Carlo Botta
Scienziato, medico militare, militante giacobino impegnato come amministratore pubblico nel ‘triennio democratico’, poi notabile napoleonico, infine esule volontario nella Francia della Restaurazione, noto soprattutto come storico del suo tempo, il piemontese Carlo Botta è stato uno degli autori di storia più letti dell’Ottocento, almeno fino all’Unità d’Italia. Amato dai democratici, sebbene egli fosse un giacobino pentito approdato a un conservatorismo moderato, Botta è considerato il prototipo dello storico ‘patriottico’ sulle cui pagine si sono formati decine di futuri patrioti e protagonisti di primo e secondo piano del Risorgimento. Bollato da Benedetto Croce come «storico anacronistico», a lungo dimenticato, è stato rivalutato solo in anni recenti.
Nasce a S. Giorgio Canavese il 6 novembre 1766. Laureatosi in medicina a Torino nel 1786, con un’innovativa tesi di musicoterapia, entra presto in contatto con i gruppi repubblicani. Sospettato di un complotto repubblicano, viene arrestato e incarcerato fra il 1794 e il 1795; liberato si rifugia a Lugano per alcuni mesi e nel giugno 1796 si arruola come medico militare nell’Armée d’Italie rientrando in Italia al seguito di Napoleone Bonaparte.
Nel 1797 pubblica a Milano la Proposizione ai Lombardi di una maniera di governo libero nella quale propone un modello di governo ricalcato sulle antiche istituzioni romane, mantenendo tuttavia un ruolo alla religione e attribuendo un peso notevole alla rappresentanza popolare. Alla fine dello stesso anno partecipa come medico militare alla spedizione francese nell’isola di Corfù, ancora sotto la giurisdizione veneta, traendone materia per una Storia naturale e medica dell’isola di Corfù (1798).
Rientrato in Italia, è attivo a Milano e poi in Piemonte, sempre al seguito dell’esercito francese. Nel dicembre del 1798, caduta la monarchia sabauda, entra a far parte del governo provvisorio repubblicano come segretario della Pubblica istruzione. Con l’annessione del Piemonte alla Francia si reca a Parigi da dove sostiene l’ipotesi di un’unificazione dell’Italia sotto un governo repubblicano autonomo dalla Francia. Nel 1799 è a Grenoble come medico militare a curare l’accoglienza dei profughi piemontesi espatriati dopo l’occupazione austro-russa; di qui, nel 1800, si sposta ad Aix per lavorare nell’ospedale. Rientrato in patria dopo la vittoria di Napoleone a Marengo, è chiamato a far parte prima della Consulta piemontese; poi, insieme con Carlo Bossi e Carlo Giulio, della Commissione esecutiva (4 ottobre 1800-19 aprile 1801); infine del Consiglio di amministrazione e del Consiglio di sorveglianza per la Pubblica istruzione, dedicandosi alle riforme del sistema scolastico. Nel 1802 è eletto deputato nel Corpo legislativo francese di cui fa parte fino al 1814, divenendone vicepresidente nel 1808. Negli anni parigini pubblica il Précis historique de la Maison de Savoie et du Pièmont (1802), e inizia a comporre la Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, conclusa e pubblicata nel 1809.
Caduto Napoleone nel 1814, Botta è privato di ogni incarico, ma rientra in campo nei ‘cento giorni’ quando è nominato per poche settimane rettore dell’Università di Nancy. Rimasto a Parigi anche dopo la definitiva sconfitta di Napoleone e la Restaurazione della monarchia, nel 1817 viene nominato da Luigi XVIII rettore dell’Università di Rouen, carica che manterrà per cinque anni, quindi è riammesso all’Accademia delle Scienze e insignito della Legion d’onore.
In questi anni si dedica alla stesura della sua opera più importante, non priva di elementi autobiografici: la Storia d’Italia dal 1789 al 1814, pubblicata a Parigi nel 1824. Nel 1832 pubblica l’ultima sua fatica, la Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789, che sarà riedita più volte in tutta la prima metà del secolo. Punto di riferimento della vivace comunità italiana di Parigi, per lo più composta da esuli politici, nonostante la fama conquistata Botta vive gli ultimi anni in ristrettezze economiche. Dopo l’avvento al trono piemontese di Carlo Alberto, nel 1831, riallaccia i rapporti con i suoi compatrioti recandosi in Piemonte per alcuni mesi nel 1832. Rientrato a Parigi, Botta muore il 10 agosto 1837. Le sue spoglie saranno tumulate a Firenze in Santa Croce nel 1875.
