MALVASIA, Carlo Cesare
Nacque a Bologna nel 1616, dal conte Anton Galeazzo (1577-1669) e dalla moglie legittima Caterina Lucchini, "femmina di bassa condizione" (Fantuzzi, pp. 149 s.).
Per genetliaco, le fonti più antiche indicano il 18 dicembre, che confligge con la data della fede battesimale citata da Fantuzzi (18 sett. 1616); la discrepanza cronologica era stata già notata da Comolli, che considerava errata l'indicazione del documento. La famiglia paterna vantava origini illustri e dignità senatoria; la sconvenienza sociale del matrimonio misto (che fu forse causa del suo annullamento: Perini, 1988, p. 275), è confermata dal fatto che, in seconde e più prudenti nozze, Anton Galeazzo sposò la nobile Cristiana, sorella di Ferdinando Cospi, dalla quale ebbe il figlio Cesare Alberto. In seguito alla nascita di questo, il M. perse la primogenitura e lo status di legittimità; mantenne però, insieme con il titolo nobiliare e con la dimora presso la casa avita, l'opportunità di un'educazione confacente ai propri natali. Alla famiglia d'origine il M. rimase costantemente legato; come convivente e fratello naturale del senatore Cesare Alberto - ma degno d'essere considerato fratello "vero" per i grandi meriti intellettuali - veniva indicato da Cospi in una lettera di presentazione a Leopoldo de' Medici del 1666 (ibid., p. 275). Fra i suoi congiunti si conta un altro fratello minore, Giuseppe Michele, che curò con Cesare Alberto l'inventario dei beni del M. dopo la sua morte.
Le biografie, a partire da quella paradigmatica e contemporanea di Zani (1672), riconoscono al M. fanciullo ingegno versatile. Ebbe una prima formazione umanistica con A. Santi e C. Rinaldi, affinatasi sotto la guida del poeta e giurista C. Achillini - marinista militante, stimato a Roma e a Parigi - cui non è errato attribuire, insieme con il condizionamento del gusto e dello stile del M., un'influenza sulle future ambizioni letterarie dell'allievo, proiettate in ambito internazionale. La produzione lirica giovanile, perduta, gli dette fama e gli valse l'ingresso nell'Accademia letteraria dei Gelati, con il nome di Ascoso; dell'Accademia fu membro stabile e ne divenne poi più volte principe. A complemento di un'educazione gentilizia, il M. ebbe un apprendistato pittorico con i carracceschi G. Campana e G. Cavedone, dai quali imparò le tecniche a fresco e a olio.
Delle competenze acquisite non fece mai mestiere; nel corso degli anni praticò l'arte per svago e divertissement, realizzando quadri di paesaggio utilizzati come cadeaux in società e prospettive illusionistiche a decoro di ambienti di sua e altrui proprietà. Frequentò abitualmente le botteghe degli artisti; conobbe F. Albani e G. Reni e strinse rapporti d'amicizia con A.M. Colonna, A. Mitelli, G.A. Sirani, A. Tiarini. Pare finanziasse l'apertura di scuole di disegno dal nudo e la formazione di giovani talenti; Crespi lo ricorda tra i quattro direttori dell'Accademia artistica degli Ottenebrati (p. XII).
Unica disciplina professionalizzante, di là dei molti raffinati dilettantismi, fu per il M. la giurisprudenza, in cui ebbe maestro, fra gli altri, Achillini; proprio ad Achillini spettò di presiedere la cerimonia con cui, il 29 dic. 1638, il M. si addottorò in utroque iure, e di pronunciare l'orazione d'encomio. All'inizio del 1639 il M. si trasferì a Roma, dove soggiornò, salvo un breve allontanamento, fino al 1646; dopo il definitivo rientro a Bologna tornò a Roma a cadenza annuale, nei mesi invernali. Alla permanenza romana, naturale coronamento di una buona educazione, fu spinto dall'esigenza di perfezionarsi e stringere contatti vantaggiosi, nonché da prospettive di carriera in campo legale. In città godette della protezione dei cardinali barberiniani G.F. Ginetti e B. Spada, ai quali fu "caro, e famigliare" (Zani, p. 132). Grazie ai suoi talenti e ai buoni uffici di mentori come il teologo B. Boselli Malvasia, che gli era legato da vincoli di parentela, ebbe pronto accesso all'Accademia degli Humoristi e a quella dei Fantastici, delle quali divenne principe.
