BOTTA, Carlo
Nacque a San Giorgio Canavese, in Piemonte, il 6 nov. 1766 da Ignazio e da Delfina Boggio. Seguendo un'antica tradizione familiare, iniziò giovanissimo gli studi di medicina che concluse, appena ventenne, all'università di Torino nel 1786, divenendo poco dopo "dottore aggregato" presso il collegio medico universitario.
La famiglia Rigoletti, originaria anch'essa di San Giorgio Canavese, dopo che l'università era stata chiusa per timore delle ripercussioni che avrebbero potuto avere nel regno subalpino gli avvenimenti di Francia, gli chiese di occuparsi del giovane Luigi. Il B., come risulta da una lettera del 10 ag. 1793 (resa nota da A. Bersano nel 1958), accettò di "coltivare i talenti del giovane perché nei suoi studi giungessero a buon fine". I rapporti tra il maestro e il discepolo divennero presto assai stretti, anche per la comunanza di ideali politici che univa il gruppo di amici costituito, oltre che dal B. e Luigi Rigoletti, da Ignazio Boyer e Angelo Paroletti (la cui sorella, amata segretamente dal B., sposò poi, nell'ottobre 1794 l'avvocato Roggeri). I sentimenti politici del gruppo, antisabaudi, filofrancesi e repubblicani, avrebbero causato la condanna a morte del Paroletti e del Boyer e, nel maggio 1794, l'arresto del B. che aveva cominciato a coltivare quegli ideali a contatto con Carlo Tenivelli, che era stato suo primo insegnante a San Giorgio Canavese (fu poi giustiziato nel 1797 per il suo giacobinismo) e discepolo del Denina.
Il B. venne scarcerato il 12 sett. 1795 e tornò subito al paese natale, poi si recò a Torino, indi a Rivoli, dove si trattenne dal 15 al 27 ottobre. Partì quindi per La Morra, dove si trovava la famiglia Roggeri, alla quale era legato da antica amicizia, e vi trascorse l'intero mese di novembre, finché decise di lasciare il Regno sardo e di stabilirsi in Svizzera. Ma anche da Lugano seguiva affettuosamente il giovane Rigoletti, raccomandandogli, ancora l'8 dicembre di non trascurare gli studi. Il B. trascorse così quell'inverno tra i laghi elvetici e i ghiacciai del San Gottardo, a cospetto di una natura severa, in una solitudine che induceva alla malinconia e alla meditazione, finché fu nominato nel giugno 1796 medico militare dell'armata francese delle Alpi con una sistemazione economica e di prestigio abbastanza soddisfacente. "Gli ufficiali di sanità primari del nostro esercito", scriveva da Gap il 5 luglio 1796 all'amico Rigoletti, "mi significarono per lettera che sarò presto mandato altrove ma non so dove. Forse più vicino a voi, chi sa! potrebbe darsi. Non so, ma il cuore mi balza in petto dal giubbilo [sic]. Sarebbe bella chavessi a vedere il tuo dolce amico andare attorno come capo di battaglione. Signor sì, capo di battaglione: che tanto importa la qualità di medico militare. Sono gli stessi diritti, lo stesso salario, gli stessi onori". E come medico militare il B. si spostò nell'estate del '96 a Susa, per trasferirsi poi a Milano, e, infine, a Pavia.
Intanto il 27 settembre dello stesso 1796 l'Amministrazione generale della Lombardia (che aveva sostituito l'Agenzia militare soppressa il 26 ag. precedente) bandiva il concorso sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia?, vinto, com'è noto, secondo la decisione della commissione giudicatrice del 26 giugno 1797, da Melchiorre Gioia. Si ritiene tradizionalmente che il B. abbia partecipato al concorso: in realtà, tale partecipazione, come ha scritto recentemente A. Saitta, "non è comprovata da alcuno dei pochi documenti superstiti del concorso stesso; essa è stata negata da Luigi Palma [I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia, 1º dicembre 1891, p. 446]... (il quale) tuttavia ritiene che la dissertazione abbia pur sempre tratto ispirazione dal quesito proposto". Lo scritto del B., dal titolo Proposizione ai Lombardi di una maniera di governo libero, di complessive 381 pagine, stampato a Milano, nella Stamperia di S. Ambrogio, nel 1797, ripubblicato pochi anni dopo la morte del B. con il titolo Pensieri politici (Italia 1840, pp. 294), è stato riedito recentemente da A. Saitta (Alle origini del Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso, Roma 1964, vol. I, pp. 7-171).