Le tre stagioni in cui è suddivisa la vita di Botta – che potremmo così scandire: il militante rivoluzionario (1794-1802); il notabile napoleonico (1802-15); l’espatriato (1816-37) – sono percorse da un filo di coerenza maggiore di quanto non possano indurci a credere le profonde svolte che la segnano. Botta rimane infatti per tutta la sua esistenza un democratico e un repubblicano convinto e, sebbene prenda le distanze prima dal radicalismo rivoluzionario della sua giovinezza, poi dalla sua adesione all’avventura napoleonica, spostandosi su posizioni via via più moderate, mantiene sempre una coerente posizione liberale senza mai trasformarsi in un conservatore o in un reazionario.
Per comprendere appieno il Botta uomo d’azione e storico non si può non tenere conto della sua formazione scientifica e dei contributi da lui forniti alla scienza prima di votarsi completamente alla storiografia. Discendente di una famiglia che annoverava cinque generazioni di medici, egli riflette infatti nella sua formazione la cultura settecentesca della borghesia delle professioni, capace di fondere tradizione classica e curiosità scientifica. Le sue idee progressiste maturano entro gli ambienti scientifici piemontesi di fine Settecento che lo vedono – al fianco di Carlo Giulio e Giovanni Antonio Giobert – attivo collaboratore di periodici come il «Giornale scientifico, letterario e delle arti» (1789-90) e i «Commentarii bibliografici» (1792), con articoli di medicina, botanica e agronomia. Non è infatti un caso che una delle sue prime opere sia la Storia naturale e medica dell’isola di Corfù che non è solo un testo scientifico, ma un interessante reportage naturalistico ed etnografico sull’isola greca, ispirato ai migliori modelli delle corografie illuministiche e agli scritti degli idéologues; in questo stesso periodo egli approfondisce anche la sua passione per la musica e in particolare per la musicoterapia, di cui sperimenta di persona i risultati negli ospedali militari francesi.
Il suo esordio politico – dopo l’arresto, la carcerazione e l’arruolamento nell’armata francese – è consegnato alla Proposizione ai Lombardi di una maniera di governo libero, nella quale egli delinea il suo ideale repubblicano concretizzandolo in una proposta politica che già si differenzia dal modello giacobino francese, assegnando un peso maggiore alla rappresentanza popolare, individuando un sistema di contrappesi fra magistrature e non negando un ruolo alla religione. Gli anni immediatamente successivi saranno impegnati dall’azione di governo in Piemonte e in Francia, come amministratore pubblico con responsabilità di rilievo. Proclamato nel 1805 l’impero, anche Botta si integra nella nuova élite notabiliare napoleonica, rimanendo quasi sempre in Francia come deputato nel Corpo legislativo.
La scelta di dedicarsi alla storiografia avviene in questi anni, in età matura, dopo una discussione nel salotto parigino di Giulia Beccaria Manzoni. Diviso fino a quel momento fra due patrie (Italia e Francia) e due rivoluzioni, Botta sceglie di consegnare la sua fama di storico a una terza rivoluzione, quella americana, di cui era stato già un attento osservatore e di cui diviene uno dei primi studiosi in Europa, proponendone da subito una lucida lettura in chiave politica, come modello alternativo a quello della Rivoluzione francese. Le sue opere successive, dedicate rispettivamente all’Italia fra Rivoluzione e Restaurazione e alla storia dell’Italia moderna, pur diverse fra loro, prendono entrambe le mosse dai problemi storici e politici presenti in quella prima opera, sviluppandoli a monte e a valle.