Benché negli anni romani fosse impegnato nella pratica giuridica, non mancò, in quanto amatore e dilettante d'arte, di prendere visione dei tesori antichi e moderni della città, dalle cui "grandezze e magnificenze" si confessava, anni dopo, ancora sopraffatto (lettera del 7 dic. 1678 a G. Magnavacca: Perini, 1997, p. 127). A Roma ebbe modo di sviluppare - o comunque consolidare - la passione per l'antiquaria che lo accompagnò vita natural durante e di osservare in presa diretta la Galleria Farnese e i capolavori di scuola bolognese. È lecito supporre che si aggiornasse sulle novità editoriali, quali le Vite di G. Baglione edite nel 1642; altresì, che fosse avvertito delle riflessioni teoriche della cerchia classicista in cui andava maturando, tra l'altro, il mito dell'Annibale Carracci "romano". A questa cerchia, cui già apparteneva il giovane G.P. Bellori, il M. rimase estraneo, sicché è dubbio se il suo incontro con Bellori sia avvenuto allora, come supponeva Arfelli, o nei soggiorni successivi. Per tramite del cardinale B. Spada, che ne era committente, conobbe invece e si legò d'amicizia al conterraneo A. Algardi.
Nel 1641 lasciò Roma per combattere da volontario nella guerra di Castro, che opponeva Urbano VIII al duca di Parma e Piacenza Odoardo Farnese; per un lasso di tempo non determinabile, militò ai comandi del cugino marchese Cornelio Malvasia, luogotenente generale della cavalleria pontificia. L'anno successivo si ammalò gravemente.
È da considerarsi un topos di illustre tradizione la notizia, riferita dai primi biografi, che proprio durante l'infermità avesse deciso di intraprendere gli studi teologici e la carriera ecclesiastica.
Nello stesso 1642, valutate le reali possibilità di carriera nell'ambiente romano, avanzò richiesta di una cattedra di diritto al Senato bolognese, senza esito. Una seconda istanza del gennaio 1647, fatta all'atto del rientro in Bologna come coadiutore in S. Pietro del cugino canonico Giovan Battista Malvasia, venne accolta dal Senato nel marzo seguente.
Insegnò diritto civile e diritto canonico nello Studio bolognese per quarant'anni, fino all'ottobre del 1687, data del suo pensionamento; fu docente di fama, premiato con continui aumenti di stipendio, e oggetto di inviti lusinghieri, cui tuttavia non cedette, da parte delle Università di Padova e Parma. Al 1647 risale la pubblicazione a Bologna dell'ode Il fiore coronato; a detta di Zani, il M. aveva precedentemente diffuso a stampa un'altra ode "in lode de' Signori Veneziani" e due idilli di soggetto sconosciuto (p. 133); già Fantuzzi, però, ne aveva perso le tracce. Il Fiore, dedicato al protettore romano G.F. Ginetti, va inserito nell'alveo della lirica giovanile del M., debitrice del marinismo di Achillini. Pure condotta nei modi elaborati di quest'ultimo è la prosa della Lettera( a monsignor Albergati( in ragguaglio d'una pittura fatta ultimamente dal signor Giovanni Andrea Sirani, edita a Bologna nel 1652, con cui, cimentandosi nella descrizione della Cena a casa del fariseo di Sirani (Bologna, certosa), il M. esordì nell'ambito della letteratura artistica. Dalla Lettera si inferisce che già all'inizio del sesto decennio gli interessi culturali del M. inclinavano verso gli oggetti e la scrittura d'arte; a tale orientamento contribuì senz'altro l'operazione editoriale di C. Manolessi, che a Bologna nel 1647 aveva riproposto, per la prima volta dopo l'edizione giuntina, le Vite di G. Vasari, esortando i lettori a collaborare al loro aggiornamento. Appare nella Lettera ad Albergati, sostanzialmente strutturata, la tecnica ecfrastica utilizzata dal M. negli scritti successivi: sintetica ed evocativa, affidata a una lingua di marca espressionista, ricca di artifici retorici, intesa a rendere per verba la qualità stilistica dell'opera descritta. Come ha convincentemente sostenuto Arfelli, risale agli anni Cinquanta il progetto della futura Felsina pittrice, ovvero di una storia dell'arte e degli artisti bolognesi cui il M. doveva sentirsi invogliato dalle sue correnti curiosità, dall'invito di Manolessi, dalle reticenze di Vasari sugli artisti non toscani, né romani, e dalla pubblicazione, via via più frequente, di testi polemicamente intesi a denunciare quelle reticenze: per esempio le Maraviglie dell'arte di C. Ridolfi (1648), o il Microcosmo della pittura di F. Scannelli (1657), dedicati alle scuole "locali" veneziana e lombarda. Suggerimenti sulle modalità di reperimento del materiale gli vennero dall'amico Algardi, scomparso nel giugno del 1654: circostanza che giocoforza retrodata, rispetto a quel momento, il disegno malvasiano.
