CADORNA, Carlo
Fratello maggiore del generale Raffaele, il C. nacque a Pallanza sul Lago Maggiore l'8 dicembre del 1809. Pallanza era in territorio piemontese, ma i suoi abitanti avevano rapporti e scambi assai attivi con la vicina Lombardia. Il padre Luigi, colonnello dell'esercito sardo, ma dimissionario dopo l'occupazione francese del Piemonte, aveva sposato una nobildonna milanese, la marchesa Virginia Bossi, sorella del patriota Benigno Bossi, condannato a morte in contumacia dopo i moti del 1821. Negli anni della sua formazione giovanile e degli studi, ch'egli seguì in famiglia sotto la guida di un precettore privato, il C. pur subendo l'educazione austera e religiosamente severa del padre risentì notevolmente dell'atteggiamento più aperto e liberaleggiante della madre e, soprattutto, dello zio, con il quale fu sempre in cordialissimi rapporti e in continua corrispondenza specialmente negli anni in cui il Bossi fu esule in Svizzera, in Belgio, in Inghilterra.
Iscritto alla facoltà giuridica dell'università di Torino, ove si laureò il 5 giugno 1830, fu dal padre collocato - a quanto pare contro sua voglia - nel Collegio delle provincie, retto dai gesuiti, i cui metodi pedagogici e i cui orientamenti politici egli finì coll'avversare vivacemente, legandosi invece d'amicizia con il Gioberti e con alcuni giovani coetanei di sentimenti liberali. Dopo la laurea egli era entrato come praticante nello studio dell'avvocato Luigi Colla, autorevole esponente del foro piemontese, continuando però ad occuparsi di politica e di letteratura e partecipando alla fondazione di una Accademia scientifico-letteraria, di lì a poco soppressa dalla politica illiberale e repressiva del governo. L'irrequietezza politica e la vivacità del comportamento del C. indussero il padre a richiamarlo a Pallanza in occasione dei processi antimazziniani del 1833. Ritornato in famiglia, proseguì la pratica forense e dal 10 luglio 1835 al 20 febbraio 1837 esercitò il patrocinio legale come giudice aggiunto al tribunale provinciale di Pallanza, ma continuò anche a interessarsi di studi e di problemi politico-sociali giovandosi dei consigli e dei contatti con studiosi piemontesi e lombardi, fra i quali il Romagnosi. In questo periodo cominciò a occuparsi, non diversamente da quanto facevano C. Cavour e altri giovani piemontesi che avrebbero avuto un grande peso nella politica dopo il '48, di economia, di agricoltura (collaborò infatti al Repertorio dell'Agricoltura di Rocco Ragazzoni), di educazione e istruzione popolare, di asili infantili.
Del problema dell'educazione popolare e degli asili infantili, che nella vicina Lombardia venivano proprio in quegli anni promossi da Ferrante Aporti, il C. si occupò poi più esplicitamente in un periodico da lui stesso fondato dopo il suo ritorno a Torino, nel 1837, dal titolo Album letterario e scientifico, ove pubblicò fra l'altro un articolo, Appello alle donne torinesi per lo stabilimento degli asili infantili, che favorì in effetti la fondazione di uno dei primi asili piemontesi, avviato da lui stesso, ma portato a termine da Carlo Bon Compagni dopo che il C., nel 1838, si trasferì a Casale.
Il trasferimento a Casale, dove era vescovo il liberale Nazari di Calabiana e dove era stata istituita, in luogo dell'antico senato del Monferrato una corte d'appello frequentata da giovani avvocati che costituivano il nuovo ceto di intellettuali e professionisti piemontesi aperti alle esigenze di trasformazione del vecchio Piemonte sabaudo (come Pinelli, Rattazzi, Lanza, Mellana), costituì per il C. una svolta decisiva nei suoi orientamenti politici e nei programmi della sua vita. Accanto all'esercizio dell'avvocatura - in cui si distinse per capacità e per onestà, tanto che per cinque anni (dal 4 febbr. 1840 al 10 dic. 1844) ebbe l'ufficio, di giudice aggiunto al tribunale di prima istanza - continuò a interessarsi di asili (insieme con altri amici ne fondò, sempre a Casale, uno di cui fu poi per più anni direttore e ispettore) e di problemi agricoli, contribuendo alla istituzione della Società agraria piemontese, che ebbe, com'è noto, grandi meriti nella evoluzione dell'economia, della società e del pensiero civile piemontese negli anni intorno al '48. Per iniziativa del gruppo di giovani avvocati e politici di cui il C. faceva parte l'Associazione agraria organizzò nel 1847 il famoso Congresso agrario di Casale, in cui si ebbe la grande rivelazione delle forze liberali e progressiste del Piemonte e da cui uscì, seppure non ufficialmente, un indirizzo politico a Carlo Alberto - nel quale anche il C. ebbe parte - contenente la richiesta di riforme politiche e costituzionali: indirizzo che non pare sia stato presentato però al sovrano perché il primo novembre 1847 egli accordava al paese alcune delle riforme richieste.