Concepita a Parigi nel 1806 e pubblicata nel 1809, la Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America rappresenta dunque una presa di posizione storiografica e politica precisa, in grado di chiarire anche la sua successiva evoluzione intellettuale. La lettura che egli fornisce della Rivoluzione americana, come esperienza democratica, repubblicana e federalista a larga base popolare, guidata da leader capaci di porre in primo piano non se stessi, ma le istituzioni, è la conseguenza diretta delle idee politiche che egli matura in età napoleonica e che approfondirà nei decenni successivi con notevole coerenza, pur in presenza di un sempre più evidente disincanto. La stessa contrapposizione presente in quel libro fra un Washington, novello Cincinnato, e un Napoleone, prima rivoluzionario e poi despota, e fra la solida democrazia americana e la Rivoluzione francese, degenerata prima nel terrore e poi nella dittatura napoleonica, non rappresenta certo una negazione dei suoi ideali giovanili, ma semmai un loro approfondimento e una loro maturazione.
Di fatto lo storico piemontese anticipa molti dei canoni interpretativi dell’Ottocento americano che, nel corso del secolo, saranno fatti propri dai manuali scolastici e dalla storiografia divulgativa sui due lati dell’Oceano. Buoni costumi, frugalità, senso pratico, spirito d’indipendenza, ottimismo, sono le caratteristiche che Botta attribuisce al popolo americano, derivate in parte dal puritanesimo e in parte formatesi a contatto con una natura selvaggia e incontaminata. La guerra d’indipendenza americana è di conseguenza interpretata come l’epica lotta di un popolo per difendere la propria libertà contro il dispotismo, senza eccessi, ma salvaguardando i valori tradizionali di semplicità e frugalità. Botta non ricostruisce solo il conflitto fra Parlamento e monarchia britannica, da un lato, e coloni, dall’altro, in una prospettiva ancora tutta eurocentrica, ma significativamente riconosce il ruolo non secondario dei nativi americani nell’affiancare i coloni e sostenere la guerra d’indipendenza dall’Inghilterra; prendendo anche posizione contro la schiavitù dei neri, ben prima che il tema divenisse uno dei nodi dei conflitti americani di metà Ottocento.
Accanto al popolo americano e ai suoi sobri costumi – evidentemente contrapposti ai costumi corrotti degli europei – il vero protagonista della storia bottiana è però George Washington – a sua volta contrapposto a Napoleone – eroe e uomo comune, condottiero militare temerario, ma prudente e dirigente politico saggio, sempre leale nei confronti del Congresso e del governo e capace di farsi da parte dopo aver ottenuto il massimo successo. In pieno regime napoleonico egli guarda dunque al modello della democrazia americana e alla sua classe dirigente, facendo della democrazia rappresentativa realizzata negli Stati Uniti la vera alternativa all’autoritarismo delle nuove istituzioni imperiali francesi nate dalle ceneri della Rivoluzione. Lo stesso modello federalista americano, capace di tener conto delle differenze, ma di ridurle a unità senza forzature, è una via alternativa al centralismo napoleonico e indirettamente un suggerimento per risolvere la crisi italiana. Questa tesi si farà sempre più esplicita nelle due successive Storie d’Italia, e in tal senso verrà riletta negli anni Quaranta da Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. È inoltre significativo che quest’opera di Botta – risoltasi nell’immediato in un fallimento commerciale, al punto da essere mandata al macero per pochi franchi – sia stata tradotta in inglese nel 1820 per avere poi altre dieci edizioni fino al 1854 e ottenendo un notevole successo. In realtà il messaggio più profondo del libro era rivolto agli europei e agli italiani del suo tempo in particolare.
La seconda importante opera storica di Botta è la Storia d’Italia dal 1789 al 1814, pubblicata nel 1824, nel pesante clima del regno di Carlo X. Inevitabile il carattere autobiografico di quest’opera che tenta un primo bilancio degli esiti della mancata rivoluzione italiana. Suddivisa in due parti, dallo scoppio della Rivoluzione all’incoronazione di Napoleone e dalla proclamazione dell’impero al Congresso di Vienna, l’opera bottiana interpreta al meglio le due prime stagioni della vita dell’autore: le speranze rivoluzionarie dei primi anni e la successiva delusione non disgiunta da capacità di adattamento. Solo la lettura della storia americana e del suo messaggio politico rende però pienamente comprensibile la Storia d’Italia che non liquida certo né la Rivoluzione francese, né l’esperienza democratica del ‘triennio’, ma le rilegge entrambe alla luce di un altro modello possibile, quello americano – nazionale, repubblicano, democratico, parlamentare e federalista – che viene implicitamente proposto come terza via fra Maximilien-François-Isidore de Robespierre e Napoleone.