L'8 luglio 1653 il M. conseguì, a coronamento del percorso formativo intrapreso nei primi anni Quaranta, il dottorato in teologia; di seguito venne accolto, honoris causa, nel Collegio dei teologi bolognese. Nel novembre del 1662, a culmine e traguardo della carriera ecclesiastica, assunse il canonicato in S. Pietro in sostituzione del cugino Giovan Battista. Andava intanto costruendosi fama di connoisseur e collezionista di disegni.
Nel 1663 fu tra i conoscitori che, su richiesta di Cospi, fecero l'expertise di un foglio acquistato da Leopoldo de' Medici come autografo di M. Zoppo e compose una nota biografica del pittore da inviare al granduca.
Negli anni Sessanta, in aggiunta ai consueti spostamenti alla volta di Roma, compì una serie di viaggi propedeutici alla scrittura storiografica.
Nel 1664 fu a Padova e a Venezia, dove incontrò e poté confrontarsi con M. Boschini, reduce dalle fatiche della Carta del navegar pitoresco (1660) e delle Miniere della pittura (1664); è lecito supporre che allacciasse contatti con l'ambiente editoriale veneziano.
Nel 1665 conobbe a Roma P. Cureau de La Chambre, membro influente dell'Académie royale de peinture et de sculpture, biografo di G.L. Bernini. Nel 1666 fu a Pesaro, Camerino, Loreto e infine, tra il maggio e il giugno, a Firenze, dove, con le credenziali di Cospi, si presentò a Leopoldo de' Medici ed ebbe accesso alla sua collezione d'arte.
In questa circostanza Leopoldo gli commissionò la stesura di una non meglio specificata "nota" di disegni. Notizie indirette di una successiva attività di expertise a servizio del granduca sono rintracciabili nella corrispondenza di Cospi e del genero A. Ranuzzi con la corte medicea, da cui risulta che il parere specialistico del M. venne richiesto, solo o con il conforto d'altri, in più occasioni. Durante il soggiorno presso Leopoldo il M. entrò in contatto, più formale che sostanziale, con l'ambiente culturale fiorentino, come testimoniano due lettere a C. Dati del 1668 e del 1669 e il successivo carteggio con A. Magliabechi, concentrato, allo stato attuale delle conoscenze, negli anni Ottanta del secolo.
Nel 1667 visitò Modena, Reggio, Parma, Mantova e Milano. La composizione della Felsina pittrice, edita a Bologna nel 1678, va riferita globalmente ai decenni settimo e ottavo del secolo; non è possibile individuare un discrimine cronologico fra l'estinguersi della ricerca documentaria, l'organizzazione del materiale reperito e l'avvio della stesura del testo, operazioni che il M. compì simultaneamente, facendo largo uso di addizioni e correzioni in corso d'opera e, finanche, di stampa.