Poco dopo il C. con la collaborazione del Lanza, del Mellana e di altri fondava a Casale un vivace periodico dal titolo Il Carroccio: filoguelfa, giobertiano (il Gioberti vi collaborò sin dai primi numeri) e inizialmente piuttosto moderato - lo stesso C. in un articolo polemizzava contro chi accusava il giornale di "radicalismo" -, il giornale accentuò il suo orientamento in senso democratico dopo l'introduzione in Piemonte dell'ordinamento costituzionale, e sopravvisse sino al 1849 come portavoce di un gruppo di deputati e uomini politici, tra cui emergevano il Lanza, il Rattazzi e il Cadorna, i quali costituivano nel prinio Parlamento subalpino il più cospicuo gruppo di opposizione di sinistra.
Nelle elezioni del 27 apr. 1848 il C. venne eletto deputato per il collegio di Pallanza (sarà rieletto consecutivamente per altre sei volte, fino alla nomina a senatore nel 1858) e alla Camera, di cui era stato nominato segretario, si distinse subito con notevoli interventi, volti soprattutto a sottolineare il carattere nazionale e popolare deTintervento di Carlo Alberto nel marzo e a far votare sofiecitamente l'atto di fusione con la Lombardia. Sinceramente monarchico (pubblicò in questi mesi uno scritto La Repubblica nella Monarchia costituzionale, in cui dimostrava che le libertà civili e politiche potevano essere difese in regime monarchico-costituzionale meglio che dai governi repubblicani), il C. era però propenso a una interpretazione in senso parlamentare del regime costituzionale e a una caratterizzazione in senso democratico della politica del governo piemontese. Per queste sue tendenze, per l'amicizia con il Gioberti e perché favorevole a una ripresa della guerra contro l'Austria dopo l'armistizio di Milano, il C. fu chiamato da Gioberti a far parte del ministero democratico costituito nel dicembre del 1848, come ministro della Pubblica Istruzione. Dopo le dimissioni del Gioberti del 21 febbr. 1849 e il rimpasto ministeriale fatto dal Chiodo egli ebbe una parte di primo piano nella condotta del governo e nella ripresa delle ostilità contro l'Austria.
Il C. fu presente alla battaglia di Novara, il 23 marzo, e quivi raccolse l'atto di abdicazione di Carlo Alberto, trattando poi con lo Stato Maggiore austriaco le condizioni dell'armistizio. Coinvolto, non per sola debolezza e carenza del governo, che era comunque immediatamente Sostituito il 27 marzo dal ministero De Launay, nella responsabilità dei drammatici avvenimenti, fu accusato dal Parlamento, insieme con altri ministri, di cattiva condotta della guerra e di aver dimenticato di far firmare a Carlo Alberto l'atto ufficiale di abdicazione. Il Parlamento dispose una inchiesta formale, nel corso della quale il C. e i colleghi si difesero (Risposte dei cessati ministri Chiodo, C. e Tecchio… alla Commissione d'Inchiesta, Torino 1849) attribuendo le cause della sconfitta soprattutto all'inferiorità militare piemontese.
Superato indenne lo scoglio dell'inchiesta, il C. riprese battagliero il suo posto in Parlamento, insieme con il gruppo degli ex ministri del gabinetto Gioberti-Chiodo e con il gruppo di deputati della Sinistra capitanati dal Rattazzi, opponendosi a coloro che nel governo e fuori pensavano che dopo Novara tutto fosse finito e non si dovesse far altro che firmare la pace. Senza calcolare i pericoli che avrebbero corso lo Statuto e il Piemonte stesso, il C. propose un ordine del giorno con il quale si subordinava la firma del trattato di pace alla risoluzione del problema degli esuli lombardi: l'approvazione dell'ordine del giorno, appoggiato dalla Sinistra e dal centro-sinistra, provocò la caduta del governo, sostituito da quello di M. d'Azeglio, lo scioglimento della Camera e l'appello del re al paese per nuove elezioni (il noto proclama di Moncalieri).
Con l'elezione della nuova Camera il C. tornava in Parlamento, schierandosi nuovamente, come altri rappresentanti delle province orientali del Piemonte, con il centro-sinistra, vicino alle posizioni piùavanzate degli esuli lombardi e veneti. Relatore di diversi disegni di legge, fu anche portavoce del centro-sinistra, prima e dopo il "connubio" del '52. Presidente e relatore di varie commissioni parlamentari, fra cui quella del Bilancio (e in tale veste fece adottare dal Parlamento la regola della votazione dei bilanci preventivi dello Stato), vicepresidente della Camera nella seconda sessione della quinta legislatura (1855-56), presidente nella quinta sessione di questa e nella prima della sesta legislatura (185758), il 29 ag. 1858 fu nominato senatore e il 10 ottobre, dopo gli accordi di Plombières, il C. era chiamato dal Cavour a far parte del nuovo gabinetto come ministro della Pubblica Istruzione.
