BIRAGO, Carlo
Nacque in data imprecisata nella prima metà del sec. XVI, con tutta probabilità a Milano, da Cesare e da Laura Francesca della Torre. Abbracciò la carriera delle armi, militando nell'esercito francese, dove il fratello Ludovico occupò un posto di altissimo rilievo. I primi anni della sua carriera militare restano ancora oscuri: nel 1551 era a Chivasso al seguito di Ludovico e l'anno dopo, nel 1552, il cronista dell'armata francese del Piemonte lo ricorda insieme col fratello come "le plus jeune, qui n'estoit capitaine que d'une bande de fanterie, et qui n'estoit banny de Milan comme les autres" (Mémoires ... du baron Duvillars, XXIX, p. 99).
In funzione nettamente subordinata al fratello, il B. partecipò alla guerra di Piemonte fino alla sua conclusione con la pace di Cateau Cambrésis. Nel 1552 ebbe parte nel sensazionale tentativo di un colpo di mano sul castello di Milano e poi nella presa di Verrua. L'anno successivo, nel novembre del 1553, eseguì col Salvoyson una brillante azione militare su Vercelli, sede provvisoria del governo sabaudo, che fruttò ai Francesi ricco bottino e molti importanti prigionieri. Nel dicembre del 1554 fu col fratello all'assedio di Ivrea e nell'agosto del 1555, sempre con Ludovico, alla difesa di Santhià, dove poche migliaia di uomini tennero in scacco l'intero esercito spagnolo di Lombardia comandato dal duca d'Alba. La splendida vittoria di Santhià, capolavoro militare di Ludovico Birago, fruttò al B. la nomina a governatore di Chivasso. Nel settembre dello stesso 1555 partecipò ancora alla conquista di Volpiano, importante caposaldo dell'esercito spagnolo, e nell'ottobre, di nuovo con Ludovico, all'imboscata di Gattinara che costò gravi perdite al nemico. Nel marzo del 1556 collaborò ancora una volta con il fratello Ludovico che, sempre a Gattinara, inflisse un'altra dura sconfitta agli Spagnoli. Dopo la vittoria spagnola di San Quintino la guerra ristagnò, cosicché anche in Piemonte venne meno ogni possibilità di serie iniziative militari: nell'ottobre del 1558 il B. soccorse Casale assediata dal duca di Sessa, che fu costretto a togliere l'assedio.
Militare più per tradizione familiare e per sollecitazioni ambientali che per autentica vocazione, il B. seppe svolgere assai bene il ruolo di collaboratore del fratello Ludovico, che coadiuvò efficacemente in quasi tutte le sue più importanti imprese, ma senza riuscire mai a emergere con una sua fisionomia di condottiero. Maggiore abilità seppe mostrare invece come politico e negoziatore: una naturale disposizione all'intrigo, l'assenza più rimarcata di ogni scrupolo morale o politico, il rilievo non eccessivo della sua stessa posizione nell'esercito francese che gli lasciava maggiore libertà di movimento, fecero del B. un po' il diplomatico del potente gruppo familiare dei Birago al servizio francese. Così fu lui che nel dicembre del 1554 prese contatto con gli Spagnoli per trattare un eventuale passaggio dei Birago al soldo del re cattolico, e a tal fine si incontrò anche a Chivasso con il fratello Giacomo Antonio, inviatogli appositamente dal castellano di Milano, don Juan de Luna.
Le trattative non approdarono a nulla, ma il tentativo di trovare per tutto il gruppo dei Birago, perennemente scontento del servizio del re di Francia, una sistemazione più soddisfacente fu ripreso attivamente nel 1560, dopo la firma del trattato di Cateau Cambrésis che, ponendo fine alla guerra franco-spagnola anche in Italia, tolse ai Birago una gran fonte di redditi e di prestigio, senza reintegrarli nei loro beni e possedimenti di Lombardia.
Sciolto l'esercito francese del Piemonte, i Birago restarono alla testa dei pochi contingenti destinati a presidiare per il re di Francia il marchesato di Saluzzo e cinque piazze piemontesi affidate provvisoriamente alla custodia francese. La sistemazione ottenuta, che riserbava a Ludovico il governo effettivo del marchesato di Saluzzo, non sembrò corrispondere all'importanza dei servizi resi dai Birago per tanti anni alla corona di Francia.
