CARAFA, Carlo
Terzo figlio di Giovanni Alfonso conte di Montorio e di Caterina Cantelmo, nacque nel 1519 (secondo alcuni, nel 1517).
Data la sua posizione di figlio cadetto, dovette cercare la propria strada al di fuori della famiglia. Fu paggio al servizio del card. Pompeo Colonna e non è da escludere che proprio il contatto col bellicoso e potente cardinale gli suggerisse di avviarsi al mestiere delle armi. Quando aveva quindici anni, Paolo III, nel giorno stesso della sua incoronazione papale, lo nominò cavaliere dell'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme e gli concesse il priorato di Napoli dello stesso Ordine: ma l'effettivo possesso del priorato gli fu negato dall'imperatore, cosa di cui il C. si ricordò in seguito per giustificare il carattere antispagnolo della sua politica. Per diciassette anni, a quanto egli stesso ricordava in seguito, militò nell'esercito imperiale e fu impegnato nelle guerre di Germania.
Alcuni episodi di questa vita di soldato, che lasciò impronte profonde sul suo carattere, furono riportati alla luce in seguito, da lui o dai suoi avversari. Nel 1555, redigendo un memoriale che aveva lo scopo di offrire le prove della propria ostilità contro gli Spagnoli, il C. raccontò un episodio, risalente alle guerre contro i protestanti. Sembra che, avendo egli fatto un prigioniero ricco e importante dal quale si riprometteva il pagamento di una forte taglia, un non meglio identificato cavaliere spagnolo glielo avesse sottratto con pretesti falsi e cavillosi. Il C. decise allora di volgersi "alla via dell'armi" e sfidò a duello il cavaliere. Ma fu prevenuto e "fatto prigione in Trento per comandamento di Sua Maestà Cesarea". Finalmente venne liberato, ma solo dietro formale promessa di rinunciare alla taglia (Nonciatures de Paul IV, pp. 259 s.). L'episodio (verificatosi intorno al 1547) documenta, più che le cause riposte della politica antispagnola del C., uno dei modi in cui cercò di far soldi negli anni bui della sua giovinezza di soldato. Intorno al 1545 lo troviamo a Benevento dove, in cambio di tre o quattrocento ducati, si prestò a far da sicario per le vendette private della famiglia Controvieri e uccise un certo Tommaso Panachione. Questa storia venne rievocata nel 1560: i testimoni interrogati a Benevento ricordavano ancora che all'epoca dei delitto "don Carlo era povero gentilhuomo" (Duruy, p. 346). Sempre in quell'anno 1560 Girolamo Muzzarelli rilasciò una dichiarazione scritta a carico del C., nella quale espose una diceria raccolta nel 1556 a Bruxelles; si trattava di una vera e propria accusa di eresia contro l'allora potente cardinale, basata su un episodio avvenuto a Venezia in un'epoca non precisata. Sembra che il C., allora soldato, "vedendo portare il detto sacratissimo sacramento processionalmente, faceva le fica con le mani verso esso sacramento dicendo: 'Io non ti credo, pazzo è chi ti crede. Venga il cancaro a chi ti crede, io non ti credo', et altre simili impietà, delle quali dicevano esser stato fatto processo giuridico a Venetia" (Nuntiaturberichte, s. 1, XIV, p. 420). Il Muzzarelli non aveva atteso il 1560 e la fine della potenza del C. per raccontare questa storia: già nel 1556 ne aveva fatto cenno in un dispaccio a Giovanni Carafa, il che negli ambienti del C. gli aveva valso l'epiteto di "frate porco". Quanto al processo, non se ne trovarono tracce e si disse che forse mons. Della Casa l'aveva fatto sparire.
Nel mestiere delle armi, il C. si guadagnò una certa fama. In un diario contemporaneo della guerra di Siena è ricordato tra i "capitani segnalati". Nel 1552, infatti, si arruolò al servizio del re di Francia e combatté agli ordini di Piero Strozzi nel lungo conflitto senese. Anche tra le sue gesta di quegli anni gli accusatori del 1560 andarono a cercare prove di eventuali crimini; si scoprì così che aveva fatto sterminare senza pietà soldati spagnoli feriti e privi di armi fatti prigionieri in un ospedale. Tra il 1552 e il 1555 si legò d'amicizia coi fuorusciti fiorentini, tra i quali in seguito scelse in genere i suoi uomini di fiducia. Nel 1555 si trovava di guarnigione a Porto Ercole, quando l'ambasciatore francese a Roma Jean d'Avanson si ricordò di lui e scrisse a Piero Strozzi il 23 marzo ordinandogli di mandarlo a Roma al servizio del Collegio cardinalizio; Giulio III era morente, il decano del collegio era zio del C. e quindi poteva essere utile che questi si recasse a Roma. I due conclavi che si succedettero a breve distanza di tempo l'uno dall'altro videro così intensificarsi i suoi rapporti con lo zio cardinale e quando quest'ultimo fu eletto pontefice, il 23 maggio, il C. comparve a fianco del fratello maggiore in Vaticano. In un primo momento la sua posizione fu di secondo piano e si pensò che gli sarebbero stati dati incarichi adeguati alla sua precedente carriera di soldato. Ma suo fratello Giovanni, che lo conosceva per un "cervello... gagliardo" e che vedeva nei suoi legami con lo Strozzi e la Francia un inciampo per la politica di accordi con Carlo V verso la quale voleva indirizzare lo zio papa, vide con favore una diversa soluzione, quella di farlo diventare cardinale. Si trattò di convincere non solo il C., che all'inizio si mostrò renitente, ma soprattutto l'ambasciatore spagnolo - che lo considerava un ribelle - e, alla fine, papa Paolo IV. Nel concistoro del 7 giugno 1555 la concorde insistenza dei cardinali di ambo le parti politiche finì col convincere il papa e il C. fu fatto cardinale. Ma, poiché i suoi precedenti erano ben noti, subito dopo - il 13 giugno - gli venne concessa una bolla con la quale lo si assolveva da tutti i delitti commessi nel passato. L'elenco era molto dettagliato: si parlava di rapine, sacrilegi, furti, omicidi e così via.
La tradizione dei cardinali nipoti si arricchiva così di un nuovo caso, per più aspetti eccezionale: l'alta dignità ecclesiastica, pur venendo dalle mani di un papa notoriamente rigido e ascetico, non cambiò infatti per niente i costumi del C. in quelli di un uomo di chiesa. Cardinale dell'ordine dei diaconi, non prese gli ordini maggiori e non si preoccupò nemmeno di familiarizzarsi con l'uso del latino. Ebbe invece ben presenti i modelli del grande nepotismo mediceo e farnesiano, che personaggi della sua cerchia come il principe di Salerno gli ricordarono in memoriali scritti poco dopo la nomina cardinalizia: si trattava di approfittare del tempo presumibilmente breve offerto dal pontificato dell'anziano Paolo IV non semplicemente per accumulare ricchezze ma per crearsi una potenza territoriale. Il primo a fare le spese di questi progetti fu il fratello Giovanni; alla metà di luglio questi dovette cedere al C. la direzione degli affari di Stato e la residenza in Vaticano nell'appartamento Borgia. Già il 16 luglio Paolo IV inviò al nunzio Muzzarelli a Bruxelles un breve col quale lo informava del cambiamento avvenuto e della chiamata del C. "in partem harum curarum et negociorum nostrorum ad eandem ecclesiam sedemque apostolicam pertinentium" (ibid., p. 278). Analogo breve venne spedito il 25 luglio al nunzio in Francia. Questo rapido rovesciamento della situazione fu la prima tangibile prova del grande ascendente che il C. sapeva esercitare su Paolo IV, dimostrando (come scriveva Bernardo Navagero) "giudicio mirabile nel conoscere quello che piace al Papa".