La nomina del C. tendeva probabilmente non solo a premiare e a legare ancor più al governo il centro-sinistra, ma anche a gettare un ponte verso l'intera Sinistra, come lasciava intendere il Cavour in una lettera al Villamarina del 19 ott. 1858:"Cadorna à des opinions sincèrement constitutionnelles, mais très modérées, joint un caractère doux et conciliant qui le rend moins désagréable aux partis antiministériels. Comme président de la Chambre il avait acquis l'estime et la sympathie de tous les côtés…" (IlCarteggio Cavour-Nigra, I, Bologna 1926, p. 171).
Il primo e il secondo incarico del C. come ministro della Pubblica Istruzione coincisero purtroppo con due drammatici periodi di guerra per il Piemonte e la sua attività non si discostò in ambedue i casi dall'ordinaria amministrazione. D'altronde dopo Villafranca con le dimissioni di Cavour anch'egli usciva dal ministero, e il giorno successivo alla formazione del nuovo gabinetto La Marmora-Rattazzi, il 19 luglio del 1859, riceveva la nomina a consigliere di Stato.
Oltre agli accennati aspetti dell'attività politica svolta dal C. fra il '48 e il '59 va ricordata la sua attiva, ininterrotta, preminente partecipazione ai dibattiti del Parlamento subalpino, prima alla Camera e dal '58 al Senato.
Per quanto riguarda la politica economica il C. si orientò, da una posizione iniziale di riserva, via via verso i principi del libero scambio e in favore della politica di intervento statale per la creazione delle infrastrutture; intervenne nel dibattito sul problema allora assai vivo delle ferrovie per sostenere la necessità di un collegamento fra Genova e l'Europa centrale (su questo argomento scrisse anche un grosso saggio Della strada ferrata da Genova alla Svizzera ed in specie del tronco d'essa da Novara al Lago Maggiore, Torino 1853)e sostenne energicamente, con argomenti economici e politici, il progetto di sovvenzione alla Compagnia transatlantica costituita nel 1852dalla Rubattino per l'esercizio di linee di navigazione commerciale con il Nord e il Sud-America. Nel 1854fece parte di una commissione per l'esame del progetto di legge per la formazione del catasto sardo presentato alla Camera il 2 gennaio dal Cavour.
In questo e in altri interventi (se si eccettua quello contro la richiesta di emissione di un prestito pubblico di 40.000.000 avanzata dal Cavour nella seduta del 2dic. 1852) il C. si fece portavoce del consenso dei gruppi di centro-sinistra alle proposte del governo; ma dove egli andò perfino oltre le aspettative di esso fu la politica ecclesiastica. Già nel '48 egli aveva appoggiato la proposta di inchiesta sui gesuiti e più volte si era manifestato favorevole a sottrarre alle corporazioni religiose e agli enti ecclesiastici i tradizionali compiti di beneficenza e assistenza (ch'egli intendeva demandare, ad esempio, ad asili infantili laici); nel 1855 fu relatore dei lavori della commissione incaricata dell'esame del notissimo disegno di legge per la soppressione di determinate categorie di conventi e comunità religiose, legge che portò alla cosiddetta "crisi Calabiana". Egli ribadì in numerosi interventi durante il tormentato iter parlamentare della legge i concetti presenti nella relazione della commissione (che rivela già l'impronta delle idee che il C. svilupperà poi in lunghi anni di riflessione sino alla sua opera postuma su Religione, diritto, libertà, come l'incompetenza dello Stato in materia religiosa, la libertà di coscienza, l'autonomia della sfera civile). Tornata questa alla Camera dopo le modifiche apportate dal Senato, egli giustificò, nella relazione finale del 28 maggio 1855 le ragioni di convenienza che suggerivano di accettare le modifiche, riaffermando però il principio del diritto del potere civile di legiferare "per autorità propria ed indipendentemente dalla S. Sede". In occasione delle elezioni del 1857, condividendo in pieno l'atteggiamento del governo sui sorprendenti risultati elettorali, egli si fece promotore il 2 genn. 1858 dell'inchiesta, approvata poi dal Parlamento, sulle violenze morali e sull'uso di strumenti spirituali fatti dal clero in quella occasione.
A prescindere dalla matrice ideologica e dalla giustificazione spirituale di certe sue convinzioni di fondo, gli atteggiamenti e le prese di posizione del C. nel decennio preunitario erano state tali da renderlo ugualmente gradito ed accetto agli elementi moderati tanto della Sinistra quanto della Destra; con il suo passaggio al Senato e, dopo l'unità, con l'affiancarsi al vecchio gruppo dirigente piemontese che aveva tratto forza dal "connubio" di uomini politici di diversa provenienza, egli conservò tutta la sua influenza assumendo incarichi di governo, funzioni amministrative, missioni diplomatiche, responsabilità politiche d'ogni genere, tanto da apparire come un tipico esempio di quella fungibilità politico-amministrativa della classe dirigente d'origine piemontese che è un fenomeno ancora in gran parte inesplorato.
