CARACCIOLO, Carlo Andrea
Nacque da Lelio, dei marchesi di Vico, e da Silvia di Traiano Caracciolo nell'anno 1583 o, come preferisce invece il genealogista Fabris, nel 1584, a Napoli, primo di sette figli; gli altri furono Traiano, Fabio, Lucio (che, informa il Bulifon, fu nominato sergente maggiore il 26 marzo 1630), Vittoria, Antonia, Maria.
Figlio, a sua volta, di Galeazzo, il famoso riformato, Lelio, il padre del C., ben lungi dalla grandezza di quello, fu figura piuttosto scialba, al punto che, in una "relatione" del 1600 circa, con tutta probabilità dell'agente toscano Francesco Marcaldo, ci si limita a dire che "Lelio Caracciolo Rosso... non dà molto da ragionare" (G. Ceci, I feudatari napoletani alla fine del sec. XVI, in Arch. stor. per le prov. nap., XXIV [1899], p. 134). Si sa che combatté a Lepanto, che venne incluso dal rappresentante veneto a Napoli, Giulio Girardo, nel 1582, in un elenco di e signori e cavalieri che potriano levar... numero di gente" o perché militari di professione o perché "persone di spirito" con "comodità di vassalli et servitori" (F. Mutinelli, Storia... d'Italia raccontata dai veneti ambasciatori, I, Venezia 1856, p. 133) e che fu governatore, nel 1582 e nel 1594, dell'ospizio dell'Annunziata nonché uno dei fondatori del Monte dei Giunti; morì nel 1603, prima di ricevere il diploma regio mutante il suo titolo di marchese di Libonati in quello di Torrecuso.
Il C. ereditò i possessi di Torrecuso e il connesso titolo, mentre s'affrettó a vendere a Diego Simone, per 20.300 ducati, la terra di Libonati. Né mancano in seguito ulteriori indizi sulla sua situazione patrimoniale, non priva di complicazioni, almeno a stare al diploma, dell'8 marzo 1625, d'assenso, da parte del viceré duca d'Alba, all'obbligazione di suoi beni burgensatici e feudali, a saldo di debito verso una sua zia, Lucrezia Caracciolo, vedova di Pier Giovanni Spinelli.
Sicuramente, comunque, doveva disporre di notevoli possibilità che gli permisero una partecipazione, sia pure non attiva e delegata, ad operazioni economiche: lo attesta il fatto che anche frutti delle sue rendite servirono alle audaci speculazioni finanziarie di Bartolomeo d'Aquino, tant'è vero che nell'elenco di "rendite fiscali e adoe vendute, tramite B. d'Aquino e soci", tra il 30 apr. 1642 e il 31 dic. 1643, figura anche il C. per un capitale di 24.614.1.09 ducati ed un aggio di 15.264 ducati.
Aspetti marginali, tuttavia, nel quadro di un'esistenza totalmente assorbita dalla milizia al soldo della Spagna.
In questa il C. si distinse al punto da diventare - negli artefatti profili di agiografi per lo più dimentichi che l'azione di questo arruolato a pieno tempo nel personale itinerante della repressione spagnola nella sua fase più faticata e affannata si svolse in un contesto, tutto sommato, perdente - l'esemplare canonico del lealismo d'un'aristocrazia che, annacquata l'originaria riluttanza all'inquadramento ed espunti gli umori riottosi e le velleità indipendentistiche, s'era da tempo adattata a combattere con zelo, ovunque e comunque, sotto le insegne del re cattolico. Né la professione militare era solo testimonianza di fedeltà e sottomissione alla Spagna; costituiva altresì, allora, la più diffusa soluzione individuale per sottrarsi, parzialmente, alla crisi finanziaria della grande feudalità, offrendo la possibilità di guadagni da investire nel mantenimento e nell'ampliamento delle proprietà immobiliari. Nel caso del C. è evidente, inoltre, una puntigliosa testarda ricerca della gloria, con risultato lusinghiero sul piano della rinomanza: Gabriele Fasano volgendo in napoletano la Gerusalemme liberata - a proposito dell'aspetto "regio" e "augusto" di Goffredo - preferisce alla traduzione letterale il paragone "ca pare.... Torrecuso nato a commanare". E si tratta di fama duratura se, nel Settecento inoltrato, Iacopo Sanvitale, un gesuita datosi alla rievocazione d'"egregie azioni" ricorda il C. come "gran generale" alle cui gesta, tutte "condotte ad ottimo fine" e con "insigni talenti" necessiterebbe, per un'adeguata illustrazione, "un grosso volume".