Le trattative per ottenere una nuova condotta militare furono avviate successivamente in tre direzioni: lo Stato di Milano, il duca di Savoia e la Repubblica di Venezia. Delle due ultime iniziative tenne le fila direttamente il B. che si recò a conferire personalmente prima col duca di Savoia e poi con un incaricato veneto.
Negli anni tra il 1560 e il 1561 i rapporti dei Birago con Emanuele Filiberto furono molto stretti e piuttosto cordiali: il duca cercava di attirarli al suo servizio col proposito di giocare alle spalle la Francia nella questione delle cinque fortezze piemontesi, i cui presidi francesi costituivano un serio pericolo per l'unità e l'indipendenza del ducato sabaudo. Nel quadro di questa politica intesa a ottenere in un modo o nell'altro la restituzione delle cinque piazze, Emanuele Filiberto non avrebbe esitato ad assumere al suo soldo anche gente tanto pericolosa ed infida come i Birago. Lo lamentò il re di Francia Francesco II, che, il 15 giugno 1560, protestò vivacemente col duca di Savoia, mostrandosi bene informato delle trattative intercorse con i Birago. L'esito della missione del B. presso il duca di Savoia non è noto; si sa tuttavia che un Birago, Carlo di Girolamo, nipote del B., entrò effettivamente al servizio sabaudo, mentre i rapporti degli altri Birago col duca si guastarono assai presto, quando cominciarono le trattative dirette di Emanuele Filiberto con Francesco II, nel novembre del 1561. Le richieste ducali incontrarono infatti la netta opposizione di Ludovico e del B., che si adoperarono attivamente, minacciando anche di ribellarsi al re per impedire la restituzione delle fortezze, divenute ormai una comoda base di potenza per gli irrequieti fuorusciti milanesi.
In questa situazione, quando già le trattative condotte da Emanuele Filiberto si avviavano a una favorevole soluzione, i Birago ripresero i contatti, interrotti nel 1560, per entrare al soldo della Repubblica di Venezia e nell'ottobre del 1562, ad accordo già avvenuto, il B. si recò a Torino per abboccarsi col segretario dell'ambasciatore veneto al quale chiese la concessione di un prestito per "conservar al re cristianissimo quelle piazze che il duca dimandava".
L'incontro di Torino non ebbe però l'esito sperato: il governo veneziano non aveva nessun interesse a finanziare il progetto dei Birago, cosicché riuscì facile al duca, al corrente delle trattative torinesi, di ottenere a Venezia precise assicurazioni che escludevano categoricamente un qualsiasi intervento della Serenissima in loro favore. Venuta meno la possibilità di un appoggio veneziano, i Birago dovettero attenersi all'accordo concluso l'8 agosto 1562, che restituiva al duca di Savoia le fortezze di Torino, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti, mantenendo però ancora sotto presidio francese quella di Pinerolo cui si dovevano aggiungere ancora quelle di Savigliano e di Perosa. A negoziare la consegna delle quattro fortezze al duca fu scelto proprio il B., che perdeva così il governo di Chivasso, per ottenere più tardi, il 7 apr. 1563, la carica di governatore di Savigliano.
L'infelice conclusione di tutta questa vicenda lasciò il B. fortemente risentito con la corte di Parigi. Restò al governo di Savigliano fino al 1573 e nel corso di questo decennio non ebbe gravi problemi politici o amministrativi da affrontare. Si contentò di governare la piccola città all'ombra del fratello Ludovico, governatore del marchesato di Saluzzo e dal 1567 anche luogotenente generale del re di Francia di qua dai monti, del quale seguì la difficile politica, di volta in volta tollerante o repressiva, nei confronti dei riformati presenti anche a Savigliano.
Alla morte di Ludovico, nel dicembre 1572, il B. gli successe in entrambe le cariche di governatore del marchesato di Saluzzo e di luogotenente generale del re di Francia di qua dai monti.