Tutti si resero allora ben conto che a questo cambiamento di persone sarebbe corrisposto un cambiamento di politica. Se Giovanni aveva manifestato l'intenzione di restar fedele all'imperatore, del quale era anche vassallo, il C. si schierò subito nettamente dalla parte francese. Fin dal 1º giugno 1555 aveva scritto a Enrico II per garantirgli fedeltà al partito filofrancese. Dopo l'elezione cardinalizia si era circondato di fuorusciti fiorentini e napoletani, come Giovanni Della Casa, Silvestro Aldobrandini, il duca di Somma, Annibale Rucellai. Una volta avuta nelle mani la segreteria di Stato, vi collocò i suoi fiduciari, affidando in particolare a mons. Della Casa il disbrigo della corrispondenza diplomatica. I primi risultati di questo mutato indirizzo politico si videro già nel mese di agosto, in occasione dell'incidente creato dagli Sforza quando portarono via le proprie galere sequestrate nel porto di Civitavecchia per ordine di Enrico II. Fu il C. a condurre in prigione il 30 agosto il cardinal Sforza; nello stesso periodo dette prova delle sue capacità di soldato nel predisporre le operazioni che portarono alla conquista dei feudi dei Colonna. Alcuni tra i più fedeli partigiani dell'imperatore venivano così colpiti duramente, e il C. poteva distribuire tra i parenti i loro beni: suo fratello Giovanni divenne in tal modo duca di Paliano. Ma il risultato più importante era che l'ostilità di Paolo IV verso l'imperatore si era risvegliata e fatta molto forte.
Per questa via il C. si proponeva di rimettere in discussione l'assetto della penisola italiana in modo da ricavarne compensi territoriali per la sua famiglia. In settembre spedì in missione presso Enrico II Annibale Rucellai con istruzioni che prevedevano la conclusione di una lega antimperiale tra Francia, Stato della Chiesa e Ferrara. Per parte sua, il C. si impegnava a impadronirsi dell'Abruzzo ed a sfruttare la potenza della famiglia nel Regno di Napoli fin dalle prime battute della eventuale futura guerra. Il 10 settembre, poco prima della partenza del Rucellai, inviò un altro suo uomo di fiducia, Giovanni Andrea da Gubbio, a Ferrara, con l'incarico di preparare il terreno per l'entrata del duca nella lega: si trattava, in questo caso, di riparare i danni prodotti dal papa, che aveva bandito qualche giorno prima, in modo impulsivo e violento, il cardinale Ippolito d'Este dallo Stato della Chiesa. I negoziati per la conclusione della lega furono seguiti dal C. con grande cura e attenzione. Il 20 settembre fece inviare al Rucellai una lunga relazione di come si fosse giunti alla liberazione del cardinale Sforza e delle misure prese per limitarne la libertà di movimento: bisognava evitare che alla corte francese non si ritenesse affievolita l'ostilità del papa verso il partito imperiale. A riprova dell'immutato potere che era in grado di esercitare sullo zio, il C. informò Enrico II di come aveva bloccato all'ultimo momento una promozione cardinalizia nella quale sarebbero dovuti entrare otto prelati, in prevalenza filoimperiali: il controllo sulle nuove nomine di cardinali interessava evidentemente ad ambedue in vista del futuro conclave, che l'avanzata età di Paolo IV faceva ritenere non lontano. Intanto, movimenti di truppe spagnole ai confini dello Stato della Chiesa e voci di complotti e di attentati spinsero il papa a schierarsi apertamente contro l'imperatrice: il 30 settembre, in una riunione alla quale furono presenti tra gli altri il C. e l'ambasciatore francese, invocò l'aiuto di Enrico II per liberare l'Italia dalla tirannia di Carlo V e concluse incaricando il nipote di discutere i dettagli per la conclusione della lega. Il 14 ottobre questi poté presentare alla firma del papa e dell'ambasciatore francese d'Avanson un progetto di trattato: in esso si promettevano Siena ai Carafa, e al re di Francia il Regno di Napoli e lo Stato di Milano in caso di vittoria. Si trattava ora di aspettare l'arrivo dei cardinali di Lorena e di Tournon coi pieni poteri necessari per ratificare l'accordo. Nel frattempo, bisognava dissimulare agli occhi dei rappresentanti dell'imperatore e di Cosimo I il corso preso dalla politica papale e il peso che il C. esercitava sempre più su di essa. Paolo IV fece mostra di intenzioni pacifiche e si fece credere che suo nipote si occupasse ormai di messe e di pratiche religiose. Ma non sfuggì al rappresentante di Cosimo, il Serristeri, l'arrivo il 15 novembre di due inviati senesi da Montalcino ai quali, a quanto egli riuscì a sapere in seguito, il C. promise la liberazione di Siena. Nell'accordo che i plenipotenziari francesi firmarono il 15 dicembre Siena figurava sulla carta come futuro possesso della Sede apostolica o, più precisamente, della famiglia Carafa. Cominciarono a questo punto i preparativi militari e, di conseguenza, si fece sempre più insostenibile la tattica della simulazione fino ad allora praticata con gli Imperiali. Ma la lentezza e i ritardi con cui Enrico II faceva fronte ai suoi impegni spinsero il C. a mandargli, il 20 genn. 1556, il duca di Somma in missione segreta per ottenere che si affrettassero i tempi dell'esecuzione del trattato.
In questa fase di preparativi e di attese si inserì anche un episodio che doveva avere successivamente gravi conseguenze per il C.: un inviato di Alberto di Brandeburgo, Federico Spedt, si recò a Roma per trattare un progetto di alleanza antimperiale. Lo Spedt, che aveva conosciuto il C. ai tempi della guerra smalcaldica, recava proposte molto precise: sulla base dei comuni interessi antiasburgici, il marchese di Brandeburgo si impegnava a entrare nella lega franco-papale e a combattere contro l'imperatore, facilitando così il compito degli alleati in Italia, a patto di venir finanziato dal papa e, soprattutto, di godere di totale libertà nelle materie religiose fino alla conclusione di un concilio generale. In cambio, Siena veniva garantita alla famiglia Carafa. Questo era il terreno su cui il nepotismo aveva finito col condurre Paolo IV. Solo l'intervento di Otto Truchsess convinse a licenziare lo Spedt e a interrompere le trattative. Ma la questione della lega antimperiale subì in quello stesso mese di febbraio un arresto che sembrò definitivo: mentre gli inviati del C. in Francia e a Ferrara si adoperavano per accelerare i tempi, giunse a Roma, il 14 febbraio, un corriere del nunzio in Francia Sebastiano Gualterio con la notizia della tregua quinquennale di Vaucelles.