Addestrato sin da fanciullo alla caccia e alla scherma, gli esaltatori del C. ricordano la precoce esperienza bellica che lo avrebbe visto battersi "giovinetto" contro i Barbareschi essendo ferito a "Cerchine... nel mar libico"; così il Filamondo, sulla traccia del quale il Fabris precisa ulteriormente che si trattava d'una ritorsione per una scorreria in Calabria. E, in effetti, Amurat Rais terrorizzò quella zona, specie dopo il 23 sett. 1600, quando, sbarcato a Cetraro, vi trucidò il principe di Scalea Francesco Spinelli con altre ventisette persone. Ma forse l'entusiasmo encomiastico induce ad anticipare i tempi: che il C. è ormai uomo fatto quando partecipa come venturiero ad una spedizione nel corso della quale ci fu il combattimento, del 28 sett. 1611 alle isole Karkenna, nel golfo della Piccola Sirte.
In questo, appunto, "el marques de Torrecuso" ed altri, pur essi "aventureros", subirono l'assalto di cento "moros, quedando... otros 300 en las trincheras"; e il C., il duca Antonio de Mendoza e Francesco Caracciolo duca di Nocera furono "heridos". Tale la versione, ben più attendibile, d'una Relación de la victoria (Napoli 1611), come venne ottimisticamente definito lo scontro.
Sposatosi, il 12 apr. 1614, con Teresa Vittoria di Giovanni Battista Ravaschieri principe di Satriano, che morrà il 29 apr. 1637 dopo avergli dato una figlia, Silvia Antonia, e quattro figli, Carlo Maria (1616-1641), da Napoli, quando, in qualità di maestro di campo, s'imbarca col "tercio" di fanti napoletani da lui costituito sulla squadra navale destinata alla scorta, contro le presidie anglo-olandesi, dei pesanti galeoni rientranti in Europa dalle Americhe. Caduta, nel 1624, Bahia in mano olandese, il C. coi suoi fanti, è nella flotta che salpa da Cadice, nel gennaio del 1625, a quella volta; cinquantadue navi in tutto con 12.556 uomini a bordo tra marinai e soldati, in particolare quattro le navi e 1.183 gli uomini della "escuadra de Naples". Imbarcato sull'ammiraglia napoletana, il C., che ha alle sue dirette dipendenze 60 uomini, esercita il comando su di un "tercio" di 830 fanti, suddivisi in venti compagnie affidate ad una quarantina d'ufficiali tra i quali emerge per valentia Mario Landolfo. Arrivata, dopo essersi congiunta a Capo Verde con quella portoghese, la flotta a destinazione, il C. è tra i primi, il 26 marzo, a sbarcare, con 500 dei suoi, attestandosi nel convento di São Bento, su un'altura non lontana dalla città, dirigendovi le opere di fortificazione e l'insediamento di due batterie che, il 5 aprile, sono già in grado d'infastidire le navi olandesi rimaste in porto e, nei giorni successivi, di danneggiare, con un cannoneggiamento costante, la città dalla parte della porta di S. Lucia. Dalla relazione del cronista Thomaz Tamayo de Vargas apprendiamo il ruolo rilevante del C. nell'assedio: le trincee, da lui fatte costruire, arrivano a poche decine di metri dalle mura costituendo, assieme ai tiri dell'artiglieria, una minaccia sempre più temibile. Anche per questo, alla fine d'aprile, gli Olandesi decidono di capitolare, senza peraltro evitare il saccheggio, in cui i napoletani del C. non furono da meno, in fatto di crudeltà e cupidigia, degli spagnoli e portoghesi.