L'eredità di governo lasciata da Ludovico al B. non era certo delle più facili: privo di mezzi finanziari adeguati, con poche truppe e senza consistente copertura politica per la grave crisi che sconvolgeva la monarchia francese, il rappresentante del re di Francia nel marchesato di Saluzzo e nelle tre fortezze piemontesi doveva fronteggiare la politica insidiosa del duca di Savoia, sempre teso a riportare le piazze e lo stesso marchesato nell'ambito dei suoi domini, e la non meno pericolosa vicinanza degli Spagnoli, tutt'altro che restii a ingerirsi nelle faccende piemontesi. La situazione del B. risultava ancor più complicata dalla questione religiosa: sia nel Saluzzese sia nelle città sottoposte al governo francese prosperavano attive comunità riformate, strettamente collegate con le comunità sorelle del resto del Piemonte e col partito ugonotto di Francia.
Il B. si mostrò subito incapace di seguire la linea politica perseguita per tanti anni dal fratello che aveva a fondamento una notevole elasticità nei confronti dei riformati. Egli aveva risentito assai più di Ludovico l'influenza politico-religiosa della Controriforma, donde un atteggiamento di assoluta intransigenza verso i protestanti, che costituì il limite più grave della sua azione di governo e gli costò nel giro di pochi anni la perdita della stessa carica di governatore del marchesato di Saluzzo. Di tale intransigenza ideologica dette prova assai presto. Nel luglio del 1573 intimò infatti ai riformati delle Valli di Perosa e di Pragelato di astenersi dalla pratica del loro culto. Al netto rifiuto opposto dai valligiani replicò con una spedizione punitiva della quale vantò spavaldamente il successo. Ma le sue spacconate non avevano alcun riscontro con la realtà: la spedizione si era risolta infatti in un vero e proprio disastro, come riferì a Emanuele Filiberto, con abbondanza di particolari e vivo dispetto del B., il governatore delle Valli Sebastiano Grazioli di Castrocaro. Dopo questo scacco il B. non depose le armi, cercò invece di prendersi la rivincita, ricorrendo anche all'aiuto del duca di Savoia. Mentre raccoglieva uomini e armi sopraggiunse però la pace, stipulata nella Provenza e nel Delfinato il 22 ag. 1573 tra cattolici e protestanti, che lo indusse a più miti consigli. Il 10 settembre il B. concluse così una tregua con i riformati delle Valli di Perosa e Pragelato, prendendo a modello il trattato di Cavour del 1561 col quale Emanuele Filiberto aveva riconosciuto certi diritti ai valdesi suoi sudditi. Il 14 ott. 1573 la tregua fu ratificata dal re di Francia.
Il decorso di tutta questa vicenda servì solo a porre in tutta evidenza lo stato di estrema debolezza della posizione del Birago. Nel 1574 la situazione del B. si aggravò ulteriormente per la perdita delle tre fortezze di Perosa, Pinerolo e Savigliano, restituite a Emanuele Filiberto dal nuovo re di Francia, Enrico III. Il B. non manifestò tuttavia alcuna particolare ostilità verso il duca di Savoia che, dopo averlo privato delle tre piazze piemontesi, mirava al marchesato di Saluzzo. Le ragioni di tanta cautela vanno individuate nella minaccia ancor più grave costituita dagli ugonotti, decisi a occupare il Saluzzese per stabilirvi una solida base di operazioni. Per tutto il 1575 il B. fu sottoposto alla pressione ugonotta che rappresentava un grave pericolo anche per Emanuele Filiberto. In lui quindi poté trovare il naturale alleato, capace di prestargli assistenza politica e militare.
Nel corso del 1575 il B. si rivolse continuamente al duca, denunciando tumulti e congiure e chiedendo aiuti in uomini e mezzi. Nel settembre, quando ormai il pericolo maggiore di una spedizione ugonotta nel marchesato sembrava svanito, scoppiò improvvisamente una rivolta a Dronero e nella Val Macra. Il B. reagì prontamente riuscendo a impedire che si estendesse alle altre terre soggette al suo governo. L'eco della sommossa arrivò però ai capi ugonotti che vi colsero la buona occasione per un intervento nel marchesato. Valdesi e ugonotti venivano raccogliendo le loro forze nel disegno di lanciare un attacco combinato che cogliesse il B. alla sprovvista e lo liquidasse militarmente. Anche questa volta il B., che aveva una fitta rete di spie, seppe in tempo del piano predisposto dai capi militari protestanti e con l'aiuto sabaudo riuscì a sventarlo.