Il C. rimase, a suo dire, "attonito" a tale nuova. Ma non rinunziò a perseguire ugualmente lo scopo della sua politica, cioè la costituzione di un possedimento territoriale per sé e per la propria famiglia. Lo Stato senese era ancora al centro delle sue aspirazioni. L'obiettivo che egli si propose a partire da questo momento fu quello di spingere Enrico II alla rottura della tregua e alla riapertura delle ostilità, cercando contemporaneamente di spingere Filippo II a concludere col papa una pace con adeguati compensi. La sua prima reazione fu in tono irritato e recriminatorio: egli si vedeva ridotto "a pessimo partito" (lettera al duca di Somma del 15 febbraio, in Ancel, Nonciatures, pp. 347 ss.). Il suo prestigio in Curia era messo in pericolo; non solo il papa gli rimproverava di avergli fatto fare un passo falso, spingendolo a scoprirsi troppo contro Carlo V, ma tutti gli altri parenti si ribellavano ormai alla sua autorità, "perché - scriveva al duca di Somma il 5 marzo - io solo sono stato in questa opinione contro il parer de' miei fratelli et di molti altri" (ibid., p. 363). Ma quando scriveva queste parole il C. si era ormai ripreso dalla crisi provocata dalla notizia della tregua ed era in grado di provvedere al suo "particulare" seguendo i consigli di monsignor Della Casa, che erano di questo tenore: "...Tenere pratica alla corte del re [Enrico II] ... et provare di rompere la sospensione, et, quando questo non riuscissi, almeno mantenere la pratica et mostrare maggiore speranza etiam di quello che si havessi per dar gelosia... agli imperiali"; e, una volta che "la gelosia fussi nata et sparsa" suggerire agli stessi Imperiali di offrire Siena al papa per guadagnarselo (ibid., p. 598). Del resto, le mire del C. su Siena, a questa data, non erano più un mistero per nessuno. L'ambasciatore fiorentino a Roma paventava imminente in questo periodo una donazione da parte di Enrico II dei territori senesi da lui controllati al papa e alla sua famiglia. La linea di condotta consigliata nel parere di monsignor Della Casa era perfettamente aderente alle idee del C., che si mosse appunto in quel senso. Dopo avere recuperato completamente il suo ascendente sul papa, sfruttandone abilmente l'ostilità contro gli Asburgo, si fece nominare legato in Francia.
La bolla di nomina, datata 10 aprile, indicava lo scopo della missione nel desiderio del papa di pacificare la cristianità, ma le istruzioni segrete che il C. portò con sé parlavano tutt'altro linguaggio. In esse, articolate in cinquantratré punti, venivano esposte tutte le ragioni per le quali Enrico II si doveva convincere ad abbandonare le trattative di pace e a passare alla guerra: della tregua vi si diceva che Enrico II ne avrebbe ricavato solo "danno grandissimo" perché nel corso di essa il rapporto di forze poteva cambiare solo in peggio per la Francia (data anche la possibile elezione di un nuovo papa non così antispagnolo come Paolo IV). Quanto alla situazione italiana, essa veniva raffigurata come molto favorevole ai Francesi, che potevano contare inoltre sull'alleanza coi Turchi, sulla non completa pacificazione della Germania e sulla giovane età e inesperienza di Filippo II; i Carafa, per conto loro, chiedevano in cambio del loro appoggio la concessione dei territori senesi (ibid., pp. 603 ss.).
Assieme al C., fu nominato legato per la pace presso la corte di Bruxelles il cardinal Rebiba; ma si trattava di una missione intesa a gettar fumo negli occhi. Quanto al C., prima di partire per la Francia, il suo tempo fu dedicato a seguire la questione dei feudi colonnesi. Il 10 maggio Paolo IV concesse l'investitura del ducato di Paliano al nipote Giovanni. Il C. volle accompagnare suo fratello a Paliano e seguire personalmente l'inizio dell'opera di fortificazione di quel castello, affidata al suo protetto Piero Strozzi. In questo modo, da un lato alimentò con preparativi di guerra l'ostilità del partito imperiale, già colpito dalla condanna dei Colonnesi, dall'altra riconfermò la sua posizione di capo all'interno della famiglia. Partendo per la Francia poté così lasciare la direzione degli affari politici nelle mani del fratello Giovanni con la sicurezza che le sue direttive sarebbero state eseguite. Il 19 maggio lasciò Roma con un seguito imponente di circa 250 persone e si imbarcò a Civitavecchia. A Nemours gli vennero consegnate le istruzioni segrete, che fece compendiare dal Rucellai in un documento più breve, in modo da averne ben presente il contenuto fin dal primo incontro col re a Fontainebleau. Giunse a corte il 16 giugno e vi fu ricevuto con accoglienze solenni. Dopo un primo incontro col connestabile de Montmorency, fu ricevuto da Enrico II, al quale espose gli scopi ufficiali della sua missione: l'intenzione del papa di convocare un concilio a Roma e la sua volontà di incoraggiare le trattative di pace tra Enrico II e Filippo II. A partire da questo momento, le trattative si svilupparono seguendo un doppio binario: da un lato quello ufficiale, relativo alla conclusione della pace e alla convocazione del concilio, dall'altro quello reale, teso alla rottura della tregua e all'attuazione di quanto si era stabilito nella lega del dicembre 1555. Nonostante questo doppio gioco, sugli intenti effettivi della missione del C. nessuno aveva dubbi. Proprio su questo, come sul rapido deterioramento dei rapporti tra il papa e gli Imperiali, egli faceva conto per raggiungere i suoi obiettivi.
Il 13 luglio scrisse al fratello Giovanni che l'imperatore si era lamentato con l'ambasciatore veneziano affermando "che io ero venuto qua sotto pretesto di trattar la pace, ma che i miei negotii erano di guerra, et che io procuravo di far una lega offensiva tra Nostro Signore et il re et il duca di Ferrara, per far un figlio di Sua Maestà Christianissima re di Napoli, et far un duca di Milano italiano" (ibid., p. 430). Nella stessa lettera riferì minutamente di un incidente diplomatico da lui creato a bella posta con l'ambasciatore imperiale. Intanto, non perdeva di vista gli avvenimenti italiani e il modo in cui si andava sviluppando la manovra diplomatica da lui ideata. In un dispaccio del 17 luglio criticò l'invio del fratello Antonio a Venezia: data l'importanza di un eventuale assenso di Venezia a entrare nella lega, il C. avrebbe desiderato l'invio di "un huomo, che potesse far più frutto et manco rumore" (ibid., p. 439). Come segno del proprio favore, Enrico II gli concesse il vescovato di Comminges. Quando il concistoro si riunì per dargliene la provvisione, esplosero contro di lui le ostilità dei cardinali legati agli Asburgo. Si cercò di far vibrare nel papa la corda presumibilmente più sensibile, quella cioè dell'obbligo di residenza dei vescovi, e si fece presente che il C. difficilmente avrebbe potuto risiedere in diocesi; che, d'altra parte, la sua ignoranza del latino oltre che del francese gli avrebbe comunque impedito di governare spiritualmente la diocesi. Il C. reagi con una lettera violentissima, zeppa di pesanti ed esplicite allusioni ai precedenti politici e morali dei suoi avversari.