Insieme con la storia dell’indipendenza americana, la Storia d’Italia rappresenta quindi la prima grande sintesi storica scritta in lingua italiana sulle due grandi rivoluzioni settecentesche, pubblicata e letta negli anni in cui maturava idealmente la ‘rivoluzione italiana’ del Risorgimento. Recuperando un giudizio positivo dell’ultima fase del riformismo settecentesco negli antichi Stati italiani (soprattutto in Lombardia e in Toscana, ma anche in Piemonte), lo storico piemontese presenta l’invasione francese del 1796 come la brusca interruzione di un processo avviato e la successiva stagione democratica del ‘triennio’ come un’occasione perduta per dotare gli Stati italiani di governi autonomi e repubblicani. L’annessione di una parte della penisola alla Francia imperiale e la sottomissione di un’altra parte alla dinastia dei napoleonidi è vista come l’ultima tappa di un processo di perdita dell’indipendenza nazionale dalla quale gli italiani avrebbero potuto risollevarsi solo in un nuovo contesto. Questa è la ragione vera del successo più che trentennale di questo libro con il quale tutti i protagonisti del Risorgimento italiano (da Alessandro Manzoni a Giuseppe Mazzini, da Balbo a Gioberti, da Francesco De Sanctis a Ippolito Nievo) si sono confrontati, pur nel dissenso. Il duro e spesso severo giudizio che Botta dà di Napoleone non è mai, in realtà, ingeneroso e il senso del suo antibonapartismo è colto appieno da Niccolò Tommaseo nel 1843:
dicono il B. a Napoleone ingiustamente severo: ma nessuno finora diede dell’uomo giudizio, come il B., così compiuto […]. Io non conosco verun ritratto né di Napoleone né d’altro uomo, più compiuto e più vero (Carlo Botta, in Studi critici, parte seconda, 1843, p. 15).
Forse meno originale, ma anch’essa coronata da notevole successo di pubblico, è la Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini, scritta tra l’aprile del 1826 e l’ottobre del 1830, pubblicata a Parigi nel 1832 e ristampata ininterrottamente fino alla metà degli anni Quaranta. Solo con questa terza opera storica Botta assume il ruolo consapevole di storiografo ufficiale dell’Italia moderna, collegandosi non a caso a Francesco Guicciardini non solo per la forma, ma anche per la sostanza (l’invasione francese che pone fine alla libertà italiana, come spunto di riflessione storiografica e politica).
Da storico del tempo presente egli si fa storico del recente passato, riflettendo però costantemente sul presente dell’Italia e dell’Europa negli anni più bui della Restaurazione e dopo il fallimento dei moti del 1820-21. Del resto, l’opera del grande storico toscano era stata la sua lettura prediletta durante la prigionia del 1792-94 e la sua lezione aveva agito in lui nel corso dei decenni.
Come per Guicciardini, anche per Botta la politica è vista come unica via per contrastare la corruzione e la degenerazione ineluttabile della storia. La Storia d’Italia rappresenta infatti una ripresa delle tematiche guicciardiniane in un periodo in cui il tema della «fine della libertà italiana» appare nuovamente attuale, riuscendo a ispirare un nuovo patriottismo dopo la fine dell’avventura napoleonica. Ciò spiega il fatto che Botta sia considerato un precursore del Risorgimento, pur appartenendo in pieno – come formazione, come cultura e come ideali – al tardo Settecento e non certo al Romanticismo. Suddividendo gli storici in tre categorie: patrioti (Livio), morali (Tacito) e positivi, ossia realistici (Niccolò Machiavelli, Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone), Botta si propone di fatto con la sua opera una sintesi dei tre elementi. Collocata a mezza via fra cultura dei lumi, alla luce della quale Botta si era formato prima della sua militanza rivoluzionaria, e la cultura europea della Restaurazione, nel cui clima aveva trascorso l’ultima parte della sua vita, rinnegando solo in parte gli ideali di gioventù, la Storia rappresenta un’ampia e dettagliata sintesi delle vicende italiane a partire dal 1534, anno della morte di Clemente VII e dell’ascesa al pontificato di Paolo III, fino al 1789.