Nello scritto è costante la preoccupazione del B. che la Lombardia riesca a darsi una costituzione propria, che non sia "servile imitazione", ma "libera e sciolta creazione", anche se ispirata ai principî della rivoluzione francese "che sono verissimi". "Il Consiglio dei Quaranta convocato in Milano generalmente mi pare composto d'uomini assennati e probi (scriveva il B.)... osino qualche cosa di nuovo. Osino camminare colle proprie gambe. Osino slattarsi" (pp. 26-27). Le diversità essenziali fra la costituzione francese e la futura costituzione lombarda dovevano riguardare due problemi della massima importanza: la religione e l'"autorità del popolo". Quanto al primo la Lombardia avrebbe dovuto assumere un atteggiamento meno drastico e più conciliante, perché la religione, non perseguitata, non sarebbe stata intollerante; quanto al secondo avrebbe dovuto lasciare uno spazio maggiore di quanto non era stato fatto in Francia alla rappresentanza popolare ("Fra i Lombardi si allargherà di più l'autorità del popolo, la quale nella costituzione dei Francesi è in troppo angusti limiti ristretta").
La Lombardia avrebbe dovuto essere divisa in municipi, tutti, all'incirca, di una medesima grandezza. Ogni prima domenica di maggio si sarebbero dovuti riunire, nella chiesa più spaziosa della città, i comizi e i cittadini che avessero compiuto 20 anni avrebbero proceduto all'elezione di 30 senatori. Contemporaneamente ogni municipio avrebbe dovuto procedere anche all'elezione di un tribuno del popolo: fra i 30 tribuni eletti ne sarebbero stati sorteggiati due che avrebbero avuto effettivamente quella qualifica. Delle due supreme autorità della repubblica - il Senato e il Tribunato -, il primo avrebbe dovuto "fare le leggi" e il secondo "vigilare indefessamente acciocché il popolo non riceva verun danno". Ed era su quest'ultima magistratura che il B. insisteva particolarmente, sottolineando che in un governo libero il legislatore, anche se eletto dal popolo, non può essere lasciato arbitro di danneggiare coloro che lo hanno eletto. "Il nominare ne' comizi gli suoi delegati è un esercitare un vero atto di sovranità, che gli appartiene, ma da quel momento in poi ei diventa affatto passivo, e inoperoso. La qual cosa è assai strana; imperciocché il commettitore diventa servo del commesso. Che cosa si direbbe di un Re, il quale dopo di essersi nominato un ministro cessasse affatto le funzioni appartenenti alla Realtà, e fosse contento di fare tutto il piacere di esso ministro?". Onde la necessità delle due diverse magistrature, l'una volta a fare il bene, l'altra a impedire il male, l'una creatrice ed attiva, l'altra repressiva, l'una "ordinatrice", l'altra "conservatrice" della felicità del popolo.
In un governo veramente libero gli "umori e le dissensioni" non soltanto erano inevitabili ma utili alla cosa pubblica, come erano inevitabili i contrasti sociali fra la plebe e gli ottimati. "In uno stato libero deve, e non può non esistervi una certa divisione fra la plebe e gli ottimati. Questa salutare divisione fa che l'uno l'altro osservi, acciocché né l'uno né l'altro attenti alle pubbliche libertà". Per evitare, però, che lo "stato di guerra" tra le due classi passasse dallo stato latente a quello attuale, era indispensabile, per il B., procedere a una distribuzione di terre che potesse alleviare la miseria e l'indigenza delle classi umili. Se tutta la proprietà fondiaria della Lombardia fosse stata divisa in parti uguali, a ciascuna famiglia sarebbe toccata terra pari a un estimo di 750 lire; senza voler pareggiare meccanicamente tutte le proprietà, sarebbe stato possibile attribuire una certa estensione di terra a ogni famiglia bisognosa.
"Io intendo solamente dire che dai beni della nazione e, se questi non potessero bastare, dei ricchissimi, ai quali sarebbe certamente insensibile sottrazione, se ne sottraesse una certa quantità da dividersi in tante parti, ciascuna delle quali si desse a coloro che più ne hanno bisogno o per la loro assoluta povertà o per la numerosa famiglia o per l'infermità del corpo loro... Io crederei che si dovesse concedere a ciascuna famiglia bisognosa tanto di terra, che profittasse, annualmente a tenore dell'estimo fatto 300 lire, supponendo però che la medesima terra venga coltivata colle proprie mani dalla stessa famiglia. In questa maniera delle 750 lire che per l'uguaglianza naturale toccherebbono a ciascheduna famiglia abitante nella Lombardia, 300 le sono in realtà destinate, e le altre 450 ... andrebbono a formare quella disuguaglianza ch'esisterebbe ancora fra le facoltà dei cittadini" (pp. 106-113).
