CHIAVES, Carlo
Nacque il 28 nov. 1882 a Torino, secondo dei quattro figli (gli altri erano Claudia, Edoardo e Malvina) di Desiderato e Dina Calandra.
Il padre si era affermato come uomo politico subalpino e come avvocato, ma non come scrittore, nonostante i tentativi nei più vari campi; la madre, di trent'anni più giovane del marito, apparteneva a una cospicua famiglia torinese ed era sorella dello scultore Davide e del pittore e scrittore Edoardo.
Con la morte del padre, avvenuta nel 1895, il C. rinforzò i legami con gli zii Calandra - che si occuparono in effetti della sua formazione e ne favorirono le inclinazioni artistiche -, pur se assai sensibile dovette ugualmente risultare l'influenza del padre, del quale, sia come poeta sia come commediografo, egli riprese temi e atteggiamenti, secondo quanto suggerisce il suo critico più intelligente e aggiornato, A. R. Pupino, nella Nota biografica premessa a C. Chiaves, Commedie ined. e altro, Roma 1972, p. 64 n.
Dopo il conseguimento della laurea in giurisprudenza presso l'università di Torino, con una tesi sulla Riforma agraria in Italia (per la quale cfr. M. A. Prolo, Ricordo di C. C. e di E. M. Pasquali, in Torino. Rass. mensile della città, giugno1939, p. 29), e l'immatura scomparsa della madre, il C. fece per qualche tempo il praticante in un importante studio legale torinese, preferendo però fin da allora alla grigia routine professionale, alla quale peraltro non l'obbligava la sua condizione di benestante, una intensa vita di relazioni, regolarmente punteggiata da pause di meditazione e ritiro nella villa di Monale d'Asti, la "Bastita", che restò sempre il suo punto di riferimento e il suo rifugio estivo. Non per questo sembra il caso di sopravvalutare (come fa invece G. Farinelli, nel saggio C. C. crepuscolare solitario, che introduce Tutte le poesie edite e inedite, Milano 1971) la vocazione georgica del poeta cittadino, "parinianamente contento di vivere secondo un antico e vergine istinto" in uno "stato classico, di grazia" (ibid., p. 26). La campagna, infatti, nell'opera del C., è soprattutto lo scenario immutabile e pressoché convenzionale di una rappresentazione rasserenante, rispetto alla quale il distacco del poeta è totale e per giunta chiaramente improntato a un atteggiamento di tipo estetistico.
È proprio anzi alle conversazioni salottiere e alle abitudini più arcadiche che scapigliate di questi anni che va fatta risalire la precisazione di una vocazione letteraria più remota. La frequentazione dell'alta società torinese, dai Mirafiori ai Pomba, agli Agnelli, e il confronto diretto e la pratica amicale con i vari Gozzano, Gianelli, Vallini e Guglielminetti, in un tessuto culturale in cui sarebbe fortemente limitativo privilegiare soltanto la cifra crepuscolare e il ruolo di Gozzano e dei gozzaniani, stanno dunque all'origine dello smilzo canzoniere pubblicato dal C. a Torino, nel 1910, Sogno e ironia, e della sua semplificata visione della vita, all'insegna dello scetticismo più generico e mondano.
Che non ci fosse dietro una vera e propria ricerca culturale viene ampiamente confermato ad apertura di libro. Ne è ben consapevole il poeta, che, in Ad un compagno di scuola, si domanda: "Quanti [degli antichi compagni di scuola] si trovano avvinti / da le catene dei bisogni, / oh! come lontano dai sogni / dai desideri dagli istinti!?", ma non sa andar oltre l'esaltazione della funzione peculiare, privata e mondana insieme, della poesia che si è scelto: "Io vorrei ne la mia segreta / anima, raccogliere l'intera / anima di tutta la schiera, / io solo, il vostro poeta". In cui è da leggere la percezione ambiguamente commossa dell'interminabile vacanza che è toccata, non a caso, proprio a quello che ha saputo e potuto meglio difendersi dal mondo "dei bisogni".