Botta rinuncia, quindi, a trattare del Medioevo – che definisce, sbrigativamente e un po’ grossolanamente: «desolata età, massime per l’Italia», dominata da «ignoranza, forza e barbarie» –, ma si limita a inquadrare la cosiddetta «età delle dominazioni straniere» proponendosi, tacitianamente, un intento essenzialmente morale, reputando compito precipuo dello storico di «muovere gli affetti o verso il bene o contro il male». Ugualmente Botta prende le distanze dalla tradizione muratoriana ed erudita, che stava riprendendo piede in Piemonte come in Toscana, affermando: «Io mi rido di coloro che pretendono di mettere sottosopra, cogli archivi, la storia dei tempi passati» (Lettere di Carlo Botta, 1841, p. 143). La sua vuole dunque essere opera di sintesi e d’interpretazione, rivolta a un vasto pubblico e capace di suscitare sentimenti e passioni civili.
Sebbene non fosse un prodotto storiografico di altissima qualità, la Storia del Botta ebbe una grande fortuna editoriale e rimase per tutto l’Ottocento uno dei testi di storia generale più diffusi nelle biblioteche degli italiani. Il suo modo di porsi di fronte alla materia si conciliava, infatti, sia con gli ideali risorgimentali, sia con quelli conservatori, consentendogli di essere un autore ampiamente ‘trasversale’ agli schieramenti politici e culturali. Lo schema di fondo proposto da Botta era, in parte, quello già proposto da Carlo Denina, ma con un’accentuazione patriottica non scevra da impennate retoriche: sebbene dagli inizi del Cinquecento l’Italia fosse stata oppressa dalle dominazioni straniere e incapace di reagire, riducendo il patriottismo a «vanità nazionale d’una nazione verso l’altra», tuttavia aveva sviluppato in sommo grado le lettere, le arti e le scienze; purtroppo, però, «i sofisti e le sofisterie si voltarono dai soggetti dello Stato a quelli della religione» (Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini, 1° vol., 1838, p. XXII), causando un declino politico senza precedenti. Già nel Settecento, tuttavia, la penisola si era in parte riscattata dal torpore grazie alle riforme di sovrani illuminati come Pietro Leopoldo e Giuseppe II, che «consolavano l’umanità e non la spaventavano coi soldati» (Croce 1921, p. 80).
La formazione ancora tutta settecentesca di Botta gli impediva di aderire in pieno agli ideali risorgimentali, ma lo induceva piuttosto a rimpiangere la stagione delle riforme quando, rinunciando a una parte dell’«equalità politica» si era privilegiata «la libertà e l’equalità civile». La generazione di Botta è quella dei reduci del triennio giacobino, in parte rimasti fedeli agli antichi ideali, in parte ripiegati su posizioni conservatrici o moderate, in ogni caso profondamente segnati da quell’esperienza e comunque delusi per i suoi esiti. Per costoro il nodo irrisolto è proprio il giudizio sulla vicenda rivoluzionaria e napoleonica in Italia, che poteva essere letta sia come l’«alba del Risorgimento» e dell’indipendenza nazionale, sia come un ulteriore momento di sottomissione a una potenza straniera, in questo caso la Francia. Nel primo caso, l’esperienza del triennio andava valorizzata non tanto in chiave rivoluzionaria, ma indipendentista, al limite in chiave antinapoleonica, esaltando l’ispirazione primigenia di quell’avventura; nel secondo caso, si doveva individuare nelle insorgenze antifrancesi, anche reazionarie, un elemento cui prendere ispirazione per il presente.
