla rivoluzione come un vinto: gli uni lo accusavano d'aver tradito il re, gli altri d'aver tradito i proprî compagni, e la tradizione continuò a vedere in C. A. l'attore principale della rivoluzione. Ora queste accuse dei contemporanei, tanto spesso riecheggianti negli storici moderni, mostrano l'incomprensione di quanto fosse complessa la questione italiana e in sé stessa e nei suoi rapporti internazionali nel '21. C.A. non tradì né il re né i proprî compagni. L'esame dei passi degli scrittori rivoluzionarî e reazionarî ha confermato errori di fatto e di apprezzamento, errori suggeriti dalla passione politica; l'esame dei costituti dei processi piemontesi e lombardi dà la prova dell'inesistenza del presunto delitto di fellonia da parte di C. A. Certamente, il principe ebbe parte non lieve di responsabilità nella rivoluzione del '21, e il colloquio stesso del 6 marzo va considerato come epilogo d'una serie di responsabilità, che risalgono alle accennate relazioni del principe con patrioti e settarî piemontesi e con i federati lombardi, che se ebbero il torto di esaltarlo e, con ciò, comprometterlo, furono alla loro volta animati dalla parola imprudente del principe. Con ciò C. A. non si mostrò però né un settario, né un liberale, né un rivoluzionario: egli intese di essere il soldato del re sabaudo e della patria italiana. E del resto lo stesso Vittorio Emanuele non può essere considerato immune da responsabilìtà, avendo egli con ostentata avversione all'Austria infiammato quei giovani alla guerra.
Nell'aprile del 1823 Carlo Felice autorizzò il principe a recarsi in Spagna presso l'esercito francese che allora combatteva per la restaurazione del monarca assoluto contro i carbonari. Nell'agosto del 1823, all'assalto del Trocadero, il principe meritò, per il suo valore, le spalline di caporale dei granatieri. Prima di tornare in patria C. A. giurò, perché così volle Carlo Felice, di conservare inalterate le forme organiche dello stato al suo avvenimento al trono.
I primi anni del Regno (1881-'34). - Il 27 aprile 1831 Carlo Felice moriva. "Non mai la situazione nostra era stata più pericolosa - scrisse lo stesso erede al trono, C. A. -; correvano ogni dì le più inquietanti dicerie, che un'insurrezione liberale doveva scoppiare per rovesciare il governo a simiglianza di quanto era accaduto nel Belgio; che altri volevano, morto che fosse il re, circondarmi allorché sarei andato a Palazzo e costringermi a dare una costituzione. Il fermento insomma e l'irrequietezza erano generali". Giuseppe Mazzini esortava il giovane re a divenire "il Napoleone della libertà e dell'indipendenza italiana", minacciando: "Se voi non fate, altri faranno e senza di voi e contro di voi". Ma troppo vivi e dolorosi erano ancora in C. A. il ricordo e l'orrore per la rivoluzione, perché egli non vedesse in quell'appello un'insidia rivoluzionaria per comprometterlo di fronte all'Austria e all'Europa legittimista; e tale convinzione ribadì in sé stesso alle notizie della perniciosa azione spiegata dal Mazzini nell'esercito sabaudo con la sua Giovine Italia.
Nei processi del '33 contro affiliati della Giovine Italia, quattordici persone furono mandate a morte e la provata onestà dei giudici non bastò a rischiarare la figura di C. A. in un processo da cui non risultava nessun principio d'azione rivoluzionaria.
L'Austria del resto non desiderava di meglio, che vedere sulla china d'un terrore reazionario il nuovo re, e se ne accorse forse egli stesso, poiché nei processi del seguente anno per la spedizione in Savoia dei rivoluzionarî mazziniani, due soli, presi con le armi alla mano, furono fucilati.
Il sovrano riformatore. - Ma questi primi torbidi anni di regno non diedero il tono al governo di C. A.: intelligente e colto, il nuovo re considerò, a differenza dei suoi predecessori, le forze intellettuali per cui la borghesia si elevava, non come eretiche e rivoluzionarie, ma come forze di progresso e di civiltà; ond'egli, religiosissimo, concepì armonicamente civiltà e religione, e se mezzo secolo prima altri sovrani riformatori, più geniali e più audaci, regnarono in altri stati d'Italia, ben altro è il principio animatore delle riforme albertine: rinnovare il Piemonte moralmente e materialmente per inserirlo nella vita italiana e lanciarlo entro l'orbita dell'Europa civile.