Intanto, in Italia ci si avviava rapidamente alla guerra. L'arresto del maestro delle Poste imperiali, avvenuto a Terracina il 7 luglio, e quello di Garcilaso de la Vega, seguito a Roma il 9 luglio, avevano dato chiara prova di quale fosse la posizione personale di Paolo IV. Gli aperti preparativi di guerra fatti nel corso dei mesi di luglio e agosto furono seguiti attentamente dal C., che teneva d'occhio non solo il Regno di Napoli, ma anche la Toscana, verso la quale consigliò di far muovere i fuorusciti fiorentini e senesi. Sulla base di questi indizi di un prossimo conflitto, chiese al re di Francia l'applicazione delle clausole della lega, e cioè il versamento di un deposito in danaro e l'invio di navi e di soldati per la difesa di Roma e del papa. Le risposte del re furono sostanzialmente evasive, ma la situazione che si era creata era ormai tale da incoraggiare il C. nelle sue speranze. Giungeva intanto a termine la missione del cardinale Rebiba alla corte imperiale. Il cardinale non aveva ancora raggiunto la sua destinazione quando venne richiamato a Roma; i tempi erano ormai maturi per far cessare questa manovra diversiva, messa in piedi per far credere alla imparzialità e al desiderio di pace del papa. Agli inizi d'agosto, anche la legazione del C. si concluse, dopo la presentazione a Enrico II di un ultimo memoriale, nel quale, fra l'altro, egli si assumeva esplicitamente in prima persona la responsabilità della politica ostile perseguita dalla S. Sede nei confronti degli Asburgo. L'11 agosto prese congedo dal re e partì per l'Italia. Lo precedette Annibale Rucellai, con l'incarico di riferire al papa sull'esito positivo della legazione. Il C. invece sostò a Lione per attendere l'allestimento delle galere e l'imbarco delle fanterie. I ritardi e la scarsa propensione del sovrano a mantenere sollecitamente le promesse suscitarono le lamentele del C., il quale solo il 5 settembre poté mettersi in viaggio per mare, con una flotta di venti galere e con un migliaio di soldati. Ma a questa data il duca d'Alba aveva ormai rotto gli indugi, passando i confini dello Stato della Chiesa e sfondando le fragili difese pontificie. L'arrivo del C. il 7 settembre rincuorò il papa, anche perché egli prese rapidamente in pugno la situazione con grande energia, riorganizzando le difese della città in vista di un assedio e sviluppando una intensa azione diplomatica. Quest'ultima fu indirizzata da un lato a difendere il papa da ogni accusa di aver voluto la guerra, dall'altro a rafforzare la lega. Particolare importanza assunse, da quest'ultimo punto di vista, la missione del Commendone a Venezia, dove fu spedito dal C. verso la metà di settembre. L'entrata di Venezia nella lega era di estrema importanza per il buon esito del conflitto che si era aperto, e il C. non trascurò nessun tentativo in proposito. La situazione dal punto di vista militare si andava intanto evolvendo in maniera disastrosa per le forze papali. La caduta di Anagni il 16 settembre faceva gravare sempre più su Roma la minaccia dell'assedio e del saccheggio. Le truppe del duca d'Alba si facevano vedere sempre più spesso sotto le mura e lo stesso C., che durante una di queste scorrerie uscì a passeggio fuori porta per tranquillizzare la popolazione, evitò di esser fatto prigioniero solo a prezzo di una fuga al gran galoppo. Intanto l'incertezza sulla reale disposizione di Enrico II ad affrontare una guerra fece sì che anche gli aderenti al partito filofrancese consigliassero l'apertura di trattative col duca d'Alba. Dopo una missione mediatrice del domenicano Tomás Manrique e l'esame delle richieste del duca da parte di una commissione cardinalizia, fu stabilito per il 24 settembre un incontro tra il C. e il duca stesso a Grottaferrata. Ma all'ultimo momento, il papa trattenne a Roma il nipote, temendo un qualche attentato, e il duca attese invano l'interlocutore. Il C. era disponibile ad un accordo che permettesse di salvare la "reputatione", come scriveva all'Antinori in Francia il 19 settembre (ibid., p. 465), ma non cessava di chiedere, aiuti a Enrico II, minacciando un accordo con gli Imperiali e facendo intravedere offerte vantaggiose fattegli da questi per convincerlo a cambiare fronte.
L'arrivo da Siena di Blaise de Monluc e dei suoi uomini migliorò la situazione militare. Il C., però, continuava a sperare in un rovesciamento dei rapporti di forza in seguito a una rottura della tregua di Vaucelles e, alla fine di ottobre, dette istruzioni in tal senso al nuovo nunzio in Francia, Cesare Brancaccio. Si era conclusa intanto la missione del Commendone a Venezia, con l'impegno della Serenissima a trattare col duca d'Alba per aprire la via a un accordo. Il C. registrò questo risultato come un successo, visto che - come scriveva al Brancaccio il 12 novembre - si poteva soltanto sperare di "trattenersi i venetiani accioché gli imperiali non se li guadagnassero" (ibid., p. 495). Il 20 novembre, finalmente, il Brancaccio poteva annunziargli che a corte le cose andavano bene, nel senso che il partito favorevole a un più deciso impegno militare aveva preso il sopravvento, data anche la fermezza dimostrata da Paolo IV nel rifiutare ogni accordo con gli Imperiali. Intanto, il duca d'Alba aveva conquistato Ostia, tagliando ai Romani le comunicazioni via mare, ma, trovandosi con un esercito indebolito, aveva chiesto un armistizio. La richiesta era stata accolta. Per il C. si presentava ora la situazione più favorevole per affrontare una trattativa di pace: la lega cominciava a dare i suoi frutti, mentre l'esercito imperiale non osava attaccare Roma. L'assenso del papa alla pace poteva quindi essere negoziato da posizioni di forza.
In questa situazione, la spregiudicatezza e gli intrighi della politica del C. emersero chiaramente. Il 22 novembre partì da Roma e due giorni dopo si incontrò col duca presso Ostia, sull'Isola Sacra, in mezzo al Tevere. L'incontro, sospeso il 26 per riferirne l'andamento al papa, riprese e si concluse il 27. Riferendo al Brancaccio sulle trattative, il C. scrisse: "Quando volse metter mano all'offerire per la casa mia, me li parai avanti dicendo che ero in questo loco per fare i fatti di Nostro Signore et della Sede Apostolica et non i miei et de' miei fratelli"; aggiunse inoltre che si era concluso di prorogare la sospensione d'armi per altri quaranta giorni e che tutto si era svolto "con parere et participatione" dei responsabili della politica francese a Roma (ibid., pp. 501-504). Ma solo la notizia della proroga corrispondeva a verità, mentre il rapporto tra interessi privati e politica universale della S. Sede era stato ben diverso. Gli uomini di fiducia di Enrico II erano stati tenuti all'oscuro delle trattative, alle quali aveva invece presenziato l'auditore di Rota Federico Fantuzzi, legato al partito imperiale. Nel corso degli incontri, il C. si era dichiarato disposto a passare dalla parte di Filippo II e a orientare in tal senso la politica papale, nonché a restituire Paliano ai Colonna, in cambio della concessione di Siena alla sua famiglia. Un'operazione del genere, colpendo gli interessi di un potente e fedele alleato degli Asburgo com'era Cosimo I, andava al di là se non dei poteri certo delle intenzioni del duca, il quale chiese che l'intera questione fosse trattata direttamente con Filippo II. Manovre del genere non potevano passare senza che si diffondesse tra gli alleati francesi "una mala contentezza et una sospitione… che S.S.tà non s'accordi con imperiali", come scriveva il Brancaccio il 6 dicembre (ibid., p. 515).