Le opere storiche di Botta, a partire dalla prima, hanno tutte una genesi letteraria, ben più che erudita, ma se ciò costituiva un serio limite per Croce, non ne sminuisce il valore ai nostri occhi, consapevoli ormai che il saper ‘raccontare’ la storia costituisca uno degli obiettivi che gli storici debbono proporsi. Il purismo linguistico di Botta si risolve infatti non già in leziosità, ma in chiarezza espositiva e in argomentazioni nitide ed efficaci. Il suo classicismo è soprattutto difesa di un sistema di ordine e rigore intellettuale, una dichiarazione di fedeltà alla cultura e agli ideali civili dell’Illuminismo. La stessa ricerca lessicale è volta a rendere comprensibili terminologie altrimenti specialistiche o ricalcate da lingue straniere.
Per Botta la difesa del classicismo e del purismo linguistico (la lingua del Cinquecento piuttosto che quella del Settecento) non rappresenta dunque una scelta conservatrice, ma una scelta patriottica a favore di una più marcata identità nazionale, tanto più significativa in quanto proposta da un italiano che aveva scelto di vivere e di pubblicare tutte le sue opere in Francia.
Ex remediorum fonte. De musices efficacia in quibusdam curandis morbis (terza dissertazione della tesi di aggregazione al Collegio di medicina della R. Università di Torino), Torino 1789.
Proposizione ai Lombardi di una maniera di governo libero, Milano 1797 (rist. in A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un ‘celebre’ Concorso (1796), 1° vol., Roma 1964, pp. 3-171).
Storia naturale e medica dell’isola di Corfù, 2 voll., Milano 1798.
Précis historique de la Maison de Savoie et du Pièmont, adressé au général Jourdan, Paris 1802.
Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, 4 voll., Paris 1809 (terza ed. con alcune correzioni dell’autore, 4 voll., Milano 1819; quarta ed. in 3 voll., Milano 1820; quinta ed. in 2 voll., Milano 1844; Firenze 1856; rist. anast. della prima ed. a cura di A. Emina, prefazione di U. Cardinale, introduzione di L. Codignola, 4 voll., Soveria Mannelli 2010; trad. ingl., Boston 1826).
Il Camillo, o Vejo conquistata, Paris 1815, Torino 1833.
Storia d’Italia dal 1789 al 1814, 4 voll., Paris 1824 (ed. italiana in volume unico, 1834).
Storia dei popoli italiani dall’anno 300 dell’era volgare fino all’anno 1789, Livorno 1826, Venezia 1836.
Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini sino al 1789, Paris 1832, Torino 1852.
Scritti minori di Carlo Botta, a cura di C. Dionisotti, Biella 1860.
Scritti musicali, linguistici e letterari, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1914.
C. Dionisotti, Vita di Carlo Botta, Torino 1867.
P. Pavesio, Carlo Botta e le sue opere storiche, Firenze 1874.
S. Botta, Vita privata di Carlo Botta. Ragguagli domestici ed aneddotici raccolti dal suo maggior figlio Scipio, Firenze 1877.
B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimo nono, 1° vol., Bari 1921, pp. 73-84.
C. Salsotto, Le opere di Carlo Botta e la loro varia fortuna, Roma-Torino-Milano 1922.
J.D. Fiore, Carlo Botta: An Italian historian of the American revolution, «Italica», 1951, 28, pp. 155-71.
W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino 1962, pp. 31-96.
G. Getto, Ritratto di Carlo Botta, in Id., Immagini e problemi di letteratura italiana, Milano 1966, pp. 247-66.
G. Talamo, Botta Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., Roma 1972, ad vocem.
A. Garosci, Carlo Botta e la crisi napoleonica della storiografia illuministica, in L’età dei Lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, 2° vol., Napoli 1985, pp. 1093-1154.
F. Diaz, L’incomprensione italiana della Rivoluzione francese. Dagli inizi ai primi del Novecento, Torino 1989, pp. 38-43.
G. Vaccarino, I giacobini piemontesi (1794-1814), 2° vol., Roma 1989, pp. 835-70.
S. Casini, Un’utopia nella storia. Carlo Botta e la “Storia d’Italia dal 1789 al 1814”, Roma 1999.
Il giacobino pentito. Carlo Botta fra Napoleone e Washington, a cura di L. Canfora, U. Cardinale, Roma-Bari 2010.