Di questo tipo è l'abbassamento programmatico della figura e del ruolo del poeta, ritagliata sulla misura dei canali reali dei quali il C. - he fu tra i primi collaboratori del Corriere dei piccoli - si serviva (il quotidiano, la rivista mondana, il salotto) e adattato alle aspettative di una società colta ristretta e provinciale, oltre che naturalmente incline a scambiare la problematica inane dei propri passatempi intellettuali e sentimentali, per una superiore, ironica consapevolezza. Perciò poco approfondita, se non addirittura inconsistente, risulta la critica del sublime poetico e del corrispondente ruolo sociale: quella dei poeti è "una razza inquieta / di gente, che è scomparsa da quasi un'eternità", nel componimento che apre emblematicamente la raccolta, e il C. può confessare A Francesco Pastonchi quando scrisse la "Canzone dell'amicizia":"Non per consiglio d'arte / io scrivo: oh! credi! ma per bizzarria". Ben più felicemente si delinea invece un atteggiamento di contenuta partecipazione nei confronti della vita, la scettica consapevolezza e la divertita subordinazione di chi non confonde più tra di loro sogno e realtà, ma sa che ogni opzione realistica sarebbe del tutto insufficiente se non contemplasse anche il sogno e non fosse capace di prenderne le distanze. Le freddure da salotto si convertono così immediatamente in canto (anzi in canzonetta), sfumando nel divertimento l'aridità di una intelligenza troppo attaccata alle cose. Il luogo comune del poeta che si schermisce - "Ingegno? No! un po' di spirito, / ma... spirito da tempo perso!" (Pessimismo)-, oltre l'ortodossia crepuscolare, diventa la consapevolezza dei limiti pragmatici, e delle insospettate risorse, di questa poesia, che si risolve nell'oculata ed educata amministrazione di un patrimonio sentimentale non eccelso, ma neanche del tutto irrilevante. Ciò che non avviene e non può avvenire se non nel sogno acquista un suo minimo spessore proprio grazie all'ironia, che lo ripropone nei termini reali nei quali si presenta ai troppo scaltriti viveurs torinesi, capaci di liberarsi di D'Annunzio solo perché lo ritengono troppo ingenuo e abbandonato: "Se io indovinassi che tu, / bambina, che tu mi vuoi bene, / non troppo, ma quanto conviene / per non lasciarci mai più" (Invito); oppure: "Così tu vai sicura, / entro una fiamma accesa, / barbaramente illesa, / ferocemente pura" (L'impeto vano); oppure ancora: "Credo perfin che ho sofferto / un dolor vano, ma intenso" (Tra veli de la memoria).
Aveva dunque ragione Giuseppe A. Borgese, quando, nel celebre Poesia crepuscolare. Moretti,Martini,C. (originariamente pubblicato in La Stampa, 1º sett. 1910, e poi raccolto in La vita e il libro, s. 2, Torino 1911, pp. 149-160), soprattutto per il C. si richiamava all'"anima leggiadramente canora del Metastasio, del Vittorelli e degli abati settecenteschi" e ne sottolineava la disposizione ironica e i legami con un ambito tipicamente salottiero; ma aveva probabilmente torto quando rintracciava "l'origine del movimento ironico nell''anacronismo' - o, se si preferisce nello scompenso - che comporta l'impiego del cantabile" (A. R. Pupino, C.C. e il salotto liberty, in Commedie inedito, p. 11), a meno di non intendere per anacronismo quello reale che caratterizzava i rapporti tra il suo entourage raffinato e provinciale e la società e la cultura contemporanee. Perché l'ironia del C. è il segno di un inserimento felice e soltanto oggettivamente dà la misura della propria insufficienza e della sua marginalità.
Ai ventuno componimenti di Sogno e ironia vanno comunque aggiunte le molte poesie, inedite o sparse, raccolte dal Farinelli nel volume citato, che poco aggiungono alla fisionomia del poetino torinese, salvo forse, in genere, la delineazione più netta di una indipendenza da Gozzano che è prima di tutto il segno di una manifesta inferiorità, ma anche dell'esistenza di una "funzione antigozzaniana" (G. Farinelli, C.C. crepuscolare solitario, in Tutte le poesie, p. 35), e il tratto singolare di una inoffensiva spregiudicatezza, ai limiti della freddura e della maldicenza. Si veda nelle favole: "Un principe romano, molto caldo di cuore, / molto svelto di mano, specie con le signore, / per insegnarle il tango, fuori dal serra serra, / la trasse in una serra, la sequestrò in un angolo, / e qui si pose a tangere, con molta intraprendenza" (Cenerentola); in Cappuccetto rosso, il lupo "in compenso ottenne, / offrendomi ricovero, / gli avanzi del mio povero / pudore minorenne..."; fino alla morale della Bellae la bestia: "Solo così la bestia / diventa bella e buona: / mutando la persona, / troncando la molestia".