Dal Mar del Nord al Mediterraneo dopo il 1830 l'attività commerciale pulsava oramai con nuovo vigore e C. A. volle che anche il Regno sabaudo, per quanto chiuso dai monti e sbarrato a oriente dalla potenza austriaca, partecipasse a quella vita nuova, e che Genova fosse il porto principale dell'Europa Centrale nel Mediterraneo. Si accordò pertanto con la Svizzera e con gli stati della Germania meridionale per la costruzione della strada ferrata che congiungesse l'Europa centrale al porto di Genova. L'Austria fece di tutto per impedire che il commercio dell'Europa centrale si incanalasse attraverso il Piemonte verso il porto di Genova, ma invano e fu questa la prima lotta che C. A. ingaggiò e vinse contro l'Austria.
La politica riformatrice di C. A. è varia, complessa ed armonica: i provvedimenti di libertà economica per il commercio sono, per il tempo in cui furono emanati, singolari; essi segnano l'inizio di quella politica economica che arditamente e genialmente svolgerà poi il Conte di Cavour. Il disordine che era nelle leggi civili e penali ebbe fine per l'opera sapiente d'una codificazione che in gran parte ancora vige, i resti d'ordinamenti feudali da cui era inceppata la Sardegna furono aboliti da C. A. che studiò con amore i problemi dell'isola. Il suo spirito caritatevole e la sua mente ordinatrice si spiegarono nella creazione e nel rinnovamento d'opere di beneficenza e la sua ammirazione per gli studî e per le arti fu feconda di bene per l'istruzione popolare e superiore con l'istituzione di accademie scientifiche e artistiche.
La politica estera e gl'ideali nazionali (1831-'46). - Nei primi anni del regno C. A. dubitò che l'azione rivoluzionaria, di cui la spedizione di Savoia era stata, secondo lui, chiaro avvertimento, fosse sostenuta dalla Francia rivoluzionaria di Luigi Filippo, ciò che l'indusse a stringere un'alleanza militare con l'Austria. In caso di guerra il comando militare sarebbe stato affidato al re di Sardegna. L'Austria del Metternich si era illusa pertanto di poter vigilare e influire sulla corte di Torino, ma s'ingannò, ché nel 1835, fatto sicuro del desiderio di quieto vivere di Luigi Filippo, C. A. spiegò più liberamente la sua azione politica di fronte all'Austria.
Il nuovo ministro degli Esteri, il conte Solaro della Margarita, così scriveva (1832) le prime impressioni dei suoi rapporti col re: "Non ebbi d'uopo di grande scaltrezza per iscoprire che oltre ad un giusto desiderio di essere indipendente da ogni straniera influenza egli era, dal profondo dell'animo, avverso all'Austria e pieno d'illusioni sulla possibilità di liberare l'Italia dalla sua dipendenza. Non pronunziò mai la parola di scacciare i barbari, ma ogni discorso palesava il suo segreto". E, più che queste stesse espressioni, vale, a documento degl'ideali nazionali di C. A., tutta l'opera di rinnovamento civile e militare, da lui concepita e attuata a perseguire quel fine nobilissimo d'inserire il Piemonte nella vita italiana.
Solo però dopo il 1840 quei sentimenti si concretarono in atteggiamenti e in fatti politici. Il contrasto di quell'anno tra Francia e Inghilterra per la questione d'Oriente pareva dovesse risolversi in una grande guerra europea: l'ambasciatore francese a Torino nel marzo del 1840 poteva scrivere al suo governo: "C'est une politique nationale que tend à prendre la Cour de Turin". Ma la crisi egiziana si risolse senza provocare alcuna guerra e C. A. attese fiducioso l'avvenire.
Nel settembre del '43 alcuni soldati austriaci, passato il confine a Castelletto Ticino, avevano compiuto prepotenze senza essere stati castigati; il re scrisse allora al ministro della Guerra deplorando vivamente che il sindaco di Castelletto non avesse reagito, anche a costo di essere sopraffatto: "avrei assalito gli austriaci - aveva soggiunto il re - avrei alzato il grido dell'indipendenza lombarda e forte della protezione di Dio, sarei andato avanti, e sono sempre pronto a farlo, se occorre". Quell'anno stesso, 1843, Vincenzo Gioberti pubblicava Il Primato degli Italiani. Un sempre più largo intenso movimento d'italianità era animato dall'idea giobertiana: e a questa C. A. fu sensibilissimo. Proprio allora egli, assecondato dal paese, sapeva fieramente resistere alla prepotenza austriaca, che aveva colpito il Piemonte nelle sue risorse agrarie, chiudendogli il mercato lombardo.