L'ingente mole di materiale documentario rifluito nella Felsina - reperito con abilità in patria e fuori - fu raccolta tra il 1660, anno in cui il M. entrò in possesso di alcune preziose carte di Albani, e il 1675, con un intensificarsi delle indagini fra il 1671 e il 1673 (forse determinato dall'apparizione delle Vite di Bellori del 1672). Alcune informazioni vennero offerte, ma con crescente riluttanza e malcelata diffidenza, a Leopoldo de' Medici, che fra 1673 e 1675 ne fece richiesta per conto di F. Baldinucci, impegnato nei preliminari delle Notizie de' professori del disegno. Il fascio di carte sciolte su cui, nel corso degli anni, il M. annotò a suo uso considerazioni e notizie, con data e fonte di reperimento, funse da canovaccio per la stesura (Bologna, Biblioteca comunale, Scritti originali del conte C.C. Malvasia spettanti alla sua Felsina pittrice, B.16-17: la rilegatura in due tomi è postuma). La scrittura, assai laboriosa, richiese tempi che lo stesso autore non seppe calcolare. Ripetutamente annunciata come prossima alla pubblicazione all'inizio degli anni Settanta, da fonti vicine e dunque ben informate (da Zani nel 1672; da A. Aprosio, allora corrispondente del M., nella Biblioteca Aprosiana del 1673; da Boschini nelle Ricche miniere del 1674) la Felsina stentò a prender corpo, anche a causa dei pressanti impegni lavorativi del M. e dell'inaffidabilità di collaboratori e referenti; nel 1675, nonostante il M. avesse attivato contatti con l'editoria veneziana e, attraverso Cureau de La Chambre, con quella parigina, l'opera si presentava ancora "sconcia e mutilata" (lettera ad Aprosio dell'11 maggio: Perini, 1984, pp. 227 s.). Andò in stampa a Bologna nel 1677, mentre era in corso la compilazione degli indici; le prime copie apparvero alla fine di quell'anno, nonostante l'edizione recasse la data 1678. Intesa a tracciare la storia completa della pittura bolognese, dalle origini al tempo presente, l'opera era divisa in quattro parti di difforme consistenza, rispettivamente dedicate ai primitivi (parte I), agli artisti cinquecenteschi della rinascita e della maniera (parte II), ai Carracci (parte III), alla scuola dei Carracci e ai contemporanei (parte IV). Nella Prefazione, il M. esplicitava la non letterarietà dello stile e degli intenti della Felsina, destinata a un pubblico di artisti e amatori; rivendicava la natura informativa del testo, condotto su testimonianze documentarie e su fondamenti di verità; dichiarava una dipendenza marginale - e, soprattutto, strumentale - dalle auctoritates dell'ambito storiografico. Le vite, non limitate alla singola biografia ma dilatate sino ad accogliere intere famiglie e scuole pittoriche, erano introdotte da ritratti incisi, alcuni dei quali di mano dello stesso Malvasia. Benché le annotazioni prodotte in margine alla sua copia personale della Felsina (Bologna, Biblioteca comunale, Mss., 1729) lascino supporre che l'autore lavorasse da subito a una seconda edizione revisionata, l'opera venne riproposta a Bologna solo nel 1841 nell'edizione cui da ora in avanti si farà riferimento (Felsina pittrice. Vite de' pittori bolognesi, con aggiunte, correzioni e note inedite del medesimo autore, di Giampietro Zanotti e di altri scrittori viventi), rimpolpata con note autografe e aggiunte eterogenee e arricchita da un terzo volume curato da Crespi. Grazie all'interessamento di Cureau de La Chambre, la Felsina apparve con dedica a Luigi XIV. Perini (1984, p. 204) ha parlato di una vera e propria "strategia francofila" sottesa all'opera, evidente negli elogi tributati a personalità francesi (tra cui C. Errard, N. Coypel e R. De Piles, che il M. conosceva personalmente) e, nella prefazione, all'"Orazio pittorico" C. Du Fresnoy; in questa strategia va incluso l'invio immediato della Felsina a Parigi - all'Académie royale e a corte, dove fu ricevuta e presentata al sovrano da J.