Seguì il ritorno in Spagna, ove i vincitori furono accolti con tripudianti acclamazioni spropositate rispetto all'entità dell'impresa, nel cui clima eccitato si situa El Brasil restitudo di Lope de Vega; e pure il C. ebbe la sua porzione d'applausi. Partecipa quindi, nel settembre, alla difesa di Cadice assalita dal Buckinghani; premiato, nel 1626, col titolo di duca di San Giorgio, di cui amò fregiarsi il suo primogenito, è presente, nella flotta comandata da Fadrique de Toledo Osorio, nel 1627 all'assedio di La Rochelle, combattendo contro gli Inglesi invano tentanti di forzare il blocco. Insignito del cavalierato di S. Lago, rientra nel 1629 a Napoli, essendovi, nel 1630, come già il padre, governatore dell'Annunziata; e, assoldati, per ordine del viceré Emanuele Fonseca Stunica conte di Monterey, 1.600 fanti, si reca, nel gennaio 1632, a Milano ove confluivano le truppe destinate alla guerra in Germania. Con queste il C., al seguito del duca di Feria, Gómez Suárez de Figueroa, prende parte, nel 1633, alla liberazione di Costanza e Breisach e alla presa di "Valdshurt, Sechingen", Laufenburg e Rheinfelden. Non altrettanto felici le operazioni successive ché, non assecondato da Wallenstein, il Feria si ridusse in Baviera, colle truppe decimate dai combattimenti e, ancor più, dal freddo, morendo a Monaco il 14 genn. 1634. Di nuovo a Milano, il C. ne riparte, di lì a poco, nel giugno del 1634, coll'esercito del cardinale infante Ferdinando d'Austria; ben quattro, in questi, i "tercios" napoletani, uno dei quali affidato al comando del C., e tutti si distinsero, il 5-6 settembre, nella furiosa battaglia di Nördlingen contro gli Svedesi comandati da Gustav Karlsson Horn e da Bernardo duca di Sassonnia-Weimar.
Grande vittoria in cui, osserva Bisaccioni "si satiò l'ira, si sfogò la vendetta", divenendo "i più coraggiosi de' protestanti... Conigli alla furia austriaca", giustamente celebrata, così il Bulifon, "ogni anno a Napoli... come quella che preservò il resto della Germania dalle mani degli eretici", grazie, anche, al valore napoletano.
Declinata l'offerta del generalato della artiglieria in Alsazia e, quindi, in Fiandra al seguito del cardinale infante ivi governatore, il C. preferisce ritornare a Milano e assumere il comando d'un corpo di soldati di varia nazionalità col quale concorre alla liberazione di Valenza assediata dalle congiunte forze sabaude, francesi e parmensi. Dopo aver rallentato una puntata offensiva dell'avversario, che avrebbe voluto impegnare tutto l'esercito spagnolo, ed essersi quindi ritirato al campo di Frescarolo "in sembiante", osserva il Brusoni, "più di vincitor che di vinto", il C. dirige, nell'ottobre del 1635, le operazioni d'imbarco quando gli Spagnoli tentano il passaggio del Po.
Diradatasi la nebbia che lo facilitava, iniziò un fitto fuoco di sbarramento nemico da un fortino; il C., con pochi altri, si lanciò animosamente all'assalto di questo essendo colpito, nel salire il parapetto, da un colpo di picca, senza però, fortunosamente, rimanere ferito (ed egli, ricorda il Filamondo, vide nell'episodio un segno particolare della protezione mariana, convinto d'essersi salvato toccando "l'officiolo della... Vergine e'l sopra habito del carmine solito mettersi sopra il colletto nel principiar la pugna"). Poté così rialzarsi e, facendosi largo colla spada sguainata, abbatté colle proprie mani i pali dello steccato, seguito dai soldati, incoraggiati da tanto ardire, i quali in breve s'impadronirono del ridotto.Governatore, quindi, dell'armi in Borgogna, da un cenno su di lui nelle Nuevas de Madrid dèsde de 27 de iunio hasta 4 de iulio 1637, è lecito arguire come i rapporti del C. colla corte non siano stati sempre idillici e come lo stesso incarico in Borgogna gli fosse stato tutt'altro che gradito. L'immagine fastidiosamente stilizzata di capitano ideale tutto zelo di servizio e ardore d'eroismo ammannitaci da secenteschi agiografi della nobiltà guerriera si umanizza laddove s'apprende che il C. "está quexoso de que no lo han cumplido las mercedes que le habián hecho antes de que fuese à Borgoña, porque habiendo vacado más de cuatro encomiendas de su órden, no le dieron ninguna".
