CITO, Carlo
Nacque nell'ottobre 1636 a Rossano Calabro (Cosenza) da una famiglia che, pur essendo stata aggregata alla nobiltà locale soltanto nel 1605, era già dai primi anni del Cinquecento tra le piùin vista nella vita sociale e culturale cittadina.
Il padre Anacleto fu, infatti, uditore nella provincia di Principato Ultra, la madre Diana era figlia di Filippo Pascale, patrizio cosentino membro del Sacro Regio Consiglio, e sorella di Bartolomeo, che le fonti ricordano tra i più brillanti avvocati di quello stesso tribunale. Un altro zio materno era uditore nella provincia teatina. La tradizione familiare fu continuata, oltre che dal C., soltanto da Giuseppe, che divenne avvocato fiscale e quindi regio uditore, mentre alla carriera ecclesiastica vennero avviati gli altri quattro figli maschi: Antonio, Giovanni, consacrato da Innocenzo XII vescovo di Lettere, Giacomo, morto giovanissimo, Alfonso, futuro presidente degli abati di Monteoliveto. In seguito, probabilmente proprio per consentire ai figli di continuare gli studi, la famiglia si trasferì a Napoli, nel cuore della città, nella piazza detta "Ad Arco", in un grande palazzo che, come ricordò il C. anni più tardi, fu devastato per ben due volte: nel 1647 durante i moti masanelliani, e nel 1701 dai congiurati del principe di Macchia.
Condotta a termine la preparazione umanistica presso i gesuiti, il C. si dedicò alla riflessione strettamente giuridica sotto la guida del padre Giuseppe Cavalieri, e ottenne il dottorato a vent'anni. È facile intuire quali furono da allora in avanti le fortune del giovane avvocato: nella Napoli della seconda metà del Seicento, non gli fu difficile combinare la stima e la clientela di cui godeva lo zio Bartolomeo con le sue doti di cultura, anche letteraria, per raggiungere in breve tempo una posizione di primo piano nel foro e nella società. Membro degli Spensierati di Rossano, l'antica accademia fondata da Camillo Toscano, a Napoli fece parte degli Infuriati, cui appartenne anche il Vico, partecipando, il 28 giugno del 1672, alla solenne tornata in onore del viceré marchese d'Astorga, il quale si era appena insediato.
Proprio contro l'Astorga il C. ottenne il suo primo importante incarico pubblico, che valse a creargli un legame, divenuto poi stabile, con la nobiltà cittadina. Fu scelto, infatti, nell'estate 1675 - insieme con gli avvocati Fabio Crivelli, Francesco Antonio Andreasso e Fulvio Caracciolo - per difendere, contro il viceré, le ragioni della Città che rivendicava un controllo sulle leghe adottate per la coniazione di nuova moneta, resa necessaria dalla continua falsificazione e tosatura di quella in circolazione. Della questione fu investito il Collaterale: dalle "piazze" fu affidata al Crivelli la discussione orale e al C. la redazione di una memoria scritta, in cui si richiamò soprattutto a un privilegio concesso da re Federico nel 1496. Ma, elevato in seguito a tredici il numero dei difensori della Città, questo suo lavoro fu sostituito da un documento collettivo, in base al quale il Collaterale emanò un'abile sentenza interlocutoria favorevole ai nobili.
Nel luglio 1679 il C. fu eletto dalla "piazza" del popolo, insieme con Francesco D'Andrea, governatore della Casa della SS. Annunziata; ma entrambi si dimisero immediatamente. Accettare la nomina in un momento di acuta tensione tra il rappresentante del popolo Guaschi e le altre "piazze" avrebbe significato, infatti, per il C., compromettere sia lo stretto vincolo professionale che lo univa ormai all'aristocrazia, sia il corso della sua ascesa sociale. Ricorse così al viceré "rappresentando - come scrisse l'agente fiorentino Berardi (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo, 1597, 4 luglio 1679) - che la sua famiglia non era inclusa nell'ordine popolare". Partecipe, appunto, di quel processo collettivo di nobilitazione che investì in quegli anni l'intero ceto dei giuristi, nel 1693 il C. iniziò davanti al Sacro Regio Consiglio un procedimento per essere reintegrato nel possesso di un feudo a cui era legato un titolo nobiliare, ed infine nel marzo 1695 riuscì a soddisfare le sue aspirazioni, entrando a far parte della nobiltà di Benevento.