Nello stesso 1797 il Bonaparte inviò nell'isola di Corfù, ancora sotto la sovranità della Repubblica veneta, una spedizione, della quale faceva parte, come medico militare, il B., che da questa esperienza trasse argomento per uno scritto pubblicato al suo rientro in Italia (Storia naturale e medica dell'isola di Corfù, Milano 1798). Da Milano il B. si portò in Piemonte; qui, dopo la sconfitta delle forze sabaude, si era costituito un governo provvisorio, di cui entrò a far parte (dicembre '98) come segretario della Pubblica istruzione, progettando la riforma di alcune facoltà universitarie. Ma pochi mesi dopo la piccola repubblica piemontese, timorosa e insicura, decise l'annessione alla Francia (aprile 1799).
La generale situazione politico-militare, sfavorevole per la Francia, e la restaurazione dei Savoia costrinsero il B. all'esilio. Ma per la non celata ostilità del governo francese nei confronti degli esuli, il B. lasciò presto Parigi. Com'è noto, infatti, nei rapporti fra repubblicani italiani e francesi si passò da una prima fase, in cui le speranze nel governo e nell'armata francese erano piene e totali, a una fase, che va dal 1797 al '99, in cui si andò rapidamente facendo strada una delusione profonda che portò, da un lato, a un progressivo avvicinamento dei repubblicani italiani agli exagérés e, dall'altro, ad un netto distacco tra gli stessi repubblicani e la Francia del Direttorio. L'idea unitaria e repubblicana divenne la posizione di gran lunga prevalente fra i "patrioti" italiani, e il terreno d'incontro (come è stato scritto) con i rivoluzionari francesi. In questo clima nacque la petizione al Consiglio dei cinquecento per una soluzione unitaria per l'Italia (luglio 1799) che il B. firmò per primo. Nel mese successivo era a Grenoble come medico militare. Quivi fu incaricato di far parte della commissione che distribuiva i soccorsi agli esuli piemontesi rifugiatisi a Grenoble, ma non accettò. "Io ringrazio la Commissione dei soccorsi ch'abbia avuto fidanza in me (scrisse all'amico Giuseppe Cavalli il 9 agghiacciatore [frimaio, cioè 30 novembre del 1799]) mettendo a mia disposizione lire 800 per soccorrere i patriotti piemontesi di Grenoble, Gap, Chambéry e Briançon. Ma non posso accettare un simile incarico e ti prego di pregar da parte mia essa Commissione perché me ne dispensi. Conosco questo genere irritabile e so che spesso non sarebbono contenti del mio arbitrio. Inoltre sono occupatissimo ne' miei studi e proseguisco certe idee che mi vanno per la mente le quali voglio raccogliere ed ordinare...". Lo studio cui il B. alludeva era, come informa il Bersano che pubblica anche la lettera sopra riportata (1958, p. 372), il Mémoire sur la doctrine de Brown, edito infatti a Grenoble, e riedito negli Scritti minori raccolti poi dal Dionisotti nel 1860.
Da Grenoble, dove era anche membro della Società medica e socio del liceo delle scienze e delle arti, il B. si trasferì ad Aix, in Savoia, dove prestò servizio nel locale ospedale e dove conobbe Antonietta Viervil che sposò il 9 giugno 1800 (dal matrimonio nasceranno tre figli maschi: Scipione, Paolo e Cincinnato). Sul colpo di stato del 18 brumaio del Bonaparte il giudizio del B. era stato assai cauto: "Circa la rivoluzione del 18 - scrisse al Cavalli - se saran rose fioriranno": Ma dopo Marengo e con il ritorno dei Francesi in Piemonte ebbe inizio un periodo di intensa attività politica del B.: divenne prima membro della Consulta piemontese; poi, insieme con Carlo Bossi e Carlo Giulio, entrò a far parte della Commissione esecutiva (4 ott. 1800-19 apr. 1801); infine fu dei sei membri del Consiglio di amministrazione e del Consiglio di sorveglianza per la Pubblica istruzione. Ma questo consiglio sull'istruzione pubblica, che corrispondeva all'antico Magistrato della riforma, venne sottoposto a inchiesta sotto l'accusa di cattiva amministrazione dei fondi, e l'inchiesta venne affidata a una commissione guidata dal Cavalli, che era stato (ma non era più) amico del Botta. Questi, poi riconosciuto innocente, venne subito privato dell'incarico, che fu affidato a Prospero Balbo, in linea con una politica che mirava piuttosto a guadagnare elementi già ostili anziché a utilizzare dei patrioti di antica data.