Consigliere di Stato, come si è detto, dal luglio 1859, fu membro della commissione di studi legislativi proposta da Farini il 16 maggio 1860 per l'esame dei progetti sull'ordinamento amministrativo dello Stato preparati dallo stesso Farini e poi da Minghetti. Avversario dell'ordinamento regionale, era favorevole invece a un ampio decentramento burocratico in favore dei prefetti, che a suo avviso dovevano costituire il perno dell'amministrazione dello Stato con larghi poteri politici e amministrativi. Del problema dell'unificazione amministrativa continuò a occuparsi in quegli anni anche con propri progetti di legge presentati alla Camera ma mai discussi; fu infine relatore al Senato di quello del 16 febbr. 1865 per la concessione al governo della facoltà di pubblicare i progetti sull'ordinamento amministrativo dello Stato successivamente pubblicati nello stesso anno.La sua attività in Senato e al Consiglio di Stato fu rallentata in questi anni da condizioni di salute piuttosto precarie che lo costrinsero a frequenti congedi. Tuttavia il 27 marzo 1865 era eletto vicepresidente del Senato e poco dopo, nel maggio, veniva nominato prefetto di Torino: l'inquietudine sempre viva nella città piemontese dopo il trasferimento della capitale e i moti del settembre del '64 che avevano provocato le dimissioni del prefetto Pasolini indussero il governo a rivolgersi al C. per un ufficio di estrema delicatezza, ch'egli in effetti svolse con equilibrio e con moderazione e senza ricorrere a spiegamenti di forza pubblica, tanto che anche le manifestazioni promosse il 20 e 21 settembre in ricordo dei morti dell'anno precedente si svolsero nella massima compostezza. Esaurito il suo compito, nel novembre di quello stesso anno riprendeva il suo posto al Consiglio di Stato.
Con la formazione del secondo gabinetto Menabrea, il 5 genn. 1868, il C., aderendo all'invito di vecchi amici, fra cui il generale La Marmora e il conte Arese, entrava a fare parte del governo come ministro dell'Interno.
In tale qualità dovette affrontare pressanti problemi politici e sociali che influendo sulle condizioni dell'ordine pubblico si era creduto di poter risolvere con interventi autoritari e repressivi: moti nel Ravennate e nel Bolopese, disordini nel Napoletano, tumulti e insurrezioni in Sicilia. In condizioni di estrema gravità, e rischiando di scontrarsi con chi chiedeva interventi straordinari dell'esecutivo, il C. si attenne come ministro a principì di correttezza costituzionale che rievocavano i suoi interventi in difesa della libertà nei primi anni di vita dello Statuto. Al generale Medici che, inviato come prefetto a Palermo, chiedeva energici richiami del governo nei confronti della magistratura restia a sostenere le forze di pubblica sicurezza e troppo lenta nel portare avanti i procedimenti penali contro la delinquenza, il C. oppose un netto diniego, adoperandosi invece per l'approvazione di leggi per la costruzione di strade e ferrovie, alcune delle quali andarono effettivamente in porto fra l'estate e l'autunno del 1868.
Come presidente della commissione governativa per la riforma dell'amministrazione centrale e periferica e come ministro dell'Interno il C. presentò diversi progetti di legge e di regolamenti per il potenziamento del decentramento burocratico e per la definizione dei poteri politici, amministrativi e finanziari delle prefetture; e poiché alle sue proposte furono apportate modifiche che egli non volle accettare, il 10 sett. 1868 il C. si dimetteva dal ministero, pubblicando uno scritto, Le seicento delegazioni governative (Firenze 1868), in cui riassumeva i motivi di validità del suo progetto di legge. Questo fu discusso - con le modifiche apportate - fra il dicembre del '68 e il marzo del '69 insieme con quello presentato dal Cambrai-Digny sulle intendenze di finanza provinciali. Rientrato con decreto del 10 nov. 1868 al Consiglio di Stato, era nominato il 30 marzo 1869 vicepresidente del Consiglio del contenzioso diplomatico.