La gravità dei pericoli corsi non impedì al B. di pensare seriamente a un intervento armato nella crisi politica genovese del febbraio 1575 per instaurare una impossibile egemonia francese sulla vicina Repubblica. L'ambizioso progetto caldeggiato dal B. cadde però nel nulla, per le resistenze della corte di Parigi, niente affatto disposta a correre il rischio di un urto frontale con la Spagna proprio nel momento che vedeva la crisi più grave della monarchia francese.
La conclusione della crisi genovese e la liquidazione della minaccia protestante del 1575 garantirono al marchesato di Saluzzo alcuni anni di tranquillità. La posizione del B. restò però assai debole, sempre soggetta alle alterne vicende della politica francese. Il pericolo maggiore era costituito dalla presenza nel marchesato del maresciallo di Francia Roger de St-Lary, signore di Bellegarde, al comando delle due fortezze di Carmagnola e di Revello, e quindi in una posizione malsofferta di dipendenza dal Birago.
Il Bellegarde aveva avuto già motivo di aspri contrasti con Ludovico Birago ed era animato da particolare ostilità verso il cancelliere Birago, dal quale si sentiva fortemente avversato e insidiato nei suoi rapporti con la corte. La furiosa irritazione del Bellegarde verso i Birago e la corte offrì la possibilità al duca di Savoia e al marchese di Ayamonte, governatore dello Stato di Milano, sempre desiderosi di eliminare in un modo o nell'altro il pericoloso cuneo francese in Italia, di intorbidare le acque: sia l'uno che l'altro offrirono al Bellegarde aiuti in uomini e denaro e lo incitarono a ribellarsi al Birago. Il Bellegarde, che già da tempo si atteggiava a protettore dei riformati del marchesato, pensò bene di garantirsi anche l'appoggio degli ugonotti, del loro capo nel Delfinato, il Lesdiguières, e dello stesso re di Navarra, in modo da proteggersi da eventuali interventi militari della corte di Parigi. Ottenute precise assicurazioni nel senso desiderato, cominciò a raccogliere truppe nelle due fortezze sotto il suo controllo, senza nascondere il proposito di cacciare il B. dal marchesato. Questi preparativi non colsero il B. di sorpresa: già da tempo sapeva di avere nel marchesato un avversario assai pericoloso, senza i mezzi per contrastarlo adeguatamente. Un intervento decisivo poteva venire solo da Parigi, ma Enrico III non era in condizione di far valere la sua autorità con la necessaria energia. Dalla corte arrivavano solo minacce e inviati speciali, non truppe né denaro.
Vennero successivamente in Piemonte due inviati del re, Mario Birago prima e il signor de La Vallette dopo. La missione del primo non ebbe alcun successo, se non altro per la circostanza che egli era nipote del B. e uno dei più attivi esponenti del clan familiare dei Birago alla corte di Francia. Maggiori possibilità aveva il La Vallette, parente del Bellegarde, al quale era stato raccomandato di provocare un'azione mediatrice del duca di Savoia, che di fatto ebbe luogo e portò ad un accordo sottoscritto dai due contendenti a Carmagnola il 29 marzo 1579. In base ad esso il B. restava al governo del marchesato a condizione che il re affidasse al Bellegarde un'importante provincia francese e che le due fortezze di Carmagnola e Revello, staccate dal marchesato, venissero affidate al figlio di quest'ultimo. Enrico III si dichiarò favorevole all'accordo, con la riserva che la semplice promessa di assegnare al Bellegarde la carica desiderata bastasse a neutralizzarlo. L'ambizioso maresciallo non era però così ingenuo, e pose al re termini precisi di scadenza, continuando nel frattempo a preparare l'azione di forza. Al B. restava ancora da giocare solo un'ultima carta, quella dei riformati. Ma il suo tentativo di convincerli a schierarsi dalla sua parte e a sostenerlo efficacemente nella resistenza al Bellegarde ebbe solo l'effetto di provocare un'aspra reprimenda del nunzio pontificio alla corte di Torino, che lo accusò di tramare ai danni della fede cattolica. L'improvviso voltafaccia del vecchio persecutore di eretici, che ora recitava la parte del tollerante e si sbracciava ad assicurare il libero esercizio del culto riformato, appariva troppo interessato per convincere. Né migliore successo ebbero i suoi sforzi di provvedere alla difesa con i pochi mezzi a sua disposizione, soprattutto per la mancanza dell'artiglieria, concentrata nelle fortezze di Carmagnola e di Revello, controllate dal Bellegarde.