Il B. entrò nel Corpo legislativo francese nel 1802 e vi rimase circa due lustri. Durante questi anni di permanenza a Parigi, in una relativa tranquillità economica, pubblicò successivamente la traduzione della Monacologia (1801), il Précis historique de la Maison de Savoie et du Pièmont (1802), alcuni scritti minori, fra il 1803 e il 1806, più tardi raccolti (come si è già detto) dal Dionisotti, e iniziò una delle sue opere storiche di maggiore impegno, la Storia della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, che fu pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1809, ristampata con alcune correzioni dell'autore dieci anni più tardi a Milano (e da allora più volte riedita: Milano, Niccolò Bettoni, 1820; Milano, Borroni Scotti, 1844-1845; Firenze, Le Monnier, 1856) e tradotta in francese e anche in inglese, il che le permise una certa diffusione in America dove venne generalmente accolta con favore. Sempre a Parigi, nel 1824, il B. pubblicò la Storia d'Italia dal 1789 al 1814, che ebbe numerosissime ristampe ed anche una traduzione in francese.
La Storia della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, che si compone di 14 libri, è divisa in tre parti. La prima, comprendente i primi quattro libri, è un rapido riepilogo delle vicende del continente americano dallo sbarco dei padri pellegrini ai precedenti immediati del conflitto fra le colonie inglesi e la madrepatria; la seconda, dal 5º libro al 10º, giunge alla dichiarazione d'indipendenza del 4 luglio 1776; infine la terza arriva, in quattro libri, alla conclusione della guerra.
Il leitmotiv dell'opera è costituito dall'amore per la libertà, che avrebbe sempre caratterizzato la società americana dal sorgere delle prime colonie nel nuovo mondo fino al distacco dalla madrepatria. Il genere di vita dei coloni, il lavoro agricolo cui si dedicavano, che li poneva a contatto immediato con la natura, le stesse credenze religiose contribuivano potentemente a rafforzare nel loro animo una consapevole difesa del loro vivere liberi. "Vivendo e dilettandosi nella vita contadina, sotto i propri occhi, dalle sue proprie terre e spesso per le sue mani, il colono vede nascere, crescere, prosperare tutte le cose al vivere dell'uomo necessarie, e perciò trovavasi fuori di ogni soggezione e dipendenza; vivendo sparsi qua e là nei campi, crebbe l'amore tra i membri della medesima famiglia..." (libro IV, p. 176).
Il rappresentante di questo diffuso sentimento di libertà, eroe positivo per eccellenza, era Giorgio Washington, polemicamente contrapposto a Napoleone, come la rivoluzione americana era contrapposta alla rivoluzione francese. La narrazione, basata su una attenta utilizzazione di carte topografiche, di diari, di una vasta pubblicistica inglese e francese, oltre che americana, abbonda anche di descrizioni di battaglie e di discorsi più o meno arbitrariamente attribuiti a vari personaggi. Queste ultime caratteristiche sono state spesso addotte a sostegno della tesi che il B. abbia tentato, come ha scritto il Croce, una restaurazione anacronistica della storiografia umanistica, rivolta da un lato contro la storiografia illuministica e dall'altro contro quella ottocentesca e romantica. "Le opere di C. B. (si può leggere nella Storia della storiogr. ital. I, p. 73) sono da considerare non già come sopravvivenza del secolo precedente, ma anzi come tentativo di restaurazione dell'antico contro il secolo precedente e contro il nuovo. Col qual ultimo le storie del B. avevano comune l'ispirazione patriottica, tutto frementi amore d'Italia e tutto piene dei dolori e sciagure e altresì degli atti magnanimi del ventennio rivoluzionario-imperiale, sicché parlavano al cuore dei vecchi e degli ancor giovani sopravviventi di quel periodo. E anche rispondevano, a modo loro, agli atteggiamenti letterari del risvegliato sentimento nazionale; i quali presero in Italia due forme, l'una più cospicua e addirittura grandiosa, che fu il romanticismo, l'altra, assai angusta, il purismo".
