MEZZABARBA, Carlo Ambrogio
MEZZABARBA, Carlo Ambrogio. – Nacque il 30 apr. 1685 a Pavia, dal conte Giovanni Battista e dalla marchesa Artemisia Botta Adorno.
Figlio cadetto, fin da giovanissimo si indirizzò alla carriera ecclesiastica: aveva quindici anni quando, studente di retorica a Brescia, dove frequentava il collegio dei nobili, retto dai gesuiti, scrisse al vicario vescovile di Pavia (dalla lettera apprendiamo che era rimasto orfano di padre, giacché si definisce «figlio del quondam Ill.mo Sig. Conte Giovanni Battista») per comunicargli di «essere ispirato da Dio di vestir l’abito clericale» e chiedergli che gli venisse spedita la documentazione necessaria; e in effetti il 12 febbr. 1701 furono inviati al M. i documenti richiesti (Pavia, Archivio della Curia vescovile, Sacerdoti e religiosi pavesi, f. sub voce). Nel 1711 si laureò in utroque iure all’Università di Pavia.
Trasferitosi a Roma, il M. entrò nelle grazie di Clemente XI, il quale lo nominò dapprima cameriere segreto, poi referendario delle due Segnature, successivamente governatore di Todi (1717) e della Sabina (1718). L’anno seguente venne scelto come legato pontificio in Cina, dove avrebbe dovuto portare a termine la missione già affidata senza successo nel 1700 a Carlo Tommaso Maillard de Tournon, cioè abolire i riti cinesi nei confronti dei quali nel frattempo era stata ribadita la condanna dalla costituzione pontificia Ex illa die (1715). Il 18 sett. 1719 il M. fu nominato da Clemente XI patriarca di Alessandria in partibus infidelium, il 21 fu consacrato vescovo nella chiesa di S. Carlo al Corso; il 3 ottobre si recò a Pavia per congedarsi dai suoi parenti. Di qui si diresse dopo pochi giorni a Genova dove il 21 novembre lo raggiunsero gli altri componenti della spedizione.
Accompagnavano il M. due preti secolari, Bernardino Campi e Benedetto Roveda, e due regolari, i serviti Sostegno Maria Viani e Gian Domenico Fabri, e alcuni servitori laici. A costoro si aggiungevano altri che avrebbero dovuto rimanere in Cina, distribuiti nelle varie province, in qualità di missionari, come i preti Ferdinando Fioravanti e Giuseppe Vittoni, i carmelitani scalzi Rinaldo di S. Giuseppe (al secolo Rinaldo Romei) e Volfango della Natività (al secolo Wolfgang Thumsecher), i chierici minori Simone Soffietti e Arcangelo Miralta, i barnabiti Salvatore Rasini, Alessandro Alessandri e Sigismondo Calchi, e infine alcuni «virtuosi» che la Curia romana sperava di sistemare alla corte di Pechino se la loro arte o scienza avesse incontrato il favore dell’imperatore: il prete Domenico Volta, medico, il francescano Angelo di Borgo S. Siro, esperto di orologi e meccanismi, lo scolopio Cassio di S. Luigi (al secolo Cassio Blandolisi), matematico, il chierico minore Niccolò Tomacelli, miniaturista, oltre ai laici Filippo Telli, musico, Giorgio Sippel, scultore, Dionisio Gagliardi, chirurgo, e Michele Arailza, pittore, Antonio Maldura, speziale. Altri sei «virtuosi» che si erano dichiarati disposti a recarsi a Pechino si ritirarono all’atto della partenza da Lisbona, spaventati «dall’aspetto del mare» (Viani, c. 4). Per il monarca cinese Kangxi il M. recava, oltre a un breve di Clemente XI, «una quantità di preziosi donativi consistenti in ogni sorta di strumenti musicali lavorati con singolare artificio, orologgi di nuove invenzioni, machine matematiche, pitture ed altre cose preziose […] fino al prezzo di 10.000 scudi» (ibid., c. 1). Il M. era inoltre munito di credenziali per il sovrano portoghese Giovanni V (traendo insegnamento dall’infausto esito della legazione Tournon, la Curia romana aveva avuto cura questa volta di coinvolgere il Portogallo), che lo gratificò anche di una grossa somma di denaro.