A corte il 4 dicembre, "habiendo cumplido con la comisión que le habían dado para Navarra", il C. coglie, il 7 sett. 1638, come "maesse de campo general de los tercios de Navarra", un vistoso successo sui Francesi impegnatisi, a partire dal 1º luglio, nell'assedio di Fuenterrabia, nella Guipúzcoa; vittoria che gli venne esclusivamente attribuita perché fu l'unico - laddove gli altri comandanti, scoraggiati dal disordine apportato nell'esercito da un terribile fortunale, erano inclini a ripiegare e a suggerire agli assediati la resa - ad insistere caparbiamente per una condotta offensiva. Nel 1639 le truppe del Condé riescono ad occupare Salces nel Rossiglione; poderosa anche se lenta la replica spagnola col concentramento, ai primi di settembre, d'un numeroso esercito a Perpignano, nel quale il C. - validamente coadiuvato dal primogenito Carlo Maria che dal 1633 ne condivide le vicende belliche - è maestro di campo generale.
Ancora una volta - scavalcando le caute disposizioni che gli avevano affidato compiti esclusivamente ricognitivi - preferisce attaccare i Francesi trincerati sotto Salces costringendoli a riparare a Narbona. Ma di qui muove il Condé stesso con truppe più numerose e fresche, giungendo, il 20 ottobre, nei pressi della piazza contesa. Otto giorni di pioggia continua e torrenziale gli impediscono tuttavia l'attacco; ne approfitta invece il C. per dirigere febbrili opere di trinceramento e per disporre opportunamente l'artiglieria. Sicché, quando, all'inizio di novembre, il Condé tenta lo sfondamento, una salda linea difensiva gli sbarra il passo - lo stesso C. s'adopera instancabile nelle trincee a respingere colla picca ripetuti assalti - e un nutrito fuoco lo ributta, inducendolo a ripiegare di nuovo su Narbona. Ne segue la rioccupazione spagnola di Salces, evacuata dal presidio francese il 6 genn. 1640.
Dilaga intanto e ribolle in Catalogna il malcontento per lo sperpero delle sue risorse umane e finanziarie nella guerra contro i Francesi, di cui, per meglio coinvolgerla, è stato scelto a teatro il vicino Rossiglione. Il rancore si fa esplosivo nel febbraio-marzo del 1640 quando vi si acquartierano le fameliche truppe reduci dalla campagna per la riconquista di Salces, che l'Olivares pretende di far mantenere dalla popolazione locale.
Lungo l'elenco delle malefatte della soldatesca - violenze, ruberie, stupri, oltraggi alle chiese - nella vibrante Proclamación catolica a la magestad piadosa de Felipe el grande (Barcelona 1640), espressa da "los conselleres y conseyo de ciento... de Barcelona", a veder del quali "los alojamentos... à la forma de Lombardia" costituiscono una "contraffación declarada de sus constituciones pectadas y iuradas", un "arbitrio insufrible". L'ottusa rozzezza dei capi castigliani esaspera gli animi; coi tumulti di Barcellona, del 7 giugno, culminati nell'uccisione del vicerè conte di Santa Coloma, scoppia la guerra civile, fomentata anche dallo scaltro intervento francese, data la prontezza del Richelieu nel cogliere l'occasione di "nodrir la guerra nelle viscere della Spagna" (Filamondo).
Sui ribelli s'avventa, feroce la repressione castigliana affidata al marchese Pedro Fajardo de los Velez, alle cui dipendenze s'adopera, coll'usuale zelo, il Caracciolo. Man mano che l'esercito avanza, la campagna è sottoposta ad indicibili vessazioni. Cadono Tortosa, Monroig, Alcover, Reus, la Selva, dopo aver opposto una debolissima resistenza.