Al Maturi è sembrato invece che il B. riecheggiasse e facesse propri in larga misura motivi e stati d'animo tipici dell'illuminismo, quali l'esaltazione di "eroi" come Pasquale Paoli e Giorgio Washington, l'avversione per la "gloria" (e quindi la polemica contro Napoleone), l'esaltazione dell'America. Si trattava però (aggiungeva opportunamente il Maturi) di un illuminismo conservatore, alla Metternich e non di un illuminismo innovatore, alla Voltaire, di un illuminismo, cioè, che non agiva più nel suo ambiente naturale - il secolo XVIII - ma, spostato nel mondo della Restaurazione, si caratterizzava in modo diverso. Comunque il Maturi limitava questo giudizio, relativo al carattere illuministico della storiografia del B., a due opere, e precisamente alla Guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America e alla Storia d'Italia dal 1789 al 1814.
I ventisette libri che compongono questa seconda opera sono divisi in due parti; la prima va dallo scoppio della rivoluzione all'incoronazione di Napoleone I a imperatore (1804), la seconda giunge fino al congresso di Vienna (1814). Alle vicende di quel quarto di secolo di vita italiana il B. aveva direttamente partecipato e spesso, quindi, la narrazione finisce per avere un evidente sapore autobiografico. La premessa polemica è l'esaltazione del riformismo italiano del Settecento contrapposto agli sconvolgimenti successivi (è stato fatto di frequente, a questo proposito, il richiamo all'inizio della Storia d'Italia di Guicciardini e alla iniziale esaltatione della situazione esistente nella penisola prima del 1494). L'ingresso dei Francesi in Italia avrebbe avuto, pertanto, l'effetto eminentemente negativo di interrompere un ordinato e pacifico rinnovamento fondato sulla conoscenza delle particolari esigenze italiane, per sostituirvi un modello politico astratto, sostenuto dalle armi francesi e dagli "utopisti" italiani. Questo rimpianto per i principî riformatori (il B. esalta soprattutto le riforme economiche, legislative ed ecclesiastiche dei maggiori sovrani settecenteschi, da Giuseppe II a Leopoldo di Toscana) era un motivo comune a larga parte della cultura italiana tra Sette e Ottocento (si pensi soltanto al giudizio nettamente positivo di Pietro Verri sul governo di Maria Teresa nella Storia dell'invasione dei Francesi repubblicani nel Milanese) e resterà in buona parte della storiografia moderata ottocentesca, a cominciare dal Manzoni. Ma quel che qui importa sottolineare è il giudizio del B. sugli "utopisti" e sulle loro responsabilità politiche, in una pagina che il Maturi non esitava a definire "la più bella della sua Storia"; e non soltanto per l'indubbio valore di testimonianza autobiografica che possiede: "...per la lettura dei libri dei filosofi di Francia era sorta una setta di utopisti, i quali, siccome benevolenti ed inesperti di queste passioni umane, credevano essere nat'una êra novella, e prepararsi un secol d'oro. Costoro, misurando gli antichi governi solamente dal male che avevano in sé, e non dal bene, desideravano le riforme. Questa esca aveva colto i migliori, i più generosi uomini, e siccome le speculazioni filosofiche, che son vere in astratto, allettavano gli uomini, così portavano opinioni che a procurar l'utopia fra gli uomini non si richiedesse altro, che recare ad atto quelle speculazioni, persuadendosi, certo con molta semplicità, che la felicità umana potesse solo, e dovesse consistere nella verità applicata...". Questo atteggiamento astratto e intellettualistico si era manifestato anche dopo la caduta di Napoleone I, allorché l'Italia, invece di ritornare alle riforme del Settecento, tentando di riannodare i fili di quell'esperienza bruscamente interrotta, aveva di nuovo cominciato a guardare ad altri paesi europei e a desiderare non già le riforme concesse dai principi, ma le costituzioni sul modello spagnolo, inglese o francese. Anche l'Italia della Restaurazione, insomma, non aveva saputo guardare in se stessa per trarre dalle sue tradizioni politiche un'indicazione per le scelte future, ma si era illusa (al pari dell'Italia giacobina) di poter applicare formule nate in contesti culturali e politici del tutto diversi.