I limiti di un'ottica sempre rigorosamente privata e di una dimensione societaria tanto ridotta condizionano ancora più pesantemente, com'è ovvio, la produzione teatrale del Chiaves. Il quale, d'altra parte, al teatro arrivò con la naturalezza di chi non riesce a vedere oltre il puro gioco verbale della conversazione mondana e la futile drammaticità della contesa di ingegni brillanti.
L'anno stesso in cui uscì Sogno e ironia, in una lettera a Nino Caimi, direttore del quindicinale La Donna, il C. già dava notizia di aver portato a termine una commedia in tre atti (Fare e disfare, secondoAzia Ciairano, Le commedie inedite di C. C., in Il Ragguaglio librario, XXXVIII [1971], 5, p. 150), che doveva però rimanere inedita fino alla meritoria edizione curata dal Pupino. Fu invece regolarmente rappresentata al teatro Carignano di Torino, il 23 genn. 1918, da Tina Di Lorenzo e Armando Falconi, Martina, una ripresa del tema del contrasto tra città e campagna, che non ebbe fortuna presso il pubblico e la critica. "Martina non si è più ritrovata, ed è dunque impossibile condividere o respingere o comunque discutere una tale stroncatura [quella uscita, a firma di S.F, su Il Momento del 24 genn. 1918]. Conoscendo però ora altre quattro commedie del Chiaves, si comprende come la prova del palcoscenico (che per quel che se ne sa fu la prima e l'unica) da lui affrontata, abbia sollevato grandi riserve, fino a risolversi in un insuccesso abbastanza clamoroso. Perché anche queste commedie si presentano, a prima vista, in termini abbastanza convenzionali". E il Pupino (C.C. e il salotto liberty, in Commedie inedite, p. 53) prosegue individuando nell'"insensibilità ai problemi del nuovo linguaggio teatrale" e nella riproposizione del solito triangolo da vaudeville i limitidi un lavoro che ha invece il suo aspetto più interessante nel capovolgimento ironico compiuto dall'autore nei confronti di una materia che già gli si configurava come irrimediabilmente compromessa con i più squallidi effetti da feuilleton. Oltre alla citata Fare e disfare e al Predecessore, il Pupino, nella edizione da lui curata, presenta due commedie senza titolo, a una delle quali ritiene di poter assegnare quello depositato dal C. presso la Società italiana degli autori ed editori nel 1912, La donna e l'amico.
Poco più di una curiosità risulta la notizia di una intensa attività del C. nel campo cinematografico. Egli lavorò, tra il 1917 e il 1918, a una riduzione dell'Amleto (poi interpretato da Ruggero Ruggeri) e stese il soggetto per un film che uscì postumo, Il mistero della casa di fronte. Così come non pare molto rilevante la riduzione del Giorno pariniano cui collaborò e che fu messa in scena con successo con i burattini di Ernesto Maria Pasquali e Leonardo Bistolfi.Il C. morì a Torino, il 16 maggio del 1919, e fu sepolto a Monale d'Asti nella tomba di famiglia.
Bibl.: A. Galletti, Il Novecento, Milano 1935, pp. 332, 534; E. M. Fusco, La lirica, II, Milano 1950, pp. 429 s.; A. Camerino, Nota a C. Chiaves, Sogno e ironia. Versi, a cura di A. Camerino, Venezia 1956; W. Binni, La poetica del decadentismoital., Firenze 1968, p. 159; H. Martin, G. Gozzano, Paris 1968, pp. 96, 114, 337; A. B. [A. Balduino], rec. a C. Chiaves, Tutte le poesie edite e ined., a c. di G. Farinelli, Milano 1971, in Studi novec., I(1972), 1, pp. 131 s.; A. R. Pupino, Le poesie,edite e ined. del C., in Il Ragguaglio librario, XXXIX (1972), 7-8, pp. 266 s.; P. Tuscano, rec. a C. Chiaves, Tutte le poesie, cit., in Lettere ital., XXIV(1972), pp. 133-37.