Dura invece la sorte di Cambrils, improvvisata piazza d'armi catalana, rea d'aver opposto "alla chiamata che le fece fare" il C. la sua decisione di "bravamente difendersi". Presa dopo cinque giorni d'assedio, "contra i primarii cittadini non solo, ma contro la minuta plebe et... ogni conditione di persone senza riguardo di sesso, d'età imperversarono... i vincitori"; ma "attione sì crudele" si rivelerà col tempo controproducente perché "da questo esempio restarono impressionati quei popoli" (Siri) e ne fu rafforzata la loro determinazione a resistere. Più fortunata Tarragona ché il comandante francese - legato da reciproca stima al C., conosciuto l'anno prima - riuscì ad ottenere da lui convenienti condizioni di resa. Breve pausa per la crudeltà della soldatesca che di nuovo si sfoga liberamente su Villaseca e la campagna circostante.L'avanzata prosegue: sbaragliato dal C. a Martorell un corpo catalano, il 25 genn. 1641 l'esercito si accampa poco discosto dalle mura di Barcellona e l'indomani si impegna, a Montijuich, con grande spiegamento di forze, in un ambizioso tentativo. È il C. stesso a disporre in sei squadroni, tre per l'assalto gli altri pel rincalzo, circa 8.000 moschettieri.
Non dirompente il primo impetuoso assalto, respinto dalla controffensiva catalana, a sua volta bloccata dalla ricomposizione dello schieramento castigliano. L'esito pare, a questo punto, favorevole al C., ma la strage seminata tra le sue truppe dal tempestivo intervento d'"un bombardiere", scaricante dall'alto un "cannone pieno di piccole palle" (Filamondo), le sconcerta del tutto. Muore inoltre, per le ferite riportate in un azzardato slancio che l'aveva isolato, il duca di San Giorgio, comandante della cavalleria (il giovane, d'altronde, s'era impegnato col padre a tener fede ad una sua incauta vanteria, quella di piantare per primo il pugnale sulla porta di Barcellona). Appresa la notizia il C., la cui figura ci giunge irrimediabilmente congelata in pose statuarie - si sarebbe inginocchiato, avrebbe baciato la terra e quindi avrebbe ripreso a combattere con lena; "la perdida - gli scriverà l'11 febbraio il re - de vuestro hycyo... tengo por mayor mi perdida". All'esibizione, un po' teatrale, di forza d'animo, segue il corollario gratificante delle condoglianze regie.
Dopo aver partecipato alla faticata riconquista di Tarragona, il C. ha il compito, arduo poiché "ogni granello di soccorso" comportava un "lago di sangue" (Filamondo), di rifornire Perpignano assediata dai Francesi e ridotta alla fame da un rigoroso blocco. Missione importantissima, vigendo l'indiscusso presupposto "che la somma di tutte le cose e delle fortune stesse della Spagna consistesse nella preservatione" di quella "fortezza" (Siri), per la quale non si lesinarono i mezzi: al C. furono infatti concessi 5.000 fanti italiani, un "tercio" di borgognoni, due "tercios" di spagnoli e 350 uomini a cavallo.
Sbarcato con queste forze a Colibre, fuga i distaccamenti francesi dalla zona e conquista la poco discosta Argelés, mostrandosi clemente col presidio francese, ma severissimo cogli abitanti, ribelli al re, che condanna al remo. Dopo aver inviato a Perpignano, nottetempo, il modestissimo soccorso di quaranta muli carichi di grano e dopo aver respinto ripetuti attacchi francesi, il C. riesce - pur perdendo quasi un quinto del carico per l'insistente azione di disturbo della cavalleria avversaria - ad entrarvi, nel gennaio del 1642, con un grosso quantitativo di frumento, portato, per lo più, sulle spalle dai soldati.