La Storia d'Italia dal 1789 al 1814 rappresenta, secondo un giudizio largamente condiviso, l'opera di maggiore impegno del Botta. Le stesse polemiche cui diede luogo confermano l'interesse che suscitò. Alcuni si limitarono a qualche modesta messa a punto riguardante taluni avvenimenti particolari oppure a un generico invito a un'attenta rilettura dell'opera. Il conte G. Paradisi, per esempio, autore di una Lettera al signor C. B., pubblicata nel volumetto Alcune osservazioni critiche sulla storia d'Italia, invitava il B. a riesaminare la Storia d'Italia, "ripigliarla sott'occhio e ripurgarla con lunga e sostenuta attenzione. Imperciocché troppo gran danno sarebbe che tanta filosofia si reggesse sopra sistemi lavorati dall'immaginativa, e se alla squisitezza dell'elocuzione non rispondesse né la certezza de' fatti, né l'accurata sincerità di rapportarli" (p. 32).Di ben diverso peso le obbiezioni che all'opera mosse Luigi Blanch in alcune pagine ancora inedite, di cui il Croce pubblicò le conclusioni (L. Blanch, Scritti storici a cura di B. Croce, Bari 1945, II, pp. 298-302).In netto contrasto con le tesi del B., il Blanch dava una valutazione positiva dell'influenza della rivoluzione francese in Italia e dell'opera di Napoleone non soltanto come capo militare ma anche come principe civile; egli impostava inoltre in modo del tutto nuovo, che sarebbe stato poi largamente recepito dalla successiva storiografia, il problema delle riforme del '700, cioè del tipo di stato, assoluto o costituzionale, cui esse avrebbero condotto dopo l'abolizione dei privilegi.
Il B. che, dopo la prima caduta di Napoleone, si era ritirato dalla vita pubblica, vi fu di nuovo coinvolto con il ritorno dell'imperatore e fu nominato rettore dell'università di Nancy. Il rientro di Luigi XVIII sembrò accantonarlo definitivamente, ma nel 1817 divenne rettore a Rouen (carica che conservò fino al 1822); fu riammesso all'Accademia delle Scienze e, nel 1833, venne persino insignito della Legion d'onore. L'anno prima era uscita a Parigi, per i tipi di Baudry, la sua ultima opera, la Storia d'Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789, scritta tra l'aprile del 1826 e l'ottobre del 1830, e riedita numerose volte: Capolago 1833-34, Lugano 1835, Palermo 1835, Milano 1843-44.
Si tratta di una narrazione annalistica, assai particolareggiata, divisa in 50 libri, che ha inizio con il 1534, anno della morte di Clemente VII e dell'ascesa al pontificato di Paolo III, e giunge al 1789. La lunga prefazione, che porta la data 2 febbr. 1832, è particolarmente significativa per un giudizio sul B. storico, perché lo scrittore si impegnò in una discussione di carattere metodologico e in un giudizio articolato su alcune grandi correnti storiografiche, dai quali non potrà prescindere chi vorrà comprendere la sua maniera di ricostruire il passato, cioè la sua storiografia.
Gli storici vengono raggruppati dal B. in "patrioti" ("che più che alla verità servono al pensiero di eccitare fra i concittadini l'amore della patria per animargli ad alti fatti in pro di lei, o che si tratti per la libertà o per la potenza"), in "morali" (il cui principale proposito è di "muovere gli affetti o verso il bene o contro il male") e in "naturali o positivi" (che "descrivono colla medesima freddezza un atto atroce come un atto benefico... capaci di giustificare chi vince a torto solo perché vince, e di dannare chi perde solo perché perde"). Tra i primi sono ricordati Tito Livio e Bembo, fra i secondi Tacito, fra gli ultimi Machiavelli e Guicciardini. Nonostante il chiaro giudizio positivo sui due storici del Cinquecento per la loro capacità di considerare "la natura umana quale ella è, non quale dovrebbe essere", di penetrare "nella fogna dell'animo umano molto addentro" e di conoscere quanto c'è in esso "di brutto e di vile", pure è indubbio che il modello cui il B. si ispira è Tacito, perché lo scrittore piemontese considera il giudizio "morale" in uno storico di gran lunga più importante dell'acutezza e della fedeltà della narrazione. Esplicitamente, del resto, il 27 sett. 1822 scriveva al conte Littardi, suo generoso mecenate, che non avrebbe mai accettato di limitarsi a "far la parte del semplice narratore" e che "...uno storico che non esalta la virtù e non fulmina il vizio, farebbe meglio tacersi, né merita certamente il nome di storico". Questo moralismo spicciolo, che gli veniva rimproverato anche da storici come il Capponi, certo non inclini alla glorificazione dell'accaduto, costituisce forse il maggiore limite del B. storiografo, che resta su un piano astratto anche quando, ancorato a una visione illuministica, riduce il Medio Evo a "ignoranza, forza e barbarie" o quando crede di aver trovato la radice dei mali della società nei "sofisti", o "raffinatori delle idee" che "hanno perduto la libertà greca, hanno perduto la libertà latina e perderanno la libertà europea se coloro che recte sapiunt non sono valevoli ad oppor loro un argine bastante". Questa polemica contro le "lambiccature", le "astruserie", le "sottigliezze" si accompagnava ad una polemica parimenti decisa contro coloro che volevano ricostruire il passato "spillando" gli archivi. "So che è di moda lo spillar gli archivi (scriveva il 19 marzo 1834 ad Aurelio Bianchi Giovini)... ma questi spillatori, se si dee giudicare da quanto hanno fatto fino adesso, da quel che faranno dopo, potranno bensì scoprire qualche minuzia nuova, di un dito mosso piuttosto da una parte che dall'altra, ma non cambiare i caratteri dei grandi avvenimenti conosciuti, ed a cui l'età contemporanea pose il sigillo. L'età gli conobbe meglio degli archivi, l'età ch'è il testimonio di vista e d'udito, testimonio vivente... Io mi rido di coloro che pretendono di mettere sottosopra, cogli archivi, la storia dei tempi passati...".