-B. Colbert - e all'ambasciatore francese a Roma (gennaio-febbraio 1678). All'esito positivo della manovra promozionale contribuì senz'altro il vincolo di parentela del M. con il cugino marchese Cornelio, ben noto a Parigi per aver servito Luigi XIV come graduato dell'esercito francese. Nel 1681, in segno di apprezzamento, il re inviò al M., accompagnata da stampe d'après le Gesta di Alessandro Magno di C. Le Brun, una "gioia" che venne trafugata durante la spedizione. Un secondo e più pregiato gioiello (un ritratto ovale di Luigi XIV eseguito da J. Petitot, incastonato in una cornice d'argento impreziosita da diamanti, il Gioiello della vita, oggi a Bologna, Collezioni comunali d'arte), fu felicemente recapitato al M. alla fine dell'anno successivo. Aprendo un canale privilegiato con Parigi, il M. intendeva promuovere in ambito internazionale, in uno con l'opera e il proprio nome, la scuola artistica bolognese e Bologna stessa: la prima come parigrado e anzi superiore alle scuole locali italiane; l'altra, come feconda capitale culturale, in grado di competere con Roma e Firenze. Da subito fu conscio, peraltro, del disfavore che attendeva la Felsina nei centri italiani: nella lettera d'accompagnamento alla copia per Aprosio, datata 29 genn. 1678 (Perini, 1984, pp. 229 s.), dichiarava di confidare nell'accoglienza a Venezia e a Parigi, ma contemporaneamente individuava nelle mende a Vasari e nel ridimensionamento della maniera "romana" di Annibale Carracci i nodi critici che avrebbero reso l'opera sgradita a Firenze e a Roma. Di fatto, se ebbe presta recensione sul Journal des sçavants (maggio 1678), fu deliberatamente ignorato dal Giornale dei letterati di Roma, dove incorse nelle critiche della cerchia belloriana per l'epiteto di "boccalaio urbinate" affibbiato a Raffaello - presente nei primi esemplari della Felsina e prontamente emendato - e per aver qualificato come "duro" e "statuino" lo stile adottato da Annibale Carracci fuori da Bologna. Tali critiche vennero formalizzate in accuse nel libello stroncatorio di V. Vittoria, portavoce delle opinioni ostili di C. Maratta; composto dopo la pubblicazione della Felsina, l'opuscolo venne edito nel 1703 e fu rintuzzato dalle Lettere( di Zanotti (1705). A Firenze, assai risentita fu la reazione di Baldinucci, che, nell'Apologia a pro delle glorie della Toscana premessa alle Notizie del 1681, rivendicò, contro il parere del M., il primato di Cimabue e di Giotto nella rinascita pittorica dopo i secoli di "barbarie".
Nel 1681, afflitto da problemi di salute, il M. rinunciò spontaneamente al canonicato; mantenne però l'incarico universitario, cui affiancò una vivace produzione letteraria. Negli anni Ottanta si applicò principalmente agli studi antiquari; già dalla metà degli anni Settanta, sotto la guida dell'amico e marchand-amateur G. Magnavacca, aveva avviato un'attività collezionistica di rilievo, reinvestendo in antichità gli utili derivati dalla vendita della raccolta di disegni.
La collezione antiquaria, consistente in ventitré lapidi, frammenti scultorei e reperti medioevali, decorava uno dei palazzini di campagna del M., quello detto La Torre, fuori porta S. Donato (l'altro era a Trebbo di Reno, fuori porta Lame: Perini, 1997, p. 120); nel 1716 fu donata all'Istituto bolognese delle scienze dagli eredi Cornelio Gaetano e Giuseppe Michele, figli di Cesare Alberto (le lapidi sono oggi a Bologna, Museo civico archeologico).
Porta la data 1683 la prima delle opere epigrafiche, l'Aelia Laelia Crispis non nata resurgens in expositione legali, pubblicata a Bologna, nella quale il M. proponeva lo scioglimento dell'enigma contenuto in una celebre epigrafe funeraria, un falso di epoca incerta, pervenuto su lapide cinquecentesca appartenuta al senatore A. Volta (Bologna, Museo civico medievale).
