BROGLIA, Carlo
Figlio di Giovanni Antonio, signore di Santena, e di Giovanna Benso, dei signori di Albugnano, nacque a Chieri nel 1552. Avviato alla carriera ecclesiastica, dopo gli studi e dopo aver preso i voti, ottenne un canonicato nella cattedrale di Torino. Fu poi per alcuni anni rettore del collegio dei Greci a Roma e nel 1587 venne nominato abate commendatario dell'abbazia di S. Benigno di Fruttuaria. Continuò a godere di questo beneficio sino alla elevazione alla cattedra episcopale torinese, cui fu designato il 30 nov. 1592, succedendo al cardinale Girolamo Della Rovere.
Con questo prelato il nuovo arcivescovo fece, agli occhi della popolazione e del clero dell'arcidiocesi, della corte e dei nunzi pontifici, un singolare contrasto. Uomo fastoso, mondano, frequentatore assiduo della corte sabauda il primo, un prelato ancora tutto informato alla mentalità e ai costumi della tradizione rinascimentale e di quella stessa della sua illustre famiglia; personaggio schivo, alieno da ogni forma di mondanità, modesto secondo la sua condizione di piccolo nobile piemontese il B., "che di sua natura - scriveva il nunzio pontificio a Torino, il 30 giugno 1595 - è tanto alieno dalla Corte, che sta li mesi intieri senza che ci capita" (Grosso-Mellano, p. 128).
Era una differenza di carattere che aveva la sue immediate ripercussioni sul piano del magistero pastorale: il Della Rovere, tanto alla corte sabauda quanto a quella pontificia, si era sempre preoccupato assai più delle proprie relazioni e del proprio prestigio che non di affrontare i problemi effettivamente gravissimi che si ponevano ancora nella diocesi piemontese, a distanza di decenni, alla applicazione delle direttive tridentine. Il B. invece si rivolse subito alla riforma secondo le intenzioni conciliari con uno zelo che in Piemonte aveva scarsi precedenti, sicché già nel luglio del 1595 il nunzio apostolico poteva scrivere che "in comparation del suo predecessore la diocesi notabilmente ha migliorato" (ibid.). Non poco doveva valere ad eccitare la buona volontà del clero diocesano lo stesso personale esempio del B., che nel suo ministero si adeguava subito ai più alti modelli pastorali della Controriforma: "di buonissima vita, et molto pio et applicato alla cura... fa quanto può et non perdona a fatica", assicurava lo stesso autorevole testimone (ibid.).
Anche nelle manifestazioni più esterne del suo magistero il B. dimostrò subito un alto sentimento della propria dignità episcopale, talché, lui così discreto nelle pubbliche cerimonie, in cui si riservava programmaticamente un ruolo modesto, nei riti religiosi era attentissimo a sottolineare, con gli espedienti del cerimoniale, la propria preminenza pastorale anche a detrimento del prestigio del nunzio, il quale infatti se ne lamentava assiduamente alla corte pontificia.
I rapporti del B. con la corte, d'altra parte, lasciano più di un sospetto di qualche sua inclinazione gallicana: vero èche in qualche circostanza mostrò di prendere posizione per la giurisdizione ecclesiastica anche contro i provvedimenti del governo ducale, come, per esempio, nell'aprile del 1593, quando il duca fece arrestare per immoralità il vescovo di Vercelli Antonio Vizia, e il B. interruppe la visita pastorale della diocesi facendo precipitosamente ritorno a Torino per adoprarsi "in quello che fusse bisognato" (ibid., p. 135), ma in effetti si mostrò sempre assai accomodante verso le iniziative giurisdizionali del duca e del Senato. Certo è che la Curia pontificia, sia al tempo di Clemente VIII sia in quello di Paolo V, fu ben lontana dal dimostrare al B. la propria considerazione e la propria fiducia, scavalcandolo sistematicamente nelle sue relazioni con la corte sabauda, per le quali preferì giovarsi dell'opera del nunzio. Ed è pure di qualche peso, in questo senso, che il B. non ricevesse il cappello cardinalizio, che pure era tradizionalmente riservato all'arcivescovo di Torino.
Ma questo non significa che, nell'essenziale, il B. spingesse la sua devozione di suddito ducale sino a danneggiare la sua missione pastorale: anzi è probabile che la sua remissività sui problemi di giurisdizione fosse una consapevole contropartita per l'appoggio che in effetti il governo non gli lesinò mai nella sua opera riformatrice e specialmente nella lotta accanita contro l'eresia dilagante in Piemonte e nelle Valli. In realtà una vigorosa iniziativa di riforma religiosa coincideva per più di un aspetto con le direttive accentratrici della politica di Carlo Emanuele I: così, appunto, nelle Valli, dove il dominio degli eretici aveva anche notevoli ripercussioni politiche; ma così anche nei riguardi delle situazioni di privilegio ecclesiastico, che il B. era portato a scavalcare, quasi sempre con la piena solidarietà delle autorità civili, mentre i colpiti nella loro resistenza facevano leva sulla protezione della Curia pontificia: questo era il caso, in particolare, delle grandi abbazie alpine e pedemontane, tanto più tenacemente resistenti sul terreno delle loro tradizionali libertà, quanto più erano bisognose di interventi riformatori.
E infine le sorti della riforma venivano ovviamente a coincidere con la situazione politica del ducato, travagliato da decenni di guerre, economicamente esausto, e perciò esposto a tutti i pericoli e disordini della miseria, mentre la massiccia presenza politica della Francia ai confini non era minacciosa soltanto per le sorti sabaude, ma anche per quelle della fede, poiché l'eresia continuava a trovare negli ugonotti d'Oltralpe la sua principale garanzia e negli eserciti imperversanti il suo inesauribile alimento.