La storiografia del B., lontana sia dalla ricostruzione filosofica (gran merito del Denina era, infatti, aver adattato "i pensieri ai fatti e non i fatti ai pensieri") sia dalla paziente opera di scavo archivistico, resta caratterizzata dal costante moralismo e da un accurato culto della bella prosa ornata, che costituiva l'aspetto letterario del patriottismo del Botta. Il suo pensiero politico presenta, come è stato più volte rilevato, delle forti e contrastanti oscillazioni che vanno dai progetti di riforma agraria della Proposizione ai Lombardi agli atteggiamenti anticostituzionali e antiliberali della Storia d'Italia continuata da quella del Guicciardini. Queste oscillazioni sono proprie dell'Italia tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, fra il giacobinismo e la Restaurazione. Sarebbe perciò erronea una rilettura che interpretasse certe prese di posizione del B. storico (contro gli "spillatori" di archivi, per esempio) o del B. politico (le polemiche contro le astruserie degli intellettuali) come anticipazioni di soluzioni future, mentre possono essere storicamente intese soltanto nel loro naturale contesto culturale e politico.
Negli stessi mesi nei quali il B. stava portando a termine la sua ultima opera a Parigi, la capitale francese assisteva alla caduta di Carlo X e all'ascesa di Luigi Filippo. Una nuova speranza si accese allora nel B. anche per il suo Piemonte e da questo stato d'animo nacque prima, nel 1831, la lettera a Carlo Alberto (che gli conferì una pensione annua e un'alta onorificenza) e poi, l'anno successivo, una permanenza di circa due mesi (settembre-ottobre 1832) in patria. Ma alla fine dell'ottobre il B. ritornò a Parigi, dove morirà il 10 agosto 1837. Da Parigi le sue spoglie vennero portate a Firenze, in Santa Croce, nel 1875, assecondando un voto che era stato formulato per primo dal Dionisotti nel 1842.
Tra gli scritti del B. si possono ancora ricordare: Il Camillo o Veio conquistato, Parigi 1915, e Torino 1833; Risposta di C. B. alle opposizioni del conte Paradisi e del marchese Lucchesini alla sua "Storia d'Italia", Modena 1826; Storia dei popoli italiani dall'anno 300 dell'era volgare fino all'anno 1789, Livorno 1826, e Venezia 1836.
Scritti sparsi, anche di argomento medico, vennero pubblicati da C. Dionisotti (Scritti minori di C. B., Biella 1860) e da altri studiosi più recentemente (Scritti musicali,linguistici e letterari, a cura di G. Guidetti. Reggio Emilia 1914).
Fonti eBibl.: Le prime pubblicazioni di lettere del B. si ebbero pochi anni dopo la sua morte (Lettere di C. B., a cura di P. Viani, Torino 1841; Lettere inedite e rare, a cura di F. Trinchera, Vercelli 1858); ne seguirono altre (12 lettere di C. B., a cura di G. Campori, Bologna 1867; Lettere di C. B. al conte T. Littardi, Genova 1873; Lettere inedite di C. B., a cura di P. Pavesio, Faenza 1875; Lettere inedite di C. B.,Ugo Foscolo e Vincenzo Cuoco, Torino 1894; Lettere ined. di C. B., con prefazione e note di C. Magini, Firenze 1900) che sono tutte elencate da C. Salsotto nel volume Le opere di C. B. e la loro varia fortuna. Saggio di bibl. critica con lettere ined., Roma-Torino-Milano 1922 (già apparso sulla rivista Il Risorg. italiano tra il 1916 e il 1922), al quale rimandiamo anche per maggiori notizie sulle numerose edizioni degli scritti del Botta. Il Salsotto avrebbe dovuto darci un'edizione completa delle sue lettere ma morì prima di portare a termine il disegno; tutto il materiale (come avverte il Maturi) si trovava fino al 1943 nelle mani di G. Prezzolini. Più recenti notizie leggiamo in A. Bersano, Il fondo Rigoletti dell'epist. di C. B. (in Boll. storico-bibliogr. subalpino, LVI [1958], pp. 351-379): "(La pubblicazione dell'epistolario di C. B.) fu in anni più recenti prossima alla realizzazione quando la Columbia University di New York e per essa G. Prezzolini con grande larghezza di mezzi curarono la raccolta di migliaia di lettere in autografi o copie: il fondo Flechia è passato così a New York. Tutto il materiale raccolto è ora colà accantonato e non è utilizzabile senza una stretta cooperazione italo-americana".