Nel 1845 Massimo d'Azeglio di ritorno dalla Romagna, focolare di sette e di rivoluzioni, esponeva al re la situazione. "Faccia sapere a quei signori - rispose il re - che stieno in quiete, e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare, ma che sieno certi, che presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito: tutto sarà speso per la causa italiana".
Il re soldato. - La buona occasione parve a C. A. venuta con l'elezione a pontefice di Pio IX e con l'atteggiamento aggressivo dell'Austria che occupava Ferrara nonostante le proteste della S. Sede. Fremente di gioia, C. A., alla notizia di quelle proteste, esclamava: "Che il papa sia benedetto: È una guerra che imprende contro l'Austria. Una guerra d'indipendenza nazionale che si unisse alla difesa del papa sarebbe per me la più grande fortuna" (25 luglio 1846). C. A. sognò allora d'essere il crociato e il soldato d'Italia "per la causa guelfa" come egli disse, ed era un guelfismo, il suo, che non attingeva solo alla fonte giobertiana, ma derivava da sentimenti e convincimenti che rimontavano alla sua amicizia con Giuseppe De Maistre.
L'esempio e l'impulso alle riforme, promossi da Pio IX, sospinsero verso la concessione della costituzione. C. A. dubitò in principio dell'opportunità della concessione alla vigilia della guerra e dell'opportunità di discussioni parlamentari durante la guerra oramai imminente. Ma ben presto si convinse della necessità della concessione, poiché il problema nazionale dell'indipendeza era nell'opinione liberale sempre più legato a quello politico delle libertà costituzionali: così il 5 marzo 1848 C. A. emanava lo statuto.
Diciotto giorni dopo (23 marzo) C. A. spiegava la nuova bandiera: il tricolore nazionale. Ma, nonostante l'insurrezione lombarda culminata nelle cinque giornate di Milano, non meno difficile e pericolosa era la situazione politica e militare del re, né meno ardito il suo atto: la Francia lo minacciava alle spalle, concentrando forze sul Varo, e il governo inglese era contrario a una guerra d'Italia, e a un turbamento dei suoi interessi politici ed economici nella penisola e nei mari d'Italia.
Ma ai consigli delle grandi potenze per trattenerlo dalla guerra C. A. fieramente rispondeva: "l'Italia farà da sé".
La vittoria arrise a C. A. il 30 aprile a Pastrengo e un mese dopo (29 maggio) a Goito. L'esercito era vittorioso, ma l'Italia proprio allora era straziata e vinta dalle discordie e dalle lotte dei partiti, dalle defezioni del papa e dei principi italiani, che ritirarono le loro milizie dalla Lombardia. Eppure C. A. non disperò, e pensò solo a salvare la Lombardia, a costo di qualunque sacrificio. Fu errore militare: C. A. avrebbe dovuto rientrare in Piemonte per la linea difensiva da Alessandria a Genova, o gettarsi alla destra del Po nei ducati. Volle ancora combattere per la Lombardia e in Lombardia, nell'illusione forse che tutto il paese lo avrebbe aiutato, ma, dopo Custoza, raggiunto dal Radetzky sotto Milano, solo e con milizie stanche, mal nutrite e in disordine, fu vinto il 4 agosto. Entrò a Milano, dove alla notizia di sue trattative col nemico, fu insultato e minacciato; e la notte dal 5 al 6 agosto poté abbandonare la città. Il 9 agosto era stipulato l'armistizio Salasco, in forza del quale le antiche frontiere fra la Lombardia e il Piemonte segnavano i limiti dei due eserciti.
Da Novara a Oporto. - C. A. aveva condotto la guerra dall'aprile all'agosto non da grande stratega, ma certamente da grande e valoroso soldato e principe italiano: esausto da continue febbri, da strapazzi, da digiuni, da privazioni; tormentato ancora più dolorosamente dalle notizie che gli giungevano della discordia italiana, egli vinceva quei dolori e quell'esaurimento con la forza eroica della sua volontà e della sua fede, sempre pronto in mezzo ai soldati dove maggiore era il pericolo.