Ma quello stesso anno si verificò un'altra svolta nella sua vita; infatti poco dopo, l'11 apr. 1869, Menabrea nominava il C. inviato straordinario e ministro plenipotenziario di prima classe a Londra presso la corte di S. Giacomo. Sebbene egli si fosse, occupato più volte nel corso della sua attività parlamentare anche di problemi di politica internazionale (ad esempio, in occasione della guerra di Crimea e della convenzione di settembre), è un po' difficile cogliere le ragioni di questa scelta. A Londra peraltro rimase sino al primo aprile del 1875, trascorrendovi dunque alcuni tra i più cruciali anni della storia italiana ed europea e occupandosi di problemi di eccezionale importanza: la successione al trono di Spagna, il conflitto franco-prussiano e l'atteggiamento dell'Italia, la questione romana, la questione orientale e il problema degli Stretti (conferenza di Londra del novembre 1870) e via dicendo. Fra le trattative di maggior impegno da lui condotte fu la negoziazione della neutralità italiana nella guerra franco-prussiana, che consentì poi la liberazione di Roma; anche la parte da lui avuta nella conferenza sugli Stretti e nel garantire il benevolo atteggiamento dell'opinione pubblica e del governo inglese nella questione romana e sul problema delle guarentigie al pontefice fu assai notevole.
L'esperienza londinese fu importante anche per altri due motivi: il primo è l'interesse che anche in futuro egli conserverà per i problemi di politica estera (e di cui sono prova alcuni scritti come Le relazioni internazionali dell'Italia e la questione d'Egitto, Torino 1882; La triplice alleanza e i pericoli interni ed esterni dell'Italia, Firenze 1883; Le interpretazioni abusive dei convegni internazionali ed in ispecie di quelli di Londra per l'Egitto, in Rassegna di scienze sociali e polit., II [1884], pp. 227-38); il secondo è l'amicizia ch'egli strinse con il Gladstone e la consonanza di idee che pur nella diversità di credo egli ebbe con questo in fatto di rapporti Stato-Chiesa e di riforma religiosa, tanto che non si può escludere una influenza diretta dell'inglese sugli atteggiamenti che il C. mostrerà nell'ultimo periodo della sua vita.
Morto il 4 dic. 1874 il senatore L. Des Ambrois, che era stato presidente del Consiglio di Stato, salvo brevi interruzioni, dal 1859, il C. venne richiamato da Londra e destinato a succedergli nell'importante incarico, ch'egli tenne per sedici anni, sino alla morte. Una volta al vertice di un organo che pur avendo nell'ordinamento del Regno - almeno sino al 1889 - solo o prevalentemente fluizioni consultive, era tuttavia assai ascoltato e dall'esecutivo e dal Parlamento e che con i suoi pareri tracciava una serie di principi che era difficile disattendere da parte degli altri organi dello Stato, esercitando quasi una fimzione di indirizzo per questi organi stessi, il C. fini con l'avere una influenza notevolissima nella vita politica e amministrativa dello Stato. Non esiste purtroppo uno studio sui riflessi politici dell'attività del Consiglio di Stato nella condotta del governo dopo l'unità e in particolare nel periodo in cui ne fu presidente il C., ma lo Jemolo (Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1971, p. 337) ha potuto dimostrare che, almeno in materia ecclesiastica, il Consiglio, con i suoi pareri, esercitò un'azione nettamente moderatrice rispetto alla politica tendenzialmente anticlericale e talora provocatoria della Sinistra e ha ricordato ad esempio il parere del 22 dic. 1877 sulla conservazione al culto delle chiese di titolo cardinalizio, quello del 27 febbr. 1878 con il quale si affermava che la legge delle guarentigie doveva qualificarsi come legge fondamentale - costituzionale - dello Stato e infine quello del 23 dic. 1885 sulla irrevocabilità dell'exequatur e del placet una volta concessi.
Questa azione moderatrice svolta dal C. attraverso il Consiglio di Stato è tanto più singolare quanto più critico parve divenire il suo atteggiamento nei confronti della politica ufficiale della S. Sede e delle correnti clericali, in particolare della Civiltà cattolica; e quanto più radicale poté sembrare il suo pensiero sul problema dei rapporti Stato-Chiesa e sulla funzione stessa della religione. Il C. era noto per la sua religiosità intima e austera, cui non era stato estraneo l'influsso del Towiański o del suo circolo; per l'intransigente difesa della libertà di coscienza; per l'avversione ad ogni prevaricazione sia della Chiesa sia dello Stato al di fuori del proprio ambito legittimo, e per questo si era mostrato sempre duro tanto contro le dottrine giurisdizionalistiche che contro le tendenze teocratiche e integraliste.