Per una bibliografia sul B. bisogna ancora ricorrere al citato volume del Salsotto, integrato dalle indicazioni di W. Maturi (Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiogr. Prefazione di E. Sestan. Aggiornamento bibliografico di R. Romeo, Torino 1962, pp. 36-91 e 771). I primi tentativi di tracciare un profilo biografico del B. sono costituiti dalle commem. di M. Baldacchini (nel Progresso di Napoli, VI [1837], pp. 152-155), di E. De Magri (nella Riv.europea, I [1838], pp. 477-522), e di F. Becchi (Elogio di C. B., in Florilegio di eloquenza ital., Pistoia 1839, pp. 405-437). Di ben altro rilievo il volume di C. Dionisotti, Vita di C. B., Torino 1867, che resta fondamentale, pur con le successive precisazioni e integrazioni (per il periodo "giacobino", per esempio, sono molto importanti le pagine del Bersano nel citato articolo sul fondo Rigoletti).
Di utile consultazione, per notizie biografiche, G. A. Rocca, Della vita e degli scritti di C. B., Genova 1878. Più recenti profili del B. si devono a V. Piccoli (C. B.,nel centenario della morte, in Nuova Antologia, 16 ag. 1937, pp. 474 ss., a G. Getto (C. B., in Convivium, Racc. nuova [1948], pp. 370-379), a F. Boneschi (C.B., in Idea, XXII [1966], pp. 93-97). Si ricordano inoltre la pubblicazione celebrativa Nel secondo centenario della nascita di C. B., Torino 1966, nonché le significative pagine dedicate al B. da E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letter. ital. Garzanti, VII, Milano 1969, pp. 225-28.
Su B. storico, a parte le polemiche dei contemporanei (ci limiteremo a segnalare le citate Alcune osservazioni critiche sulla storia d'Italia scritta dal signor C. B., Fiesole 1825, che contengono una Lettera del conte G. Paradisi a C. B., pp. 9-32, e un Estratto dall'opera intitolata Note perpetue alla storia del signor C. B., pp. 35-36; I. Peschieri, Ragionamento critico sulla Storia d'Italia dal 1789 al 1815 scritta da C. B.,con la traduzione di quanto scritto su di essa nei giornali di Francia e alcune risposte dell'autore, Italia 1825), è sempre da tener presente, pur con tutte le riserve sul metodo seguito dall'autore nella formulazione dei giudizi storiografici, P. Pavesio, C. B. e le sue opere storiche. Con append. di lettere ined. ed un ragguaglio intorno all'opera del B., Firenze 1874. Di fondamentale importanza, naturalmente, le pagine dedicate al B. dal Croce (Storia della storiografia ital. nel secolo decimonono, Bari 1947, I, pp. 73-84) e quelle, più volte citate, di W. Maturi.
Per una migliore conoscenza dell'ambiente politico piemontese nel quale operò il B. e dei rapporti fra gli esuli italiani e la classe politica francese si rinvia a G. Vaccarino, Annessionismo e autonomia nel Piemonte giacobino dopo Marengo, in Studi in mem. di G. Solari, Torino 1954, pp. 273-326 (in partic., per la "conversione annessionista" del B., cfr. pp. 316 ss.) e, soprattutto, I patrioti "anarchistes" e l'idea dell'unità italiana (1796-1799), Torino 1955, e ad A. Bersano, L'abate F. Bonardi e i suoi tempi: contributo alla storia delle società segrete, Torino 1957 (autore, quest'ultimo, anche di una precisa messa a punto riguardante un momento di particolare rilievo nella vita politica del B.: Perché il B. nel1814 non tornò in patria, in Boll. storico-bibliografico subalpino, LVIII [1960], pp. 365-368).