Intanto nel febbraio del 1719 Roma aveva inviato a Pechino due barnabiti, Filippo Cesati e Onorato Ferrari, per preannunciare all’imperatore il prossimo arrivo di un legato pontificio. Il 25 marzo 1720 il M. salpò da Lisbona e il 26 settembre, dopo una lunga e tormentata navigazione, sbarcò a Macao, dove trovò migliore accoglienza del suo predecessore. Il 15 ottobre a Canton gli furono rivolte per iscritto alcune domande dall’inviato imperiale, il mandarino Li Purga.
Gli fu chiesto perché fosse venuto in Cina, se il pontefice fosse al corrente del comportamento tenuto da Tournon e che fine avessero fatto i messaggeri inviati da Kangxi a Roma. Il M. rispose genericamente che era stato inviato dal papa a salutare l’imperatore e a consegnargli un breve. Quanto ai primi due inviati di Kangxi, i gesuiti António Barros e Antoine de Beauvollier, riferì che erano periti in un naufragio al largo di Lisbona senza aver potuto iniziare la loro missione; dell’altro inviato, Antonio Provana, disse che era stato trattenuto per anni a Roma, perché si dubitava che fosse davvero un inviato imperiale, ma appena era arrivata conferma da Pechino, gli era stato ordinato di tornare in Cina con il compito di preannunciare il prossimo arrivo di un legato; aveva incontrato purtroppo la morte nei pressi del Capo di Buona Speranza. In realtà Kangxi era rimasto sdegnato per il trattamento riservato dal papa al suo inviato, e per rivalsa aveva deciso di non ricevere i due barnabiti che avrebbero dovuto preannunciargli l’arrivo del Mezzabarba.
Il mandarino Li Purga sembrò accontentarsi delle risposte del M. e lo accompagnò a Pechino. Qui però il M. fu sottoposto dai funzionari di Kangxi a nuovi, stringenti e ripetuti interrogatori, dai quali emerse che il M. era venuto in Cina per pretendere l’obbedienza dei missionari alle deliberazioni pontificie sui riti cinesi. La risposta di Kangxi fu immediata e sprezzante: l’inviato papale poteva tornarsene subito in Europa, condurre con sé tutti i missionari che voleva e imporre loro gli ordini del papa; non poteva pretendere di comandare in Cina, dove già esisteva un sovrano. Di fronte alla ferma presa di posizione dell’imperatore, al M. non restava altro che seguire i consigli dei mandarini: se voleva essere ricevuto a corte, egli doveva accontentare Kangxi, vale a dire annullare o mitigare la costituzione pontificia. Presero così corpo le cosiddette «otto permissioni», e cioè una serie di deroghe alla Ex illa die che il M. si prese la responsabilità di concedere in quel delicato frangente sulla base di istruzioni ricevute dalla Curia romana mentre si trovava ancora a Lisbona.
In virtù delle permissioni, i riti cinesi di fatto non erano più proscritti: veniva infatti consentito ai cristiani cinesi di collocare nelle loro abitazioni le tavolette dei defunti senza però alcuna scritta superstiziosa, ma con l’attestazione scritta della natura civile del rito; di prestare onoranze (ma non culto) a Confucio; di praticare genuflessioni e prostrazioni e di preparare tavole imbandite davanti al feretro del defunto, con l’offerta di candele, profumi, monete finte di carta da bruciare in suo onore.
Si trattava di una vera e propria capitolazione, perché le permissioni erano di fatto una sospensione della Ex illa die. Con questo gesto il M. ottenne di essere finalmente ricevuto da Kangxi e di essere messo in condizione quanto meno di iniziare la sua missione. La prima udienza, nel corso della quale egli consegnò al sovrano il breve pontificio e che fu puramente interlocutoria, si tenne il 31 dic. 1720; la più importante, quella in cui fu affrontata la questione dei riti, si svolse il 14 genn. 1721. In ambedue i casi il M. fu trattato con il massimo riguardo. Il 14 gennaio il M. si guadagnò l’approvazione dell’imperatore perché, con un coup de théâtre, prosternatosi a terra davanti a lui, si dichiarò pronto a scontare sulla sua persona ogni risentimento di Kangxi nei confronti dei missionari. In questa udienza tuttavia il comportamento dei due interpreti (Teodorico Pedrini e Matteo Ripa, che il M. aveva scelto su esplicita indicazione della Curia romana) condusse a una serie di equivoci.