Per la decifrazione dell'iscrizione, che riteneva antica e interpretava come l'epitaffio per un aborto, il M. chiese lumi e consiglio all'insigne antiquario J. Spon, assertore convinto, però, dell'inautenticità del reperto. L'opera - arricchita da un'antiporta incisa d'après un disegno dello stesso M., dove l'epigrafe misteriosa appariva circondata dalle soluzioni sino allora proposte e sormontata da una sfinge tenuta a catena dal leone araldico bolognese - fu recensita dai periodici letterari internazionali.
Nel 1686 pubblicò (a Bologna), sotto l'antico pseudonimo accademico, Le pitture di Bologna, una guida aggiornata al patrimonio artistico cittadino.
Studiata sin nel linguaggio per agevolare la consultazione del visitatore, con uno scarto significativo rispetto alla verbosità dell'opera storiografica, la guida presentava informazioni schematizzate e segnalava con asterischi marginali le opere di maggior pregio, utilizzando un codice divenuto poi consuetudinario. Le pitture di Bologna apparvero con dedica al pittore Le Brun e con una lettera introduttiva "Al cortese lettore", in cui il M. entrava nel merito delle polemiche suscitate dalla Felsina e ne riproponeva intenzionalmente le argomentazioni. In questo frangente, oltre a denunciare la fama essenzialmente letteraria di Cimabue e di Giotto, precisò che la preminenza pretesa per i primitivi bolognesi era d'ordine cronologico, non qualitativo, concetto che ebbe a ribadire a Magliabechi nell'aprile 1687, nella nota missiva in cui confessava, non senza ironia, d'aver inteso Le pitture di Bologna come "mascherata risposta all'Apologia strepitosa" dello "smanioso Baldinucci" (C. Campori, Lettere artistiche inedite, Modena 1866, pp. 135 s.).
Negli anni successivi al pensionamento continuò a dedicarsi tenacemente alla ricerca e alla divulgazione. Nel 1690, con il supporto economico del carmelitano G. Roberti, licenziò lo studio Marmora Felsinea, incentrato su epigrafi di provenienza bolognese, perlopiù esemplari della propria collezione.
L'opera pubblicata a Bologna, con antiporta ideata dallo stesso M. e allusiva all'antica origine etrusca di Bologna, era dedicata al Senato bolognese; fu segnalata sui periodici internazionali e, attraverso Roberti, sul Giornale dei letterati di Parma diretto da B. Bacchini.
Nel 1691, ancora dietro pseudonimo, dette alle stampe (sempre a Bologna) il Pantheon in Pindo, raccolta di poemi giovanili celebrativi dei santi dell'anno, composti presumibilmente durante il soggiorno romano del 1639-46; il libretto era dedicato a D. Papebroch e ai padri bollandisti di Anversa, con i quali il M. era entrato in contatto per tramite di Magliabechi e cui aveva offerto ragguagli su cinque santi bolognesi.
Dalla tarda corrispondenza con il cremonese F. Arisi (lettere del 29 ottobre e del 13 dic. 1692: Perini, 1997, pp. 128 s.) risulta che negli ultimi mesi di vita il M. andava approntando gli Otia lapidaria, una silloge epigrafica comprensiva di più di tremila iscrizioni, parte riproposte emendate dai principali repertori, parte inedite; a fronte dell'imponenza dell'opera. Perini ha ipotizzato che da questa e dalle altre di materia epigrafica, più che dalla Felsina pittrice, il M. si attendesse consacrazione a livello internazionale (1997, p. 109). Nel frattempo componeva Il claustro di S. Michele in Bosco, una descrizione delle celebri Storie dei ss. Benedetto, Cecilia e Valeriano affrescate da Ludovico Carracci e allievi, considerate il contraltare bolognese alla galleria farnesiana di Annibale (lettera ad Aprosio del 14 giugno 1673: Perini, 1984, pp. 222 s.; Felsina pittrice, I, p. 314). La descrizione era accompagnata da riproduzioni in rame commissionate all'incisore G. Giovannini, suo protetto. In sede testamentaria, il 22 nov. 1692, entrambi gli incompiuti vennero affidati per la pubblicazione a Roberti, che non evase il compito; il manoscritto degli Otia andò perduto, mentre il Claustro vide la luce a Bologna nel 1694 a cura degli eredi Malvasia.