Il C. sostenne di aver accettato la proroga dell'armistizio solo per dar tempo all'esercito francese di arrivare; ma, intanto, non trascurò le trattative diplomatiche. L'8 dicembre mandò Giulio Orsini in Francia per rassicurare gli alleati sulle sue intenzioni. L'11 dello stesso mese inviò il Fantuzzi alla corte di Filippo II con lo scopo formale di trattare la conclusione della pace, ma in realtà per offrirgli un rovesciamento delle alleanze in cambio di Siena. Il 15 dicembre egli stesso partì in gran segretezza per Venezia, dove giunse il 21. Ma la proposta da lui fatta al Senato di entrare nella lega col papa e con la Francia non ebbe alcun successo. Di fronte alle generiche esortazioni alla pace con cui gli venne risposto, egli usò contemporaneamente promesse di cospicue concessioni territoriali e minacce di far venire la flotta turca in Italia. Le risposte successive del Senato, riferitegli il 4 e il 9 genn. 1557, furono però ancora piuttosto caute. Il 12 gennaio il C. lasciò Venezia avendo ottenuto ben poco e si recò prima a Ferrara, dove consegnò al duca le insegne di generale della lega, poi a Reggio per attendervi il duca di Guisa con l'esercito francese. Nell'incontro e nel consiglio di guerra che si tenne a Reggio fu deciso, nonostante l'opposizione del duca di Ferrara, di preparare l'esercito per un attacco contro il Regno di Napoli. Ciò determinò il sostanziale distacco del duca di Ferrara dalla lega. Una volta giunto a Roma, il C. dovette inoltre registrare un altro fatto negativo, cioè la sua diminuita influenza sul papa. Tutti se ne resero conto quando, caduto in disgrazia il suo fidato collaboratore Silvestro Aldobrandini, egli cercò invano di difenderlo presso lo zio. Comunque, la ripresa delle operazioni belliche alla scadenza dell'armistizio fu favorevole alle armi papali. Quando il C. giunse a Roma insieme al duca di Guisa, Ostia era stata già recuperata. Si trattava ora di decidere l'indirizzo da dare alle operazioni. Nonostante i consigli del C. di cominciare dalla Toscana in modo da assicurarsi Siena, il papa volle che si attaccasse in direzione del Regno di Napoli. Ma, mentre venivano riorganizzate le forze dell'esercito papale, che i Francesi trovarono male in ordine, il duca d'Alba poté prepararsi adeguatamente e fu quindi in grado, all'inizio delle operazioni, di resistere e di prendere immediatamente l'iniziativa.
Intanto, i rapporti interni alla lega si andavano logorando e il C. vedeva ripetutamente posta in discussione la sua autorità in Curia. Le nomine cardinalizie fatte da Paolo IV nel concistoro del 15 marzo delusero Enrico II e mostrarono che il papa non ascoltava in tale materia i consigli del nipote. Ricominciarono anche i sospetti francesi sulla doppiezza della politica del C. e iniziarono ad arrivare richieste di pegni e garanzie della permanenza del papa nella lega. Inoltre, nella questione di Siena il C. dovette scontrarsi con uno più abile di lui nella politica degli intrighi e del doppio gioco. Infatti, quando si era pensato di concentrare sulla Toscana il grosso delle forze, Cosimo I aveva immediatamente finto di abbandonare il partito imperiale per quello francese. Solo nel marzo, con l'arresto del segretario di Stato di Firenze, Bartolomeo Concini, e la lettura dei dispacci di cui era in possesso si ebbe la prova della trama intessuta da Cosimo. La conclusione di questa fase, durante la quale tutte le speranze del C. erano state affidate alle armi, si ebbe nell'estate del 1557, con due fatti nuovi. Il 25 giugno si apprese che Filippo II aveva concesso l'investitura di Siena a Cosimo I; svaniva così quella possibilità di ottenerla per i Carafa, che si era vagamente profilata all'inizio dell'anno nell'incontro di Filippo II col Fantuzzi. Ciò significava una grave sconfitta per il C., il quale vide venir meno la propria autorità sul resto della famiglia. All'inizio dell'agosto si ebbe una violenta scenata tra lui e il fratello Giovanni, il quale gli rimproverò gli errori compiuti e gli rivolse aspre accuse; il C., gettato via il cappello cardinalizio, gli saltò al collo e solo l'intervento di Piero Strozzi valse a separarli. Una ben più grave svolta si ebbe quando, il 23 agosto, giunse a Roma la notizia della sconfitta francese di San Quintino. Il duca di Guisa dovette cominciare i preparativi per tornarsene in Francia con le sue truppe e si rese quindi necessaria una rapida apertura delle trattative di pace col duca d'Alba. Il C. indirizzò un dispaccio urgente al cardinal Trivulzio, nunzio a Venezia, per chiedere che la Repubblica veneta fungesse da intermediaria. L'imminenza del pericolo fu evidente a tutti quando, il 26 agosto, il duca d'Alba tentò di prendere Roma di sorpresa e l'attacco fallì solo perché il C., avvertito da una spia, aveva preso misure adeguate. La mediazione veneziana portò a un rapido avvio delle trattative, che si aprirono l'8 settembre a Cave. Il 12 si raggiunse l'accordo finale: con esso si garantiva la restituzione al papa di tutte le terre occupate dai soldati spagnoli, mentre Paolo IV si impegnava a perdonare il duca d'Alba, a sciogliere l'alleanza con la Francia e a riprendere i buoni rapporti con Filippo II. Un patto segreto, firmato solo dal C. e dal duca riguardava Paliano: con esso Filippo II si impegnava a risarcire adeguatamente Giovanni Carafa per questo feudo, che doveva tornare ai Colonna. Per recuperare il perduto ascendente sui fratelli, il C. fece credere loro che tale patto fosse segreto anche per il papa, il quale da parte sua fece sempre mostra di non volerne sapere niente.
Il 19 settembre il duca d'Alba venne a Roma per la cerimonia del perdono; il C. lo ricevette con grandi feste e lo ospitò nei suoi appartamenti. La solennità di queste accoglienze, mentre il duca di Guisa veniva licenziato in un clima di grande freddezza, stavano a significare un rovesciamento delle alleanze. Si trattava ormai per il C. di ottenere da Filippo II quello che non aveva avuto alleandosi con Enrico II. Il 21 sett. 1557 il C. fu nominato legato per la pace alla corte di Filippo II, mentre il cardinal Trivulzio veniva inviato in Francia con lo stesso programma ufficiale. Si ripeteva così la duplice legazione di un anno prima, solo che stavolta era l'inviato in Francia ad avere una funzione di copertura. Prima di partire, però, il C. volle garantirsi contro il rischio che il fratello Giovanni approfittasse della sua assenza per soppiantarlo nella direzione della segreteria di Stato. A tale scopo gli fece associare persone di cui si fidava, come il nipote Cardinal Alfonso e il cardinal Rebiba. Dato il tempo richiesto da questa operazione, poté partire da Roma solo il 22 ottobre. L'istruzione che gli fu data parlava della conclusione della pace tra Francia e Spagna, ma già durante il viaggio per Bruxelles il C. si dedicò in maniera esclusiva ad allacciare relazioni utili per i suoi piani con personaggi legati a Filippo II, come Cosimo I e Ottavio Farnese. Gli incontri che ebbe con essi rispettivamente a Pisa e a Parma suscitarono i sospetti dei diplomatici francesi, tanto più che il C. faceva apertamente mostra delle sue mutate simpatie. Dopo un ulteriore incontro col duca d'Alba a Milano, passò in Svizzera dove prese con sé il nunzio Ottaviano Raverta e si diresse a Bruxelles, dove giunse il 12 dicembre. Le accoglienze furono solenni e festose al di là di ogni previsione. Ma le trattative non riuscirono altrettanto soddisfacenti.