La situazione politica interna non era meno grave di quella estera: le trattative di pace con la mediazione della Francia e dell'Inghilterra (l'una era ostile, l'altra non molto favorevole) erano fallite. Il partito democratico che era al governo volle la guerra, e la guerra accettò il re, quasi certo del sacrificio a cui si esponeva, ma di cui sentiva l'alto valore morale per l'avvenire dell'Italia.
Il 23 marzo l'esercito piemontese era vinto a Novara. Il nemico, richiesto d'un armistizio, aveva imposto condizioni umilianti; i generali interrogati dal re avevano concordemente risposto essere impossibile continuare a combattere; e allora il re, quella sera stessa, abdicava a favore del figlio Vittorio Emanuele. Al Cadorna (v.) che gli preparò il passaporto, intestato al nome di conte di Barge, disse: "I miei voti saranno sempre per la salute e la felicità del nostro paese. Io ho fede che verranno per l'Italia giorni migliori. Se dovremo ancora combattere gli Austriaci, e io vivrò, prenderò il fucile, e verrò a battermi come semplice soldato!". Volontariamente prendeva nella notte stessa la via dell'esilio. Il 20 aprile 1849 giungeva a Oporto, in Portogallo, e prendeva dimora in una modesta villa poco lontana dalla città, sulla riva del mare.
Il 31 maggio Giacinto di Collegno e Luigi Cibrario gli recavano un indirizzo del senato. "La nazione - disse C. A. - può avere avuto principi migliori di me, ma niuno che l'abbia amata tanto. Per farla libera, indipendente e grande... ho compiuto con lieto animo tutti i sacrifici... cercai la morte e non la trovai... Confido che questa avversità passeggera ammonirà i popoli italiani a essere un'altra volta più uniti, ond'essere invincibili".
Visse due mesi ancora nella solitudine, leggendo, meditando e pregando. È sepolto a Superga.
Degli scritti e delle lettere di C. A. una scelta pubblicò N. Bianchi, Scritti e lettere di re C. A., in Curiosità e ricerche di storia subalpina, III, Torino 1879; A. Manno, Informazioni sul Ventuno in Piemonte, ricavate da scritti inediti di C. A., di Cesare Balbo e di altri, Firenze 1879; V. Fiorini, Gli scritti di C.A. sul 1821, in Biblioteca storica del Risorgimento itaiiano, Roma 1899. Del carteggio di C. A., in grandissima parte inedito, un gruppo importante è stato pubblicato da A. Luzio, Le lettere di C. A. al cav. Luigi Bianco di Barbania, Torino 1924. Altro piccolo gruppo di Lettere inedite di C. A. principe di Carignano al suo scudiero Carlo di Robilant pubblicò A. Manno, Torino 1883.
Bibl.: Saggi di bibliografia in G. Dell'Acqua, Il re C. A. e il suo ingresso in Pavia, Pavia 1898; D. Carutti, Bibliografia Carlo Albertina, Torino 1899; F. Lemmi, Il Risorgimento (guida bibliografica), Roma 1926.
Sulla vita e sull'opera di C. A.: L. Cibrario, Notizie sulla vita di C. A., Torino 1861; D. Perrero, Gli ultimi reali di Savoia del ramo primogenito ed il principe C. A. di Carignano, Torino 1889; P. Roselli, C. A. e l'ammiraglio Des Geneys nel 1821, Torino 1892; P. Vayra, C. A. e le perfidie austriache, Torino 1896; E. Masi, Il segreto di re C. A., Bologna 1891; Costa de Beauregard, La jeunesse du roi C. A., Parigi 1889; id., Les dernières années du roi C. A., Parigi 1890; L. Cappelletti, Storia di C. A. e del suo regno, Roma 1891. Il gruppo più recente e più importante di studî su C. A. è quello di A. Luzio in note e documenti aggiunti alla traduzione de La rivoluzione piemontese nel 1821 di Santorre Santarosa, Torino 1921: id., C. A. e Mazzini, Torino 1923; id., Studi e bozzetti Carlo Albertini, Milano 1927; C. Vidal, C. A. et le Risorgimento italien (1831-48), Parigi 1927; F. Lemmi, La politica estera di C. A. nei suoi primi anni di regno, Firenze 1928.