Nel testamento il M. lasciava il gioiello largitogli da Luigi XIV ("la cosa più preziosa che io abbia in questo mondo": Crespi, p. XIII), all'Arciconfraternita di S. Maria della Vita, con l'obbligo di esporlo ogni anno il decimo giorno di settembre e nelle ricorrenze solenni.
Il M. morì a Bologna il 10 marzo 1693; le sue spoglie furono tumulate nell'arca di famiglia della chiesa agostiniana di S. Giacomo Maggiore.
Il M. incarnò il tipo dell'intellettuale eclettico seicentesco, anche nell'aspirazione, comprovata dalla dovizia delle relazioni personali, a far parte di una "repubblica letteraria" travalicante i confini nazionali; per contro, solo dalla seconda metà del Novecento è andata stemperandosi l'immagine dell'erudito di provincia delineata da Schlosser (1924). Quest'immagine, priva di implicazioni di merito già per Previtali (1964), è stata sottoposta a erosione negli studi di Perini, intenzionalmente restitutivi di una personalità aggiornata negli interessi e cosciente nella metodica. Il dibattito critico, per tradizione incentrato sulla Felsina pittrice e di recente allargato ai lavori storico-artistici minori e a quelli epigrafici, attiene al valore storiografico dell'opera malvasiana. Cadute le ingiuste riserve d'ordine stilistico avanzate fin dal Settecento (per esempio da Bottari, Comolli, Tiraboschi in Storia della letteratura italiana, VIII, Modena 1793, p. 413) e riconosciuto il carattere prettamente seicentesco della prosa del M. - che scrive in una lingua lessicalmente complessa e assai sorvegliata dal punto di vista retorico - permane disparità d'opinione circa la consapevolezza critica dell'autore, la qualità del metodo adottato e il grado di attendibilità raggiunto; unanimemente accreditata, finanche dai detrattori, è invece la rilevanza della Felsina come fonte primaria di notizie, sempre bisognose di controllo e verifica (Zapperi, 1989, p. 20). Scegliendo il genere biografico - e più latamente cronachistico, risultando le vite dei singoli pittori sussunte nella plurisecolare vita artistica di Bologna-Felsina - il M. scelse la storia che ha per "pregio" ed "essenza" la verità, contrapponendola in inequivoci pronunciamenti al romanzo, frutto di finzione (lettere ad Aprosio del 27 dic. 1673, 27 ott. 1674, 11 maggio 1675: Perini, 1984, pp. 225 s.; Felsina pittrice, I, pp. 13 s., p. 202). Il modello vasariano - operante nella Felsina a più livelli, dall'adozione di un dettato antiletterario all'uso dell'aneddotica, dalla quadripartizione in età alla visione ascensionale verso il culmine rappresentato dai Carracci - viene forzato e rinnovato con l'introduzione, nel cursus narrativo della biografia, di materiale documentario eterogeneo: testimonianze archivistiche, citazioni ed estratti da opere altrui, lettere, relazioni, notizie dal mercato collezionistico, comunicazioni orali recuperate dagli artisti e, in seconda istanza, dai loro famigliari e amici (l'"immensità e catastrofe infinita di robbe" di cui parlava nel 1666 Giovanni Mitelli, Vita e opere di Agostino Mitelli: Bologna, Biblioteca comunale, Mss., B.3573, c. 71v). Dal confronto fra la Felsina e gli appunti manoscritti emerge però, nel trattamento del materiale, un modus operandi ancora legato a scopi eminentemente letterari. Selezionati fra quelli raccolti secondo un criterio di utilità e aderenza ad assunti già costituiti, montati in una struttura argomentativa con intento persuasivo, i documenti della Felsina valgono da prove suffraganti un disegno preordinato, secondo i modi, familiari al M., della pratica forense (Perini, 1985; Summerscale); l'esigenza di rispettare i topoi del genere biografico, quali la "leggenda dell'artista" citata da Zapperi (1989, p. 19), condiziona, se non travalica, le istanze di ordine storico. Nel passaggio dagli appunti alla stampa il singolo documento può andare