In un primo momento la tattica del C. consistette nel parlare solo degli argomenti ufficiali della sua missione, cioè la pace e il concilio, lasciando a Filippo II il compito di prendere l'iniziativa e di fare delle offerte in cambio di Paliano. Ma un evento imprevisto lo costrinse ad affrontare l'argomento. La morte, nel novembre 1557, di Bona Sforza, regina di Polonia, rese disponibile tra l'altro il ducato di Bari, da lei lasciato in eredità a Filippo II. Da Roma partì immediatamente un inviato di Giovanni Carafa, Leonardo di Cardine, con istruzioni per il C. perché chiedesse Bari in cambio di Paliano. Di passaggio da Milano, l'inviato rivelò l'oggetto della sua missione al duca d'Alba. Da ciò la necessità per il C. di abbandonare la linea di condotta seguita fino ad allora. Nell'udienza del 1º genn. 1558 presentò la sua richiesta a Filippo II, il quale rispose in maniera vaga e dilatoria. Da questo momento le trattative cambiarono tono e argomento: ai temi del concilio e della pace e a richieste come quella relativa al ritorno del cardinal Pole a Roma per esservi processato, subentrarono quelli dei compensi per i nipoti di Paolo IV in cambio del loro passaggio al partito imperiale e della restituzione di Paliano. Il Raverta dovette muoversi con la massima rapidità tra Bruxelles e Roma per tenere il filo del negoziato ed evitare incidenti come quello provocato da Leonardo di Cardine. Intanto Filippo II, consigliato in tal senso anche dal duca d'Alba che era arrivato a corte, si orientò sempre più verso il rifiuto del ducato di Bari. L'offerta definitiva venne fatta il 27 febbraio: in cambio di Paliano sarebbe stato concesso il feudo di Rossano nel Regno di Napoli, insieme a cospicue pensioni per il C. e per i suoi parenti. Si trattava di un risultato che non corrispondeva alle speranze con cui il negoziato si era aperto. Il C. assunse un atteggiamento di delusione e di rifiuto. La trattativa si spostò a Roma: il 10 marzo Paolo IV si vide presentare dal cardinal Pacheco le condizioni di Filippo II. La sua ostentata ignoranza della capitolazione "segreta" di Cavo e delle trattative svolte a tal riguardo dal C. a Bruxelles rischiavano di creare qualche problema, ma tutto fu risolto dall'arrivo, un giorno dopo, del Raverta. La questione rimase sospesa. Il 12 marzo il C., cedendo anche ai reiterati inviti fattigli pervenire dallo zio, prese la via del ritorno.
Dopo una sosta a Venezia, per informare il Senato sull'esito delle trattative e per chiedere un arbitrato favorevole ai propri interessi, giunse a Roma il 23 aprile. Il sostanziale fallimento della missione a Bruxelles non ebbe nessun effetto negativo sul favore di Paolo IV. Anzi, mentre questi si dedicava sempre più esclusivamente a pratiche ascetiche e, agli affari dell'Inquisizione, la somma degli affari politici ricadde completamente nelle mani del C., che ancora per qualche mese fu il vero padrone dello Stato della Chiesa.
La caccia, il gioco e i divertimenti d'ogni genere in mezzo ai quali trascorreva le sue giornate risaltavano tanto di più accanto al rigido ascetismo di cui dava prova il pontefice. Da questo stridente contrasto gli avversari del C. presero occasione per cercare di distruggerne la potenza. Nell'agosto del 1558 si ebbe, senza conseguenze gravi per lui, una prima denunzia fatta al papa da un anonimo teatino. Il 1º gennaio una lite per motivi di donne tra Marcello Capece e il fratello del cardinale Carpi venne a conoscenza del papa e ne alimentò i dubbi sul genere di vita che si conduceva nell'ambiente del nipote. Tali dubbi aumentarono ancora quando, il 7 gennaio, l'ambasciatore fiorentino Gianfigliazzi venne a lamentarsi per il modo ingiurioso in cui il C. gli aveva rifiutato un'udienza.
A partire da questo momento, l'atteggiamento del papa cambiò completamente. Fattosi informare dettagliatamente sui costumi del C. da un teatino, padre Geremia Isachino, mise in atto tutta una serie di misure punitive. Fin dal 9 gennaio si rifiutò di riceverlo, il 17 gli intimò lo sfratto dall'appartamento Borgia e il 23 gli proibì di partecipare al concistoro. Inoltre, ordinò di non dar corso ai suoi mandati di pagamento. Fatto chiamare il cardinal Ghislieri, lo rimproverò aspramente per avergli taciuto fino ad allora la vita scandalosa dei nipoti. Nel concistoro del 27 gennaio questi ultimi, con la sola eccezione del cardinal Alfonso, furono condannati a lasciare Roma entro dodici giorni e privati di tutti i loro titoli, poteri e appannaggi. Il C. si vide così togliere tutto salvo il titolo cardinalizio e cercò inutilmente di non essere mandato in esilio a Civita Latina, in mezzo a popolazioni devote ai Colonna. Licenziati i due terzi dei suoi dipendenti, messe al sicuro le carte relative ai suoi uffici e incarichi, la sera del 30 gennaio partì per l'esilio accompagnato da trecento servitori e ventuno archibugieri.
Si trattava ora di recuperare il potere perduto. A tal fine, egli operò su due piani: da un lato cercò di convincere lo zio della propria conversione ad un più rigido stile di vita, dall'altro volle rafforzare il vincolo politico con Filippo II. In una lettera del 15 febbr. 1559 Bernardino Pia scriveva a Cesate Gonzaga: "Caraffa ha donato via gran parte dei suoi cavalli... ha medesimamente licentiato i cani, sparvieri et gl'ufitiali di caccia et ha tolto un theologo et un filosofo appresso di sé" (Ancel, La disgrâce, p. 485 n.). Negli stessi giorni il C. decise di mandare un inviato a Filippo II in un primo momento pensò al fratello Giovanni, ma, scartato il progetto per non incorrere nello sdegno di Paolo IV, la scelta cadde su Paolo Filonardi. Ma da ambo i lati la manovra non ebbe successo. Le trattative di Bruxelles vennero mandate in lungo dal re, che non voleva inimicarsi il C. in vista di un eventuale conclave, ma non voleva nemmeno concludere accordi precisi sulla questione di Paliano senza passare attraverso il papa, al quale fece conoscere l'intera pratica verso la fine di luglio. Paolo IV, d'altra parte, dopo essersi fatto impietosire nel marzo 1559 da una finta malattia del C., aveva scoperto la simulazione e aveva aumentato le misure punitive. Anche l'apparente "conversione" morale del C. ebbe breve durata. Alla fine di maggio un fabbro di Marino venne a Roma per accusarlo di avergli rapito la figlia con la violenza. Inoltre, quando morirono a poca distanza di tempo due membri del Sacro Consiglio, l'organo collegiale al quale erano devolute alcune funzioni già esercitate dal C., più d'uno a Roma pensò che questi avesse fatto propinare loro del veleno. Paolo IV, per parte sua, fece munire meglio le porte, temendo qualche colpo di mano del nipote. Ma il 18 agosto il papa morì e il C. entrò in Roma, accompagnato da una scorta, in tempo per vederlo spirare.
Tutta la sua attività fu volta a preparare il futuro conclave in modo da esserne l'arbitro. Ma, mentre egli riprendeva il suo posto a Roma, uno scandalo scoppiato nella famiglia del fratello Giovanni gli fece temere per l'onore della casata. La cognata era stata accusata di adulterio e il presunto colpevole era già stato sommariamente giustiziato; ma il C. ritenne che l'onore del Carafa non poteva dirsi salvo finché la donna restava in vita. La duchessa di Paliano venne strangolata e la questione sembrò chiusa. Doveva riaprirsi in seguito, con grave danno per i suoi assassini. Intanto, tutte le speranze del C. erano riposte nel conclave. Bisognava riuscire a determinare l'elezione del nuovo papa, in modo da poter contare sulla sua protezione. Si trattava di una strategia alla quale era legata la sorte dell'intera famiglia, che aveva finito col trovarsi senza appoggi di Francia o di Spagna, e poteva quindi sperare solo nel papa.