Nelle discussioni del 1865 sul matrimonio civile il C., distinguendosi sia dal gruppo di senatori cattolici d'antica nomina - come lo Sclopis, il Castagnetto, il Thaon di Revel, monsignor Calabiana - sia dai pochi deputati cattolici che sedevano alla Camera - come C. Cantù e D'Ondes Reggio -, che vi si opponevano, si pronunciò apertamente in favore del matrimonio civile e nel 1879 sostenne in una relazione preliminare in Senato il progetto di legge - poi caduto - sulla precedenza obbligatoria del matrimonio civile sul rito religioso; nel 1877 inoltre approvò, pur giudicandola impolitica e illiberale per la veste eccezionale che le si dava, la legge sugli abusi dei ministri del culto proposta dal Depretis e dal Mancini e respinta dal Senato. Questi precedenti e alcuni articoli pubblicati dal C. nel 1882 sulla Gazzetta d'Italia e sull'Opinione, fortemente critici verso i gesuiti, indussero la Civiltà cattolica a un duro attacco contro il vecchio senatore piemontese. La polemica si protrasse per anni, spostandosi, pur senza lasciar mai il piano personale, sul tema più generale del contrasto fra cattolici e liberali a proposito della concezione dello Stato, che il C. definiva il "solo potere sovrano giuridico sociale", con un significato però ben lontano da quello che gli davano uno Spaventa o altri hegeliani sostenitori dello Stato etico.
L'esigenza di una sistemazione organica del suo pensiero politico e al tempo stesso la difficoltà a ricondurre entro poche essenziali enunciazioni di fondo il suo pensiero gli impedirono di pubblicare il grosso trattato dal titolo Religione, diritto, libertà. Della condizione giuridica delle associazioni e delle autorità religiose negli stati civili, edito postumo in due volumi (Milano 1893), a cura del fratello Raffaele e con prefazione di Marco Tabarrini, successore del C. alla presidenza del Consiglio di Stato. Al lavoro il C. attese almeno per una decina d'anni, corredandolo via via, fra il 1883 e il 1887, di larghe appendici.
Per il C. tutto il sistema dei rapporti Stato-Chiesa deve essere basato sui principi del diritto naturale, secondo il quale il solo ente giuridico sovrano è lo Stato. Il diritto naturale, che ha a fondamento la persona umana, riconosce bensì l'esistenza di altre "associazioni", sia civili sia religiose, in quanto queste "non sono altro che il risultamento collettivo di molti diritti individuali messi ingieme mediante l'esercizio del diritto e della libertà individuale": e con queste associazioni lo Stato può intrattenere e intrattiene rapporti giuridici; nessun rapporto invece lo Stato può avere, sul piano giuridico, con le "istituzioni" religiose e quindi con la Chiesa in quanto istituzione. Per quanto riguarda in particolare i rapporti Stato-Chiesa in Italia e il problema della conciliazione, il C. tira le conseguenze delle sue premesse affermando che il problema non sussiste; fu la "scuola teoretica clericale", nel Medioevo, a trasmutare il fatto in diritto, cioè a passare dal fatto storico della "proprietà" alla affermazione del principio della "sovranità" temporale: ma del tutto indebitamente. Dopo la caduta della sovranità temporale, perciò, parlare di conciliazione nel senso di "transazione", cioè di trattative e di accordo fra poteri sovrani (si veda in proposito il suo saggio Ilprincipio della rinascenza e uno strascico del Medio Evo, ossia la Conciliazione-transazione, Roma 1887), non ha senso.
La maggior parte di queste idee del C. e le conseguenze che ne derivano sul piano pratico erano via via affiorate nei suoi interventi parlamentari e nelle relazioni ai disegni di legge di soppressione degli enti religiosi regolari e di riforma dei patrimoni ecclesiastici, in particolare nella relazione al progetto di legge del 1867 sulla soppressione di enti religiosi non compresi fra quelli soppressi nel 1866, e soprattutto nella relazione accompagnatoria del Disegno di legge sull'ordinamento degli enti morali civili del culto cattolico e sull'amministrazione dei loro beni preparato da una commissione, presieduta dal C., incaricata - con r.d. 12 maggio 1885 - di esaminare la complessa materia dell'assetto del patrimonio ecclesiastico a cui si riferiva la riserva fatta dall'art. 18 della legge delle guarentigie. La relazione e il progetto di legge redatti dal C. non furono mai resi noti ufficialmente ma le notizie trapelate al momento del deposito degli atti, nel febbraio del 1887, scatenarono aspre polemiche da parte cattolica contro il presidente del Consiglio di Stato; e se anche amici suoi di fede cattolico-liberale ne restarono perplessi e lo stesso monsignor Bonomelli in una serie di lettere cortesi e amichevoli espresse al C. il suo dissenso, l'Osservatore cattolico usò contro di lui tutto il repertorio delle invettive clericali più trite.