Lasciata nella città parte delle truppe, il C. ne riparte dopo una settimana alla volta di Colibre; e, imbarcatosi a Tarragona, giunge in Spagna accolto come un trionfatore. Qui, nel consiglio di guerra tenutosi in giugno a Molina, ribadita la necessità di mantenere, a tutti i costi, Perpignano, prevalse l'offerta del C. di soccorrerla ancora una volta, purché fornito di truppe numerose e scelte, di denaro sufficiente a pagarle in anticipo, nonché di viveri e munizioni bastevoli per tre mesi. S'accinge prontamente all'impresa, quando - per la falsa notizia d'una clamorosa vittoria navale sulla Francia dalla quale si deduceva, con irresponsabile entusiasmo, lo sblocco automatico della piazza assediata - gli si ingiunge di fermarsi. Appreso poi che in mare la vittoria era stata francese, nella convinzione, dettata dallo scoramento, che il corpo di spedizione andasse rafforzato, gli si ordina di attendere l'arrivo di consistenti rinforzi. Si perde, così, altro tempo prezioso, ché, quando il C., con 12.000 fanti e 4.000 uomini a cavallo, è a Tarragona, Perpignano, ridotta allo stremo dalla fame, si arrende l'8 settembre: s'apriva in tal modo alla Francia, che, di lì a poco, riprendeva anche Salces, "il cuore della monarchia spagnuola" (Siri). Deciso, tuttavia, a non rimanere inattivo, il C. ferito nell'orgoglio dall'avviso che il comando supremo era stato trasferito a Diego Guzinan marchese di Leganés delibera di prevenirne l'arrivo con una mossa fulminea su Lérida; si oppongono però gli alti ufficiali, gelosi del suo prestigio e convinti, nel contempo, dell'inopportunità d'una tale decisione in assenza del Leganés. Sdegnato, il C. cede l'"hasta" di comando ed afferra una picca, ad attestare la sua volontà di battersi come semplice fante. Ma il Leganés, giunto nel frattempo, non tollera la sua presenza nemmeno in tale veste, offeso dalla sua popolarità tra i soldati. Così, mentre il nuovo comandante è battuto, il 7 ottobre, dal maresciallo La Motte, il C. raggiunge Saragozza: qui il re lo accoglie cordialmente e lo premia col titolo, trasmissibile, di grande di Spagna - cui s'aggiungerà il diploma, del 10 dicembre, concedentegli il principato di Campagna (confiscato al principe di Monaco, per punirlo d'essersi dichiarato per la Francia) del "valsente" di 50.000 ducati (ma essendo poi stimato ammontare a 80.000, il C. dovrà sborsarne 30.000 per ottenerlo) - e la licenza di rientrare per qualche tempo, a Napoli, "a efectuar una leva".
Trascorso l'inverno a Napoli, riparte, nel 1643, per la Spagna, applaudito vivamente, nel viaggio di ritorno, dalle popolazioni sensibili al suo fascino di capo energico e coraggioso. Nel dicembre del 1640 i Portoghesi, scrollandosi di dosso sessanta anni di dominazione straniera, erano insorti dichiarandosi indipendenti sotto Giovanni IV della ripristinata dinastia dei Braganza. Incapace la Spagna d'una reazione massiccia e tempestiva, la rivolta s'era rafforzata grazie al consenso interno e agli appoggi internazionali; e il conflitto tra la monarchia cattolica e i ribelli ristagnava in logoranti operazioni alla frontiera. Grande la fiducia riposta dal re nel C., che sperava capace d'un'impostazione vigorosamente offensiva. Perciò, all'inizio del 1644, "amovit, tanquam ignavum, praecipuum generalem... comitem S. Estephani, et suffecit marchionem de Torrecusa maxima spe" (de Sousa de Macedo).
Nessuno più del C. era stimato adatto ad attaccare, pur colle sole "forze che ad altri non bastano per la difesa". E non per niente fu tale il terrore, alla notizia del suo arrivo, tra i Portoghesi che fu necessario ricordare dai pulpiti che, in fin dei conti, il C. era un uomo come tutti gli altri. Così il Gualdo Priorato, antore d'un diffuso ma anche impreciso cenno biografico su di lui, ove, pur di salvarne l'immagine, piuttosto stucchevole, di generale invitto, sorvola disinvolto - quando addirittura non trasforma gli insuccessi in trionfi - sul risultato complessivamente negativo d'una campagna tutt'altro che ricca, come vorrebbe far credere, di "vittorie e prede".