In questa situazione, e con queste personali inclinazioni, il B. affrontò i suoi compiti riformatori, testimoniando la decisione delle sue intenzioni sin dai primi decreti, emanati subito dopo la presa di possesso del suo ufficio; essi investivano con una netta accentuazione rigoristica i problemi della santificazione delle feste, dell'astinenza e del digiuno quaresimale e delle ordinazioni sacerdotali.
Quindi le cure del B. si rivolsero alla visita della diocesi torinese e di quelle che rientravano nella sua circoscrizione religiosa, sino alle Valli, cioè, contestate tra Francia e Savoia, e sino al marchesato di Monferrato.
I documenti delle visite condotte dal B. testimoniano il sussistere per quasi un quarto di secolo del suo animoso zelo riformatore, che non si lasciava scoraggiare né dalla indifferenza sostanziale della Curia romana, né dalle oggettive difficoltà offerte da un paese estremamente travagliato, né dagli stessi pericoli fisici cui le visite esponevano spesso l'arcivescovo, nonostante la vigile solidarietà delle autorità sabaude, nelle regioni dominate dagli eretici. Dappertutto il B. andò scoprendo "nuovi, e diversi abusi e disordini", un clero corrotto, ignorante, ben lontano da quel plausibile livello culturale e pastorale che i padri conciliari avevano auspicato, una situazione di estremo disordine e comunque di larga insufficienza negli edifici ecclesiastici e nella riscossione delle rendite, vescovi indegni, come quello di Vercelli, o deboli e inetti, come quello di Saluzzo, Antonio Pichot, incapace di frenare la corruzione dilagante specialmente nei monasteri femminili. Una situazione, insomma, dal punto di vista ecclesiastico, che il nunzio poteva ben riassumere scrivendo che "in tutto il Piemonte non ci sono due o tre persone che intendano che cosa voglia dire disciplina" (ibid., p. 139).
In questa situazione il B. intervenne con grande energia e i risultati del suo più che ventennale lavoro sono testimoniati dagli atti dei numerosi sinodi da lui convocati. In generale migliorò nell'intero Stato, durante il periodo del B., il livello culturale e disciplinare del clero, specialmente quello parrocchiale; le nomine si uniformarono in maniera soddisfacente alle norme; furono costruite numerose chiese ed ancora di più ne furono restaurate ed adattate alle nuove necessità e alle disposizioni tridentine; fu incrementata l'esazione delle rendite ecclesiastiche, sicché la dotazione della mensa arcivescovile raggiunse il soddisfacente importo di 2.000 scudi d'oro annui. Anche la pietà popolare segnò notevoli progressi, rispetto al periodo precedente al B.: tranne che nelle Valli valdesi e in altre ristrette isole, dove rimase qualche sporadica rappresentanza ugonotta, lacomunione pasquale divenne pressoché generale, migliorò l'istruzione religiosa, si moltiplicarono le confraternite laiche che il B. volle sottoposte al controllo del clero parrocchiale. Nella lotta contro l'eresia il B. poté contare, oltre che sul contributo decisivo delle milizie ducali, su quello dei missionari cappuccini e gesuiti che egli incoraggiò calorosamente.
Pieno di "grandissimo cordoglio" per le povere anime "degli eretici, che rimanevano tenacemente "nella cieca ostinazione, e perfidia loro" (Broglia, pp. 8 s.), il B. stesso si portò a predicare, a polemizzare con i ministri eretici, a reprimere, a convertire nelle zone più resistenti della sua arcidiocesi: e talvolta con brillanti risultati, come a Bibiana, dove riuscì a recuperare alla fede cattolica ben cinquecento eretici, un successo al quale probabilmente non fu estranea qualche "hberale elemosina" dell'arcivescovo. Successi, comunque, sempre parziali, poiché la situazione del cattolicesimo nelle Valli valdesi segnò durante il periodo un ulteriore regresso, anche a causa delle protezioni politiche su cui gli eretici potevano contare e della circospezione cui erano costrette le autorità sabaude in quella regione.
Questo fu il maggior passivo del bilancio controriformista del B., in realtà tanto più positivo quando si consideri che lo Stato sabaudo, dopo l'estenuante contesa con la Francia, godette di un troppo breve periodo di pace per il nuovo insorgere della questione monferrina: sicché le condizioni per la missione del B. furono indubbiamente tra le più sfavorevoli. E va anche ricordato che molti risultati ottenuti dal B. nei primi anni del suo ministero furono compromessi dalla peste dell'estate 1598, che falcidiò le file dell'organizzazione ecclesiastica faticosamente rinnovata dall'arcivescovo. Lo stesso B., in questa occasione, si prodigò in maniera esemplare, anche se dovette sfuggire il centro del contagio per le pressioni del duca e per conservarsi al suo ministero, come gli raccomandava un parere di una commissione romana di teologi da lui stesso consultata.
Morì a Torino l'8 febbr. 1617.
Fonti e Bibl.: C. Broglia, Constitutioni della prima Sinodo diocesana di Torino, Torino 150, passim; C.Lombardo, Della vita di Giovenale Ancina, Napoli 1656, p. 101 (pubblica una lettera del B.); G. B. Semeria, Storia della Chiesa metropolitana di Torino, Torino 1840, pp. 293-296; M. Grosso-M. F. Mellano, La controriforma nell'arcidiocesi di Torino, III, Città del Vaticano 1957, passim.