Il progetto, riprendendo vecchie tesi e vecchie proposte altre volte fatte in Parlamento - questo del C. non verrà comunque neppure discusso -, prevedeva l'esautorazione completa dei vescovi e dei parroci dall'amministrazione dei benefici ecclesiastici, che veniva invece affidata a congregazioni diocesane e parrocchiali composte di laici eletti popolarmente e conteneva una serie di disposizioni legate a questo principio, la più radicale delle quali era contenuta nell'art. 22 che prevedeva il diritto di veto da parte delle congregazioni alla nomina di un ministro del culto non accetto ai fedeli (ma era escluso che esse potessero conservare nel possesso dei beni ministri di culto sospesi o colpiti da altri provvedimenti disciplinari da parte del superiore ecclesiastico). Era abbastanza naturale che il tentativo d'introdurre principi democratici o se vogliamo "costituzionali" nella Chiesa - come li definiva lo Scaduto (1888, p. 2) riferendosi al diritto di veto riconosciuto alle congregazioni parrocchiali e diocesane - allarmasse la gerarchia e disorientasse il mondo cattolico; obiettivamente il C. con queste proposte retrocedeva dalle sue posizioni di "separatista", in quanto le congregazioni amministratrici dei beni ecclesiastici così configurate venivano a riunire in sé funzioni proprie delle "istituzioni" religiose - e come tali senza possibilità di rapporti giuridici con lo Stato - e delle "associazioni religiose", la cui esistenza (riconoscimento, soppressione, modalità di esercizio dei propri diritti e fimzioni) era una questione di fatto che poteva rientrare nella valutazione politica degli organi dello Stato.
Le polemiche, in cui intervenne anche Leone XIII con un accenno al progetto in una allocuzione del 25 nov. 1887, si inserirono nella fitta trama di scritti, discorsi, corrispondenze, incontri che caratterizzarono il tentativo conciliatorista del 1887 e non è da escludere che la diffusione del contenuto del progetto C. contribuisse a favorire il fallimento del tentativo: tanto più che il C. pubblicava quello stesso anno il ricordato saggio sulla "conciliazione-transazione" cui seguiva l'anno dopo il saggio Del primo ed unico principio del diritto pubblico clericale (Roma 1888) che non erano certo adatti a calmare le acque.
Fermissimo comunque nelle sue convinzioni di cattolico-liberale e sempre tenace avversario del temporalismo e del clericalismo integralista, trascorse gli ultimi anni della sua vita - attivissimo nonostante l'età avanzata - in continua corrispondenza con amici che nutrivano analoghi se non identici sentimenti politici e religiosi, come Tancredi Canonico, Fedele Lampertico, Luigi Zini, Marco Tabarrini, i vescovi Bonomelli e Puecher Passavalli e via dicendo; rivedeva intanto il suo trattato con note e appendici in cui faceva sempre più largo posto, per avvalorare le sue posizioni, agli scritti del Rosmini. del Capecelatro, del Curci, del Newman, del Gladstone e d'altri scrittori difensori della libertà di coscienza di fronte all'autoritarismo gerarchico.
Il C. morì il 2 dic. 1891 assistito dal fratello Raffaele, a Roma, dove ebbe, il giorno dopo, solenni funerali di Stato. Fu sepolto a Pallanza, dove il 6 ott. 1895 gli veniva inaugurato un piccolo monumento.
Altri scritti del C. in aggiunta a quelli già citati sono i seguenti: Sul libero cabotaggio fra Napoli e Sicilia, Vigevano 1838; Della educazione ed istruzione per le classi povere delle civili società in genere, ibid. 1838; Degli studi ossia scuole infantili, Torino 1839; Del modo di provvedere alla revisione degli impieghi, degli stipendi e delle pensioni di riposo, ibid. 1850; Lettera sui fatti di Novara del marzo 1849, in A. Brofferio, Storia del Parlamento subalpino, II, Milano 1866, pp. XCIX-CXXVII; Vita e scritti di C. Bagnis, Roma 1880; Ultime onoranze a C. Bagnis, ibid. 1880; La politica del conte di Cavour nelle relazioni tra la Chiesa e lo Stato, in Nuova antologia, 15 apr. 1882, pp. 637-58; La triplice alleanza e la stampa francese, in Rassegna di scienze sociali e politiche, I(1883), pp. 281-98, 401-416; I risultati pratici della recente conferenza di Londra per le cose dell'Egitto, ibid., II(1884), pp. 3-15; L'espansione coloniale dell'Italia, ibid., III(1885), pp. 117-135; Religione e politica nei partiti, ibid., VIII (1890), pp. 217-243.