Infatti, quando Kangxi toccò la questione della pratica missionaria seguita da Matteo Ricci e dai suoi confratelli, vale a dire dei riti cinesi, i due tradussero le parole di Kangxi come se questi avesse aderito alle richieste dell’inviato papale di permettere la predicazione della religione cristiana secondo le direttive di Roma; cosa tanto più assurda in quanto l’imperatore aveva minacciato di rispedire il M. in Europa, se non avesse rinunciato alla pretesa di imporre le deliberazioni pontificie. Che i due interpreti imbrogliassero è esplicitamente dichiarato dallo stesso Ripa nella relazione che inviò a Roma (Di Fiore, 1989, p. 92).
Di questa forzatura peraltro erano consapevoli il M. e i missionari al suo seguito. L’equivoco si dissipò quando il M., per informare il papa del felice esito della sua missione, gli scrisse una lettera che, secondo la prassi, avrebbe dovuto essere prima mostrata all’imperatore perché ne approvasse il contenuto.
Ben presto l’imperatore si rese conto che c’erano stati dei fraintendimenti nel corso dell’udienza del 14 gennaio. A questa però erano stati presenti anche i gesuiti di corte, gli unici di cui Kangxi si fidasse, i quali avevano preferito lasciare campo ai due interpreti senza intervenire per rispetto del M.; ma, sollecitati dall’imperatore, spiegarono come erano in realtà andate le cose. Tanto bastò tuttavia ad attirare loro addosso l’accusa di aver provocato il fallimento della legazione. Ripa e Pedrini vennero arrestati (ma dopo pochi giorni furono liberati) e Kangxi pretese la traduzione integrale del testo della Ex illa die, la cui lettura provocò la sua irritazione; egli minacciò di mettere fuorilegge i missionari. Per evitare la fine della missione di Cina, il M. si impegnò a non introdurre alcun cambiamento nella pratica fino ad allora seguita.
Il M. fu ricevuto in qualche altra udienza, ma era ormai chiaro che il negoziato sulla questione dei riti si era concluso, e non certo come egli auspicava. Il M. si congedò da Kangxi il 1° marzo 1721. Questi gli affidò diverse casse di regali per il papa, che peraltro andarono distrutte in un incendio in Brasile, a San Salvador, nel corso del viaggio di ritorno. Il 7 nov. 1721 il M. promulgò a Macao la pastorale Benedictus Deus, in cui dichiarava di non avere abrogato la Ex illa die, ma nello stesso tempo aggiungeva contraddittoriamente in calce al testo le otto permissioni, raccomandando ai missionari la massima cautela nel loro uso e di fatto accrescendo la confusione.
La legazione era fallita nel suo scopo principale, ma il bilancio del M. non era del tutto negativo, dal momento che era riuscito a riorganizzare la missione, distribuendo i missionari nelle varie province, insediando a corte alcuni dei «virtuosi» del suo seguito, e soprattutto riportando in patria le spoglie di Tournon, che egli era riuscito a traslare di notte dalla cattedrale di Macao prima di imbarcarsi.
Appena il M. giunse a Roma, il 26 maggio 1723, si cominciarono a regolare i conti con i gesuiti, accusati di aver provocato il fallimento della legazione e che avevano tentato di premunirsi inviando a Roma uno dei loro, Niccolò Giampriamo, con il verbale di corte delle udienze imperiali (il cosiddetto Diario dei mandarini). Il pontefice Innocenzo XIII chiese spiegazioni al generale della Compagnia, Michelangelo Tamburini, ordinandogli di sospendere nel frattempo l’invio di altri gesuiti in Cina, ma il successore di Innocenzo XIII papa Benedetto XIII temperò queste disposizioni.