Coetaneo di Carlo Botta è il toscano Lazzaro Papi (Pontito 1763-Lucca 1834) il cui itinerario di vita e storiografico può essere, per certi versi, affiancato a quello del piemontese. Entrambi medici, entrambi interessati ai mondi extraeuropei (uno all’America e l’altro all’India), entrambi vissuti negli anni delle rivoluzioni per farsene poi storici disincantati in età matura.
Di origini modeste, educato nel Seminario di Lucca, Papi ne fugge nel 1783 rifugiandosi a Napoli dove si arruola nell’esercito borbonico; lasciato presto l’esercito si offre come precettore prima di iscriversi alla facoltà di Medicina dell’Università di Pisa dove si abilita in chirurgia nel 1788. Sposatosi e rimasto vedovo, nel 1792 si imbarca come medico di bordo su una nave della flotta toscana diretta in India, dove si stabilisce per un decennio. Inizialmente prosegue la sua esperienza di medico a Calcutta, salvando dalla cancrena il raja di Travancore, che lo nomina medico di corte. Successivamente ottiene incarichi militari prima dal raja e poi dagli inglesi, che gli affidano il comando di una compagnia dei Lancieri del Bengala con i quali combatte contro Tippo Sahib. Per i suoi meriti militari, nel 1798, viene promosso colonnello dell’esercito britannico al comando di quattromila lancieri.
Deciso a ritornare in Italia, si sposta nel 1801 a Bombay dove diviene agente commerciale di una società britannica. Nel 1802 si imbarca per l’Europa, ma lungo il percorso si sofferma a visitare l’Arabia, l’Egitto e le isole greche. Ritornato a Lucca, compone le Lettere sulle Indie orientali, pubblicate anonime nel 1802 e ripubblicate nel 1829, nelle quali mette a frutto la sua esperienza indiana, testimoniando ai lettori italiani la realtà di un mondo sconosciuto e affascinante.
Durante la breve esperienza della Repubblica democratica lucchese, nel 1804 è nominato componente della Commissione di sanità. Caduta la Repubblica e instaurato il principato, sotto Elisa Bonaparte è nominato membro e poi segretario dell’Accademia lucchese. Nel 1807 è nominato bibliotecario ducale e tenente colonnello della milizia nazionale. Ormai ben inserito nel nuovo regime, ottiene anche la direzione della «Gazzetta di Lucca» e la nomina a socio di numerose accademie toscane. Nel 1811 pubblica la traduzione del Paradise lost di John Milton che lo renderà celebre negli ambienti letterari di tutt’Italia. Nominato nel 1813 direttore del Museo di Carrara, dopo la caduta di Napoleone è chiamato dal conte di Starhemberg a far parte del Consiglio del governo provvisorio, come membro della Deputazione di Giustizia e finanze. Nel 1814 è nominato censore del Collegio nazionale e docente di lingua inglese.
Privato di tutti gli incarichi nel 1815, si dedica esclusivamente alla letteratura. Sotto il nuovo governo di Maria Luigia di Borbone mantiene la carica di bibliotecario e nel 1819 inizia a stendere i Commentari della Rivoluzione francese dalla morte di Luigi XVI fino al ristabilimento de’ Borboni sul trono di Francia, pubblicati fra il 1830 e il 1831 (la prima parte esce postuma nel 1839) e premiati dall’Accademia della Crusca nel 1835. L’opera si propone come rigorosa e obiettiva, senza però riuscire a esserlo: la scelta della periodizzazione dalla morte del re – escludendo i primi quattro anni della rivoluzione, segnati dal progetto fallito di una monarchia costituzionale – è infatti già indicativa di un giudizio sostanzialmente negativo sulla Rivoluzione e sui suoi successivi sviluppi. Ricca di fatti e piuttosto ben documentata, l’opera di Papi descrive la Rivoluzione come opera di una minoranza faziosa, ma non manca di attribuire gravi colpe anche allo schieramento antirivoluzionario. Sostanzialmente l’autore mostra simpatia solo per i moderati di entrambi gli schieramenti, finendo per tessere l’elogio di Napoleone come restauratore dell’ordine. Diversamente da Botta, scarso valore viene dato da Papi alle Repubbliche italiane del triennio, ridotte a meri strumenti nelle mani dei francesi.