In queste condizioni il B. non aveva alcuna speranza di contrastare seriamente l'attacco del suo avversario: quando il 14 giugno 1579 il Bellegarde si decise a passare all'azione di forza, abbandonò precipitosamente e sotto buona scorta il marchesato per rifugiarsi a Torino, dove chiese la protezione del duca di Savoia.
La vergognosa fuga del B. dal marchesato fu commentata assai aspramente dai contemporanei, che lo accusarono apertamente di vigliaccheria e inettitudine. Di fatto egli nel momento del maggior pericolo si trovò solo davanti al suo nemico: i suoi governati e molti dei suoi stessi dipendenti diretti lo abbandonarono e lo tradirono. Significativa la circostanza che all'appressarsi del Bellegarde, i deputati della città di Saluzzo gli andarono incontro per offrirgli le chiavi della città. Il B. raccoglieva così i frutti di sei anni di vero e proprio malgoverno: la sua esosa politica fiscale e la brutale ed ottusa intolleranza lo avevano reso inviso ai Saluzzesi che non si dolsero affatto della sua disgrazia.
La perdita del governatorato saluzzese rappresentò un colpo gravissimo per le fortune e il prestigio del gruppo familiare dei Birago fuorusciti in Francia. Il B. non sapeva rassegnarsi alla perdita della carica. Restò a Torino fino al settembre del 1579, quando si trasferì a Lione, dove si presentò a Caterina de' Medici, insieme con Mario e Luigi Birago, per denunciare le sopraffazioni subite e sollecitare provvedimenti contro il Bellegarde. La morte improvvisa di quest'ultimo, sopraggiunta il 12 dic. 1579, riaccese le sue speranze, ma ormai le fortune dei Birago a corte volgevano decisamente al declino ed Enrico III non volle saperne dell'uomo che aveva abbandonato con tanta viltà il posto assegnatogli al servizio del re. Nominò, nonostante le proteste del B., il suo favorito, Bernard de Nogaret signor de La Vallette. Il mancato rinnovo nella carica tanto agognata significò per il B. il ritorno a una condizione di mediocrità dalla quale non uscì più.
Nominato cavaliere di St.-Esprit il 31 dic. 1580, conservò a corte un posto di scarso rilievo: uno dei tanti gentiluomini italiani del seguito di Caterina de' Medici. Da costei fu utilizzato un'ultima volta nel 1583 per una missione alla corte del re di Navarra che doveva convincere a riconciliarsi con la moglie Margherita di Valois e a trattare la pace con la corte di Parigi. I particolari della missione non sono noti, ma pare che il B. conducesse le trattative con abilità e con successo. In questo senso va ricordata la circostanza che, nel novembre del 1586, egli partecipò, al seguito di Caterina, all'incontro con il re di Navarra.
Dopo questa data non si hanno più notizie del Birago. Morì nel 1591: il 31 luglio di quell'anno Enrico IV ne scrisse infatti al duca di Nevers, suo vecchio patrono. Nel 1558 aveva sposato Maddalena Laura, nipote ed erede di Laurent de St.-Martin conte di Visque, dalla quale ebbe numerosi feudi e sette figli: Flaminio, delicato poeta di lingua francese, Laura, Guglielmo, Luigi Lorenzo, Gaspare, Cesare, Filippo.
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