Tamburini presentò in tutta fretta un Memoriale con Sommario per difendere l’operato dei suoi, e il dicastero missionario romano incaricò il segretario di Propaganda Fide, Bartolomeo Ruspoli, di aprire un’inchiesta sull’accaduto, prendendo in esame tutte le testimonianze e la documentazione a disposizione, compresa quella fornita da Tamburini nel suo Memoriale. L’inchiesta si protrasse dal 1724 al 1730 con più di quattrocento riunioni, alle quali spesso partecipò il M. con esperti delle questioni cinesi, missionari e cardinali di Propaganda Fide; ma si concluse con un nulla di fatto, lasciando tuttavia traccia documentaria in dodici volumi manoscritti, intitolati Riflessioni di monsignor segretario (Roma, Biblioteca dei Lincei e Corsiniana, Mss., 40.F.7).
Nel 1725 al M. fu conferito il seggio episcopale di Lodi, con il beneficio delle rendite dell’abbazia di S. Stefano al Corno; si insediò il 18 luglio 1725.
Il giudizio sul suo operato come vescovo è divergente. Secondo una tarda fonte ottocentesca, orientata a esaltarne l’operato, il M. impresse un deciso impulso all’istruzione, con l’apertura delle scuole superiori nel seminario; nel 1729 promosse una apostolica missione; si segnalò per la distribuzione di elemosine, le sovvenzioni agli istituti dediti all’educazione, l’assegnamento di maritaggi (Porro). Secondo un manoscritto contemporaneo, compilato dal sacerdote lodigiano Anselmo Robba, sembra che il M. non si segnalasse per zelo e presenza pastorale (Lodi, Biblioteca comunale Laudense, Mss., XXIV.A.23: Le memorie del fu monsignore Bartolomeo Menati…). Robba, diarista occasionale ma attento a registrare gli eventi, rimproverava al M. il modo di vestire, le frequentazioni mondane, l’inclinazione al gioco, al quale perse ingenti somme, le frequenti assenze per recarsi nella città natale o in villeggiatura a Roncadello. Inoltre Robba non gradiva le innovazioni introdotte nell’assegnazione delle messe o nello spostamento d’orario di alcune funzioni; il malcontento suscitato da tale spostamento provocò addirittura un ricorso a Roma da parte di un canonico della cattedrale. Ma, al di là delle personali antipatie, le notizie che Robba fornisce sull’episcopato del M. sono assai circostanziate, come a proposito del lungo contenzioso insorto tra il M. e la superiora del monastero delle orsoline, che volevano sottrarsi alla sua giurisdizione, o delle punizioni comminate ad alcuni preti della sua diocesi, come a quel chierico Quinterio per essere andato a caccia e all’osteria, o al canonico Dragoni per aver bastonato alcuni sbirri che volevano arrestare il fratello, o ancora ad altri due preti, Giovanni Bignami «per essere stato a ballare nel Carnevale antecedente» (ibid., c. 45) e don Carlo Taino «per l’amicizia che aveva con una maritata» (ibid., c. 46). Questo severo censore non mancava di sottolineare la poca oculatezza del M. nella scelta dei suoi collaboratori o sottoposti, dei quali talvolta copriva le malefatte: in particolare il suo corrotto cameriere Gandino, a proposito dei maneggi del quale Robba lanciava qualche obliqua insinuazione anche sul Mezzabarba. Gandino fu poi fatto arrestare dai fratelli del M., dopo la sua morte, per concubinaggio con una donna sposata (ibid., c. 97). Altro scandalo che lambì il vescovado fu la «tresca sacrilega» tra una cappuccina e il penitenziere che riceveva nottetempo la sua amante nel seminario (ibid., c. 85). Robba segnalava anche una serie di gaffes, di cui il M. si rese protagonista, come il comportamento «da minchione» mantenuto nel conflitto con le orsoline (ibid., c. 49), o il mancato rispetto dell’etichetta in cui incorse quando si recò ingenuamente a visitare per primo il nuovo governatore di Lodi, su richiesta di questo, «mentre ai soli Principi Governatori di Milano ciò si deve» (ibid., c. 50). Altrettanto inopportuno sarebbe stato il comportamento tenuto in occasione di un delicato e controverso caso di immunità nel 1738, quando alcuni prigionieri delle carceri podestarili, attraverso un passaggio sotterraneo, si erano rifugiati nell’attiguo oratorio vescovile. Il M. in quella circostanza concesse l’uso della forza pubblica, che agì con brutalità. Il fatto suscitò molto scalpore a Lodi (Robba riteneva che il M., non rivendicando il diritto d’asilo nei confronti del potere statale, avesse svilito il proprio ruolo), ma nei giorni successivi alcuni dei prigionieri vennero riconsegnati all’autorità vescovile. A suo favore va segnalato il prudente e diplomatico atteggiamento tenuto durante la guerra di successione del Ducato di Parma e Piacenza, mentre l’esercito franco-sardo fronteggiava le truppe imperiali di Carlo VI. Il M. si distinse anche per aver ingrandito e risistemato il palazzo episcopale; un suo colossale progetto di ricostruzione del duomo non fu invece approvato dalle autorità cittadine, timorose dei costi che una simile impresa avrebbe comportato.