Giunto, in febbraio, nell'Estremadura spagnola, per organizzare l'esercito, il C. vi cade ammalato, guarendo tuttavia rapidamente grazie, anche - così, almeno, il Gualdo Priorato - alle molte messe offerte dalla popolazione per impetrare il suo ristabilimento. Le forze di cui dispone - 7.000 fanti e 2.600 uomini a cavallo, affidati questi ultimi ad un mediocre ufficiale, il barone di Mollingen - sono meglio addestrate, ma inferiori numericamente alle portoghesi, raccolte coll'intento di penetrare, sotto la guida di Matias de Albuquerque, in profondità in terra spagnola. È il C., ad ogni modo, ad iniziare per primo le ostilità, con circospezione però, per non rischiare la sua collaudata reputazione: attacca Onguella, ma l'inattesa resistenza del suo modestissimo presidio lo dissuade dall'insistere. L'Albuquerque fa occupare dalla cavalleria Montijo e viene pure respinto un nutrito nucleo di cavalleggeri spagnoli accorsi a soccorrerla. Grave scacco pel prestigio del C., che replica ordinando devastazioni e razzie di bestiame, nel corso delle quali vengono anche uccisi contadini inermi; e la popolazione infuriata riesce, in taluni casi, a respingere le truppe. L'iniziativa è d'altronde in mano portoghese ché il C., il quale ha il suo quartier generale a Badajoz, si preoccupa di mantenere le posizioni più importanti abbandonando le minori al nemico. Si lascia però, nel consiglio di guerra, convincere dalla tesi dell'opportunità d'un vistoso successo che ridia fiducia ai soldati e tranquillizzi le ansie della corte. Di qui, il 26 maggio, la battaglia a Campo Mayor, nella quale, nonostante il rovinoso sbandamento iniziale portoghese, il coraggio e la determinazione dell'Albuquerque, oltremodo favoriti dagli errori gravissimi del Mollingen - cui il C., non essendosi curato di "trovarsi personalmente nel procurar di conseguir la gloria di quel cimento" (Brandano), aveva affidato il comando - riuscirono a capovolgere l'esito: ricuperate l'artiglieria e le salmerie, i Portoghesi ricacciarono gli Spagnoli, perdendo i primi, tra morti e feriti, 900 uomini, e i secondi 600 fanti e 800 cavalieri, oltre ad avere 800 feriti.
Severissima lezione per il C., che, evidentemente, si cercò d'occultare, quanto meno sul piano propagandistico, se a Milano il governatore marchese di Velada fece circolare un riassunto a stampa, datato 20 giugno, d'una relazione del C. sul combattimento, ove, dilungandosi sulla sua fase iniziale, questo era presentato, come una "vittoria" e l'esito negativo era pudicamente ridotto alla reticente costatazione che "dalla parte nostra si è ricevuto alcun danno, particolarmente nella gente più fiorita", vale a dire tra gli ufficiali (in effetti erano caduti ben 5 maestri di campo, 9 capitani di cavalleria e 45 di fanteria). Gli Spagnoli - spiega Alessandro Brandano - vollero in effetti vantare come loro grande successo la battaglia "con celebrarne per tutti i regni... festive dimostratoni di allegrezza e di giubilo. Ma io che n'hebbi... relazioni da... presenti nel fatto, non posso defraudare i Portoghesi della gloria riportata".Pressato dalla corte, che esige la penetrazione in Portogallo e la conquista d'una grossa piazza - ed egli stesso s'affanna a proclamare l'intenzione di "portarsi... a qualche strepitosa impresa" (Brandano) -, il C. colma i vuoti dell'esercito e lo rende più numeroso indicendo reclutamenti in Estremadura e Andalusia. Ed inizia un'offensiva in grande stile, il 28 novembre, varcando la Guadiana con 12.000 fanti italiani, spagnoli, irlandesi, 2.600 cavalieri, 2.000 guastatori e 12 pezzi d'artiglieria e puntando su Elvas, "vinta la quale - asserisce coll'usuale enfasi Gualdo Priorato - rimaneva aperto... il camino per... Lisbona". Ma due giorni di pioggia dirotta rendono inutilizzabile l'artiglieria e parecchi ufficiali, disperando della riuscita e non osando palesarlo apertamente, preferiscono andarsene. D'altra parte la piazza ha solidissime fortificazioni; la difesa è affidata a Matias de Albuquerque e numerose truppe, pronte ad attaccare gli Spagnoli, si concentrano a Villa Vigosa, agli ordini di Joanne Mendes des Vasconcellos; né i rigori della stagione si prestano ad un lungo assedio. Assennatamente il C., il 7 dicembre, leva il campo e rientra in Spagna, dove ottiene dal re - cui, secondo il Filamondo, avrebbe detto che, "ove i Portoghesi combattevano con tanta bravura per mantenere la libertà e i capitani di Sua Maestà... procedeano con... negligenza", occorreva un comandante supremo "coronato" il permesso di raggiungere Napoli.