La fazione guidata dal C. contava una decina di cardinali. All'inizio del conclave essa si orientò a favore della candidatura di Carpi, appoggiata dal partito spagnolo. Poi, alla fine di ottobre, giunse la notizia che Filippo II aveva restituito Paliano a Marco Antonio Colonna, e il C. manifestò la sua irritazione dirigendo i suoi voti su candidati filofrancesi, Contemporaneamente, però, si mantenne in contatto con l'ambasciatore spagnolo F. de Vargas, cercando contropartite adeguate per il proprio appoggio elettorale. Alla fine di dicembre, quando ormai le sue giravolte tattiche avevano esasperato tutti, si decise ad accettare la candidatura del cardinal Medici, voluta dal Vargas. Il nuovo papa Pio IV gli dovette quindi l'elezione e gli manifestò subito la propria riconoscenza concedendo, come gli chiese il C., un perdono generale per le turbolenze verificatesi subito dopo la morte del suo predecessore.
Il favore papale durò ancora qualche tempo e fu testimoniato soprattutto da interventi presso Filippo II per ottenere il rispetto delle capitolazioni segrete di Cave e la concessione di ricompense al Carafa. Subito dopo la sua elezione, infatti, Pio IV inviò in Spagna un uomo di fiducia del Carafa, Fabrizio de' Sanguine, con l'istruzione di ringraziare il re e, contemporaneamente, chiedergli di tener fede alle promesse fatte con l'accordo di Cave. Anche il C. mandò un proprio inviato, il conte Oliviero da Sessa. Questi partì il 4 genn. 1560 con una istruzione nella quale si faceva la storia delle ultime vicende, per mettere in risalto le benemerenze, vere o presunte, del C. verso il partito spagnolo. Lo stesso esilio da Roma inflitto ai Carafa da Paolo IV veniva addebitato alla fedeltà a tale partito, per la quale il C. chiedeva ora tangibili ricompense. A questa "benedetta" ricompensa, come scriveva Carlo Borromeo il 7 marzo (ibid., p. 197), la diplomazia papale in Spagna tenne ancora dietro con insistenza nei primi mesi del 1560: lo stesso nome del nunzio inviato l'11 marzo, Ottaviano Raverta, era una garanzia ulteriore che gli affari della famiglia Carafa sarebbero stati tenuti in particolare considerazione. Lo stesso pontefice faceva presente a Filippo II la minaccia, formulata molto probabilmente dal C., di aprire una procedura giudiziaria mettendo sotto sequestro il feudo di Paliano. L'atteggiamento di Filippo II fu illustrato al papa dall'inviato straordinario conte di Tendilla, giunto a Roma il 12 maggio: il re si dichiarava disposto a concedere al C. una pensione di 12.000 ducati, in considerazione dei suoi meriti recenti, ma si rifiutava di compensare Giovanni Carafa per Paliano. Questo fu anche il tenore della sua risposta, redatta il 25 maggio e recapitata a Roma da Fabrizio de' Sanguine il 15 giugno. Ma a questa data la fortuna del C. aveva subito un improvviso e definitivo rovescio. Il 7 giugno, mentre aspettava il papa insieme agli altri cardinali convocati per la seduta del concistoro, era stato invitato a salire nella sala dell'udienza perché Pio IV desiderava parlargli. Recatovisi senza sospetti, vi era stato tratto in arresto insieme con il cardinal Alfonso e portato a castel Sant'Angelo.
Vari motivi avevano contribuito a trasformare così radicalmente l'atteggiamento del papa verso il C. e la sua famiglia. I contemporanei furono concordi nel vedervi la vendetta del cardinale Ercole Gonzaga che per l'opposizione del C. in conclave aveva mancato l'elezione a papa; all'alleanza tra Gonzaga e Medici lo stesso C. faceva risalire la propria rovina (cfr. lettera di Ferrante de' Sanguine a Filippo II del 28 giugno: ibid., p. 203). Ma ad essa concorse anche la volontà di vendetta di quanti avevano subito l'insolenza del potere dei Carafa. Pochi giorni prima del loro imprigionamento si sapeva in Curia che il procuratore fiscale Alessandro Pallantieri, deposto e imprigionato tre anni prima dal C. sotto l'accusa di malversazioni e completamente riabilitato da Pio IV, stava cercando accanitamente le prove delle "magagne" di chi lo aveva così gravemente offeso e danneggiato (ibid., p. 205).
Il giorno dopo l'arresto, il conte di Tendilla e il Vargas appresero da Pio IV che si avevano le prove di colpe gravissime del C. e dei suoi parenti. Contemporaneamente all'arresto dei nipoti di Paolo IV, vennero eseguite perquisizioni e sequestri nei loro palazzi di Roma, Gallese e Napoli. Sulla base delle prove così raccolte e delle deposizioni di testimoni, il 1º luglio venne redatto l'atto d'accusa nella forma di motu proprio papale. In esso il C. era accusato di omicidi, malversazioni, abusi vari, nonché di avere ingannato lo zio papa per trascinarlo in guerra contro la Spagna.
L'8 luglio cominciarono gli interrogatori, alla presenza del governatore di Roma e di otto cardinali. Durante il primo mese di carcere, il C. aveva tentato di far leva sulla protezione del re di Spagna, indirizzandogli una protesta contro la parzialità dei giudici ai quali era stato affidato il suo processo e presentando quest'ultimo come la punizione per la fedeltà dimostrata al partito spagnolo durante il conclave. Come linea di difesa durante il primo interrogatorio, il C. si trincerò nel rifiuto di rispondere, dichiarando che, a norma delle capitolazioni elettorali giurate nell'ultimo conclave, i cardinali potevano venire inquisiti solo nei casi di eresia, scisma o lesa maestà. Un secondo motu proprio del 10 luglio confermò la regolarità della procedura, che riprese a pieno ritmo con interrogatori al mattino e al pomeriggio. Il C. continuava però ad addurre le capitolazioni elettorali e faceva inoltre presente che, quanto ai delitti commessi prima del cardinalato, ai quali pure si erano estese le indagini, egli ne era stato assolto da Paolo IV con la bolla del 1555. L'ostacolo venne aggirato quando, nel corso del mese di luglio, si trovarono i documenti relativi a rapporti del C. coi Turchi e col marchese Alberto di Brandeburgo; si poteva quindi accusarlo d'eresia. In un motu proprio del 18 luglio Pio IV dichiarò che c'erano le prove di crimini ereticali ma che, eccezionalmente, non sarebbe stato il tribunale dell'Inquisizione a occuparsene bensì il tribunale ordinario, al quale comunque sarebbe stato associato il cardinal Ghislieri (che, però, si allontanò da Roma in quel periodo). L'irregolarità della procedura stava a dimostrare la volontà del papa di lasciare gli imputati nelle mani di giudici ad essi sicuramente ostili (il governatore di Roma Girolamo Federici e il procuratore fiscale Alessandro Pallantieri), nonché il carattere strumentale e secondario che aveva per lui l'imputazione di eresia. Quanto all'assoluzione concessa al C. nel 1555, Pio IV gli fece dichiarare di ritenerla per non avvenuta. A prezzo di deroghe e irregolarità di questo genere, che mostravano la ferma intenzione del papa di portare a termine il processo a ogni costo e di mettere sotto accusa la politica del suo predecessore (addossandone la responsabilità al solo C.), nel settembre si giunse alla conclusione di questa prima fase. Gli atti che furono rimessi allora al papa si concludevano formulando a carico del C. quattordici capi d'accusa: accanto alle colpe ereticali, i delitti e le violenze commessi prima e dopo il cardinalato - soprattutto, la parte avuta nell'assassinio della duchessa di Paliano - gli inganni e i tradimenti nei confronti dello zio Papa. Nel corso dell'estate Pio IV aveva fatto istruire un processo per il caso dell'omicidio di Tommaso Panachione e anche questo episodio della giovinezza del C. era ora documentato. Inoltre, erano emersi altri episodi di violenza: la sommaria esecuzione dei prigionieri di guerra spagnoli ordinata dal C. quando militava agli ordini di Piero Strozzi, un attentato alla vita di Domenico Massimo, un nobile romano esiliato per aver combattuto fra le truppe del duca d'Alba, nel 1556; la morte di un sarto romano, avvenuta dopo che il C. lo aveva gettato giù dalle scale mentre gli chiedeva il pagamento di un conto. Quanto alle accuse di eresia, esse si basavano: sui documenti relativi ai rapporti con Federico Spedt e con Alberto di Brandeburgo (l'8 e il 9 agosto tali documenti vennero mostrati al C. e al cardinal Otto Truchsess, che li riconobbero); sulla voce, raccolta dal Muzzarelli, di un processo d'eresia istruito a Venezia contro il C. per avere egli espresso opinioni contrarie alla presenza reale di Cristo nell'eucarestia; sulle allusioni contenute nella corrispondenza diplomatica a progetti di alleanza coi Turchi per farne intervenire la flotta in Italia contro gli Spagnoli.