incontro a revisioni pesanti: normalizzazioni ortografiche ed emendamenti linguistici, ma anche tagli e interpolazioni strumentali, come accadde esemplarmente alla lettera di Annibale Carracci da Roma del 1608-09, "asciugata" dalle mormorazioni contro i Farnese e contro G. Reni (Felsina pittrice, II, p. 14; Gli scritti dei Carracci, p. 166). Accusato di falsificazione deliberata da Tietze, Voss, Schlosser e Mahon in relazione ad alcuni casi emblematici (la missiva di Raffaello a F. Raibolini detto Francia del 5 sett. 1508, il sonetto elogiativo di Niccolò dell'Abate e della maniera eclettica attribuito ad Agostino Carracci, le lettere parmensi di Annibale del 18 e 28 apr. 1580: Felsina pittrice, I, pp. 47, 129, 268 s.), il M. ha trovato deciso riscatto negli studi di Dempsey, che attribuisce gli interventi a semplice pratica redazionale, e di Perini, che tende a minimizzarli di fronte alla novità e allo "scrupolo filologico" del procedimento malvasiano, a suo avviso esplicantesi nell'uso sistematico dei documenti, nell'autocensura delle notizie non attendibili e nei criteri editoriali tutto sommato rispettosi adottati nella produzione epigrafica, da presumere operanti anche nella Felsina. Di recente, Shearman è tornato a parlare con durezza di contraffazione, invitando alla circospezione di fronte alle testimonianze più controverse e polemizzando con le letture critiche che si appellano alla libertà editoriale dell'autore, paghe di una genuinità "sostanziale" del documento (p. 1281). Laddove è stato condotto un esame linguistico attento, o si è reso possibile il confronto con gli originali, la volontà manipolatoria del M. - non fraudolenta, ma mossa comunque da motivi di opportunità artistica e finanche politica - è apparsa evidente: è il caso delle lettere parmensi di Annibale Carracci, interpolate da eleganti notazioni stilistiche su Correggio e su Raffaello scivolate dalla penna del M. (Spagnolo), nonché della missiva inviata al padre da Giovanni Battista Bonconte, fratello del pittore carraccesco Giovan Paolo (Felsina pittrice, I, p. 405), trascritta nella parte relativa al cattivo trattamento economico riservato ad Annibale a Roma omettendo prudentemente il nome del cardinal Odoardo Farnese (Zapperi, 1999). Da una prospettiva di storia del collezionismo, Morselli ha persino rilevato nella Felsina pittrice un consapevole disegno di rimodellazione della realtà bolognese in senso aristocratico ed elitario, attuato menzionando le raccolte nobiliari e sottacendo le borghesi. Il M. va dunque liberato tanto dalle vecchie accuse di contraffazione dolosa, quanto dalle nuove legittimazioni nello status di storico avvertito. Se non è corretto pretendere dal M. coscienza "positiva" e criteri editoriali scientifici, lungi dal venire, neppure è lecito tramutarlo in una vox clamans precorritrice di metodologie future, come accade agli studi più recenti, che nel giusto tentativo di rettificare etichette viete, finiscono con lo sbilanciarsi sul versante di un sorprendente "premuratorianesimo" (sia pure tra virgolette: Perini, 1997, p. 112). In questa prospettiva riequilibrante, vanno investiti della giusta portata i tardi contatti con Papebroch e J. Mabillon, che il M. incontrò personalmente, benché dopo la pubblicazione della Felsina pittrice (A. Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri, Bologna 1973, p. 64); se Perini, cui spetta il merito di averli individuati, li considera spie della "volontà di adesione" e del "pronto sforzo di adeguamento" ai criteri della nuova storiografia europea (1984, pp. 192 s.), va specificato che l'ammirazione e la vicinanza ideale che il M. poté nutrire per entrambi non garantiscono l'adozione di una metodologia altrettanto cosciente e avanzata, né di un metodo "corretto" tout court.
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