Fonti e Bibl.: Documenti, lettere e fonti per la biografia del C. sono siparsi in vari archivi, ma in modo iparticolare a Roma, nell'Archivio del Consiglio di Stato (presso l'Archivio Centrale dello Stato), Registro generale della magistratura, cart. 4, e nell'archivio della fam. Cadoma a Pallanza (Carte di C. C., docc. e corrispondenza); nel Fondo Bonomelli della Biblioteca Ambrosiana di Milano (aa. 1887-1891) è conservata la corrispondenza col Bonomelli stesso, e nel Museo del Risorg. di Torino, Fondo L. Zini, ilcarteggio con lo Zini. Lettere del C. sono edite in La corte di G. Lanza, a cura di C. M. De Vecchi di Val Ciamon, I (1828-1863), Torino 1935; II (1858-1863), ibid. 1936; IV (1866-1869), ibid. 1937; VII (1871), ibid. 1939, ad Indices; Carteggi di V. Gioberti, V, Roma 1937, p. 192; Lettere a mons. Bonomelli, a cura di C. Bellò, Roma 1961, pp. 102-123. Per i discorsi, interventi e disegni parlamentari, si vedano gli Atti del Parlamento subalpino e gli Atti parlamentari della Camera e del Senato, ad Indices.Per l'attività diplomatica, cfr. Idocc. diplomatici ital. Prima serie: 1861-1870, XIII (5 luglio-20 sett. 1870), Roma 1963, ad Indicem; Seconda serie: 1870-1896, I (21 sett.-31 dic. 1870), ibid. 1960, ad Indicem.Sul C.si veda: [M. Liberatore], La teoria giuridica dei clericali giudicata dal signor senatore C. C., in Civiltà cattolica, XXXIII(1882), pp. 322-335, 444-456; V. Cobianchi, Il Carroccio,in Rassegna nazionale, IX(1887), pp. 444-467; F. Scaduto, Ilriordinamento dell'asse ecclesiastico, in Il Circolo giuridico, s. 2, IX (1888), pp. 185-92; L. Carpi, Il Risorg. ital…, III, Milano 1888, pp. 246-259; F. Scaduto, Guarentigie pontificie e relazioni fra Stato e Chiesa, Torino 1889; M. A. Mauro, C. C., Roma s.d. (ma 1890); A. Gotti, C.C., in Rass. di scienze soc. e polit., IX(1891), pp. 445-452; V. Ansidei, La Chiesa e lo Stato secondo C. C., in Il nuovo Risorgimento, IV(1893-1894), pp. 345-359; A. Romizi, Il ministero della Pubblica Istruzione durante il Regno di Carlo Alberto, in Rivista storica del Risorgimento italiano, I(1895), pp. 945-950; Id., I ministri di Vittorio Emanuele II per la istruzione pubblica, ibid., II(1897), pp. 284-366; Relaz. e rapporti finali sulla campagna del 1849, Roma 1911; M. Falco, La politica ecclesiastica della Destra, Torino 1914; Il carteggio Cavour-Nigra, I, Bologna 1926, p. 171; IV, ibid. 1929, pp. 13-14; S. Jacini, Un conservatore rurale della nuova Italia, II, Bari 1926, pp. 244, 265; A. Codignola, Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri…, Torino 1931, pp. 330, 570, 571, 591, 599, 603, 615, 616, 620, 626, 657; C. Zoli, Cenni biografici dei componenti la magistratura del Consiglio di Stato (1831-1931), in Il Consiglio di Stato…, III, Roma 1932, App., pp. 38-39; Carteggio Cavour-Salmour, Bologna 1936, p. 175; A. Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, parte 1 (1848-1857), I, Firenze 1940, pp. 74, 77, 80, 130, 170, 294; P. Gismondi, Il nuovo giurisdizionalismo italiano, Milano 1946, pp. 129 ss.; V. Del Giudice, La questione romana e i rapporti tra Chiesa e Stato fino alla conciliazione, Roma 1947; A. Moscati, I ministri del '48, Salerno 1948, pp. 272-276; P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1866-1874), Torino 1954; G. Spadolini, L'opposizione cattolica da Porta Pia al '98, Firenze 1955, pp. 721, 723; A. C. Iemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1955, pp. 316, 355, 447, 449; Storia della Sicilia post-unificazione, I, F. Brancato, La Sicilia nel primo ventennio…, Bologna 1956, pp. 342, 344, 348-349; A. Caracciolo, Il Parlamento nella formazione del Regno d'Italia, Milano 1960, pp. 196, 305, 309, 311, 315; Storia del Parlamento italiano, a cura di G. Sardo, I-IV, VI, Palermo 1963-1969, ad Indices;G. Talamo, La scuola dalla legge Casati alla inchiesta del 1864, Milano 1960, p. 123; G. Astori, L'opuscolo di mons. Bonomelli "Roma l'Italia e la realtà delle cose"…, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XV(1961), pp. 460-461; A. Consoli, Possibilità e limiti di una riforma della proprietà ecclesiastica, in Racc. di scritti in on. di A. C. Jemolo, II, Milano 1963, pp. 345-389; C. Pavone, Amministraz. centrale e amministraz. periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1865), Milano 1964, pp.277, 278, 658; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Bari 1965, p. 759; P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d'Italia, Bari 1967, pp. 178, 566; A. Gomez de Ayala, Ilneogiurisdizionalismo liberale, in La legislazione ecclesiastica, a cura di P. A. D'Avack, Vicenza 1967, pp. 123 ss.; C. Mirabelli, I progetti parlamentari di soppressione degli enti religiosi e di riforma dei patrimoni ecclesiastici (1864-1867),ibid., pp. 471-473; P. Guichonnet, C. C., E. F. 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