La linea di difesa del C. consistette nel rinviare all'assoluzione papale per i delitti commessi prima del cardinalato, e nel negare quelli addebitatigli per gli anni successivi; in particolare, poiché gli addebiti più pesanti riguardavano aspetti ed episodi della sua politica antimperiale, egli sostenne di essere stato il fedele strumento di Paolo IV, al quale fece risalire la totale responsabilità di quella politica. Del resto fra gli stessi cardinali che assistevano agli interrogatori era diffusa la convinzione che papa Carafa non avesse avuto bisogno di stimoli particolarmente efficaci alla sua ostilità verso Carlo V e Filippo II. Si credeva cioè, come diceva il cardinal Crispo, "che il papa havesse malanimo da sé, et che fosse poi aiutato da Caraffa come quello che voleva guerra" (ibid., p. 75 n.). Durante tutta questa prima parte del processo il C. mantenne un atteggiamento fermo e sprezzante, che sconsigliò il ricorso alla tortura negli interrogatori. Egli continuava a sperare nell'intervento di Filippo II e nella protezione del Vargas, oltre che nell'efficacia della sua linea difensiva, nella elaborazione della quale era assistito da avvocati di valore come Felice Scalaleone, Marcantonio Borghese e altri. Ma già verso la fine dell'estate la sua posizione, insieme con quella del fratello, appariva gravemente compromessa.
Terminato il processo ad offensam, il C. ricevette il 5 ottobre la copia degli atti per la preparazione della difesa. Tra il 20 novembre e il 10 gennaio furono presentati memoriali elaborati dai suoi difensori, dedicati a smontare il castello eretto dall'accusa. Relativamente ai singoli reati per i quali esistevano precise testimonianze a carico, ci si limitava ad addurre le negazioni del C.; per quelle di carattere politico si rinviava al rapporto di fiducia esistente tradizionalmente tra cardinal nipote e papa, alla necessità per l'uomo politico di simulare e dissimulare per meglio raggiungere i suoi obbiettivi, sostenendo in generale che in nessun momento il C. aveva ingannato il papa. Il 15 genn. 1560, in concistoro, il procuratore fiscale annunciò che il processo era ormai terminato; il rapporto finale del governatore, sulla cui base si sarebbe emessa la sentenza, doveva venire presentato nel concistoro successivo. Ma a questo punto Giovanni Carafa, giudicando disperata la situazione, fece domanda di grazia al papa e, per avvalorarla con le prove del suo pentimento, rivelò nuovi dettagli e nuove prove delle responsabilità avute dal C. nell'affare delle galere, nell'assassinio della duchessa e in altri dei delitti contestatigli. Messo di fronte a tali rivelazioni, il C. continuò a negare. Si pensò di sottoporlo alla tortura, ma ancora una volta non se ne fece niente, probabilmente per timore che un eventuale esito negativo di questo espediente indebolisse la forza delle accuse.
La fermezza del papa nel voler arrivare a una condanna emergeva infatti sempre più chiaramente: alla fine di febbraio se ne ebbe un nuovo segno nel modo in cui Pio IV si rifiutò di ascoltare nuove richieste di grazia fattegli da un avvocato. L'ambasciatore spagnolo Vargas faceva presente a Filippo II, in una lettera del 5 gennaio, che si sarebbe certamente arrivati alla sentenza capitale e che l'intervento del re era urgente se si voleva evitare una tale conclusione. Questo intervento, sul quale il C. contava ancora molto, si ebbe solo alla fine e fu compiuto in termini piuttosto tiepidi: Mario del Tufo, l'inviato del C. a corte, fu di ritorno a Roma il 1º marzo portando una lettera di Filippo II nella quale il C. e suo nipote venivano raccomandati alla misericordia di Pio IV in considerazione delle benemerenze acquisite nell'ultimo conclave. Per il 3 marzo era stato fissato il concistoro dedicato esclusivamente alla lettura da parte del governatore di Roma del rapporto finale sul processo, a cui doveva seguire la sentenza. Il papa si rifiutò di rinviare la cerimonia, e questo fu interpretato come un nuovo segno che la decisione era già presa e che non sarebbe stata mutata. Il 3 marzo anche il C. fece pervenire domanda di grazia. Il concistoro si tenne regolarmente. La lettura della relazione del governatore durò sette ore. Alla fine, Pio IV consegnò la sentenza scritta e sigillata e respinse l'ultimo tentativo, fatto da alcuni cardinali, di mitigarla. Il giorno dopo la sentenza fu aperta e letta: per il C. era la condanna a morte.
Sulle sue reazioni, di incredulità prima, d'ira e di sconforto poi, e sul modo in cui avvenne l'esecuzione, nacque presto tutta una letteratura, in versi ("lamenti") e in prosa ("discorsi"), a riprova, se ve ne fosse bisogno, del carattere drammatico e eccezionale dell'avvenimento. Si sa comunque che il 5 marzo, dopo essersi rifiutato fino all'ultimo di credere che si sarebbe arrivati a tanto, il C. finì col confessarsi e col dichiarare che perdonava ai suoi nemici, al papa e al re di Spagna. Poi si mise nelle mani del boia e dei suoi assistenti, che gli avvolsero la corda al collo: alla torsione, la corda si ruppe per ben due volte e il boia dovette finirlo colle proprie mani. Il cadavere fu "gittato a gambe levate... col capestro al collo" in una sepoltura provvisoria (ibid., p. 217), per essere trasportato più tardi nella cappella di famiglia alla Minerva. I suoi beni furono confiscati a profitto della Camera apostolica; le "spoglie" cardinalizie, i benefici e le ricompense concesse da Filippo II furono passate al cardinal nipote di Pio IV, Carlo Borromeo, e, in misura minore al cardinal Marco d'Altemps.
Nel febbraio 1566 il neoeletto pontefice, Pio V, il quale, da cardinale, aveva manifestato il suo dissenso per il modo in cui il processo si era svolto, riprese in esame l'intera questione. Per prima cosa, tolse al Borromeo l'eredità del C; poi, sottopose a revisione l'intero processo. Nel concistoro del 26 sett. 1567 venne emessa una sentenza di assoluzione. In seguito, gli atti processuali vennero distrutti, e la sentenza fu pubblicata quindici giorni dopo, a poche ore di distanza dalla decapitazione di Pietro Carnesecchi.
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