Una volta nella città natale, quando la situazione per Orbetello assediata si fa decisamente critica, si ricorre ancora una volta alla sua autorità ed esperienza. Quando il viceré, duca d'Arcos, scontento "del lento proceder" di Francesco Toraldo - annota il contemporaneo Tommaso De Santis - affrontò, "in consulta", l'argomento della necessità d'un "altro capo", gli astanti furono unanimi nel designare il Caracciolo. Questi - dopo aver nobilmente rifiutato il donativo di 12.000 ducati che volle devoluto alla "paga" dei soldati - s'imbarca, il 5 luglio 1646, con oltre 5.000 fanti e, raggiunto Porto Ercole, vi assume il comando supremo di tutte le forze spagnole di terra e di mare.
La notizia rianima gli esausti difensori privi di viveri, d'acqua, di munizioni -, specie il loro comandante, Carlo Della Gatta, mentre irrita l'ammiraglio Linares, il quale, piuttosto che cedere al C. il comando, preferisce allontanarsi colle sue navi. Il C. ha un piano preciso, che riesce a trasmettere al Della Gatta: attaccheranno entrambi simultaneamente i Francesi, egli alle spalle, l'altro di fronte. Ed il 14 ne inizia l'esecuzione, il 15 marcia per la Feniglia, caccia i Francesi dal forte Gamero e vi si stabilisce riunendo le proprie forze coi fanti e cavalieri giunti attraversando lo Stato pontificio; il 16 dispone fanteria e cavalleria a battaglia alle falde dell'Ansedonia e il 18 avanza, mentre il Della Gatta è pronto per l'irruzione. Tommaso di Savoia, che ha avuto modo, per tutto il 17, di valutare i rischi cui, in caso di scontro campale, sarebbe andato incontro, fa demolire gli accampamenti e ordina la ritirata generale con concentramento al forte delle saline di Albegna; così le truppe s'imbarcano ed egli, rinunciando all'impresa, s'avvia, a cavallo, alla volta del Piemonte. Tra le trincee abbandonate dal nemico il C. e il Della Gatta si congiungono mentre i soldati, tripudianti, arraffano quanto i fuggitivi hanno lasciato. Il 19 ci sono i festeggiamenti ad Orbetello liberata; il 20 vengono rioccupate Santo Stefano, Talamone e le saline.
Lasciata Orbetello il 25, il 28 il C. è già a Napoli; ma il clima insalubre, aggravato dalla calura, gli è stato esiziale, ché tornato, afflitto da una violenta febbre, muore il 5 ag. 1646.
Ci furono, per volontà del viceré, esequie solenni che si svolsero, come è ricordato in minuziose descrizioni, con pompa dispendiosa, improntata ad un fasto cupo e ad un esasperato gusto necrofilo: imbalsamato, vestito colla sua più bella armatura, il corpo del C. fu scortato sino alla chiesa di S. Giovanni a Carbonara e quivi riposto nella cappella di famiglia.
Fedele servitore del re cattolico, i contemporanei ne ammirarono l'austerità di vita, il rigore amministrativo, la ponderatezza di giudizio, l'imperiosità del comando, il consapevole coraggio; e rimasero pure impressionati dalla sua compunta religiosità - non priva d'esibizione, quasi ad esorcizzare il ricordo della clamorosa apostasia del nonno paterno -, esplicantesi soprattutto in una fervida devozione mariana e in un'accentuata preoccupazione per le anime dei defunti, a favore delle quali fece celebrare, a proprie spese, un numero imponente di messe.
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