Nel 1735 fu avviata un’inchiesta del S. Uffizio, che richiese spiegazioni al M. per appurare le modalità in cui erano state concesse le controverse otto permissioni, che tante polemiche suscitavano ancora tra i missionari, e che sarebbero in effetti state abolite da Benedetto XIV con la bolla Ex quo singulari nel 1742.
Il M. morì a Lodi il 7 dic. 1741.
Il 12 dicembre gli vennero tributati imponenti funerali, presieduti dal vescovo di Crema. Il cadavere, deposto in un primo momento nel duomo, all’interno del sepolcro di Bartolomeo Menatti, uno dei vescovi suoi predecessori, venne poi rimosso e sistemato di fronte al pulpito in un nuovo sepolcro costruito a spese dei fratelli, Alessandro, Giuseppe e Gerolamo, con una lapide dedicata al «Patricio Ticinensi» che era stato legato «apud Synarum Imperatorem».
Fonti e Bibl.: Bologna, Biblioteca del Convento di S. Francesco, Mss., 22: S.M. Viani, Memorie della seconda Legazione apostolica; Lodi, Biblioteca comunale Laudense, Mss., XXIV.A.23: A. Robba, Le memorie…; P.-C. Parisot [Norbert de Bar-Le-Duc, Abbé Platel], Mémoires historiques sur les affaires des jésuites avec le Saint-Siège, Lisbona [ma Parigi] 1766, VI-VII, passim; Mémoires de la Congrégation de la Mission, VI, Paris 1865, passim; G.A. Porro, Monsignor C.A. M. 72.mo vescovo di Lodi, in Archivio storico di Lodi, IX (1890), pp. 153-163; G. De Vincentiis, Documenti e titoli sul privato fondatore dell’attuale R. Istituto (antico Collegio de’ Cinesi in Napoli) Matteo Ripa, sulle missioni in Cina nel secolo XVIII …, Napoli 1904, passim; A.S. Rosso, Apostolic legations to China of the eighteenth century, South Pasadena 1948, ad ind.; F. Margiotti, Il cattolicismo nello Shansi dalle origini al 1738, Roma 1958, ad ind.; L. Samarati, I vescovi di Lodi, Milano 1965, pp. 258-263; G. Nardi, Cinesi a Napoli, Roma 1976, ad ind.; X. Toscani, Il clero lombardo dall’Ancien Régime alla Restaurazione, Bologna 1979, ad ind.; S.M. Pagano, Barnabiti alla corte imperiale di Cina, Firenze 1982, passim; G. Di Fiore, La posizione di Matteo Ripa sulla questione dei riti cinesi, in La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, III, 1, a cura di A. Gallotta - U. Marazzi, Napoli 1989, pp. 381-432; G. Di Fiore, La legazione Mezzabarba in Cina, Napoli 1989 (con ampia bibliografia e raccolta di documenti); M. Ripa, Giornale, I (1705-1711), a cura di M. Fatica, Napoli 1991, ad ind.; Ch. Weber, Legati e governatori dello Stato pontificio (1550-1809), Roma 1994, pp. 377, 413, 780; G. Di Fiore, Uno studio incompiuto di Henri Bernard-Maître sulle permissioni del M., in Archivio italiano per la storia della pietà, X (1997), pp. 455-543; Id., Il presunto avvelenamento del cardinal Tournon e la traslazione del suo cadavere da Macao a Roma, in Studi settecenteschi, XVIII (1998), pp. 9-43; Enc. cattolica, VIII, coll. 924 s.
G. Di Fiore