Furono ben trentadue le famiglie che, per ordine del papa o della Città, vennero aggregate in quell'occasione, e, secondo l'opinione comune riportata dal Confuorto nei suoi Giornali, salvo la Sangro, l'Orsini e la Guevara, erano tutte "assai ordinarie" e di "mediocre civiltà". Ma al di là di queste riserve di carattere sociale. sulla capacità e sull'onestà professionale del C. circolavano addirittura aneddoti che lo. dipingevano solito rifiutare, anche a prezzo di notevoli perdite economiche, le cause che riteneva di non poter condividere. Una testimonianza in questo senso viene dall'ammontare del suo patrimonio che, dalla registrazione del 1696 nei Diversi del Sacro Regio Consiglio, appare cospicuo, ma non certo eccezionale per uno dei migliori avvocati del Regno; era composto, infatti, da due case di città, da alcune masserie e da un capitale liquido abbastanza considerevole, variamente investito, che gli garantivano una rendita, dati i tempi, niente più che decorosa. Uomo religiosissimo - era, tra l'altro, fratello nella Congregazione dei bianchi di S. Agostino - paradossalmente il suo nome ricorre più volte negli atti del famoso processo agli ateisti: tre dei quattro imputati, infatti, si erano conosciuti frequentando il suo studio, e furono concordi nel dichiarargli, durante gli interrogatori, affetto e stima profondi.
Nel gennaio 1696 il C. fu creato consigliere del Sacro Regio Consiglio, al posto del defunto Bartolomeo De Angelis; la nomina, venuta direttamente dal Supremo Consiglio d'Italia, senza che egli l'avesse sollecitata e nonostante non fosse stato incluso nelle proposte avanzate dal viceré, incontrò l'approvazione generale, che anche in seguito accompagnò il C. nella sua attività di ministro. L'unico giudizio fortemente critico nei suoi confronti - "la polizia sporcata dal ladroneccio" - dato da un anonimo autore di Ritratti dei magistrati (Napoli, Bibl. naz., ms. XIV.H.43) trova spiegazione nella natura stessa della composizione, un violento attacco portato all'intero ceto ministeriale in occasione della riforma del 1707. Tra le molte cause di cui il C. fu. delegato particolarmente importanti furono quelle del ricco e potente segretario di Stato pontificio, cardinale Spada; grazie a quest'ultimo, inoltre, il C. riuscì a far confermare il fratello Giovanni vescovo di Lettere, quando questa promozione fu messa in dubbio dalla cattiva condotta dell'altro fratello, l'abate Alfonso. Ma neanche l'impegno pratico nell'amministrazione dello Stato distolse il C. dai suoi studi, tanto che dal 1705 al 1707 ricoprì all'università la cattedra di diritto feudale, e l'indiscusso prestigio conseguito anche in quest'incarico costitui uno dei fattori decisivi per l'avanzamento di grado ottenuto al passaggio del Regno dalla Spagna all'Austria. Il 28 ottobre 1707 il C. ottenne, pur non essendo mai stato filoaustriaco, la "piazza" di reggente del Collaterale, nel quadro del delicato rimpasto delle magistrature seguito al mutamento di regime. Anche se costretto dalla paralisi a lunghe assenze, nei due anni successivi il C. rappresentò all'interno del Collaterale, con il decano marchese d'Acerno e con Gennaro D'Andrea, il gruppo di magistrati che coraggiosamente si oppose all'esoso fiscalismo asburgico e chiaramente denunciò come la continuità con il periodo spagnolo, voluta dall'imperatore, si stesse risolvendo nell'aggravamento dei mali precedenti. Per questa ragione, quando i tumulti popolari del giugno 1709 e la crescente insofferenza dell'aristocrazia richiesero segni tangibili di cambiamento, i tre reggenti anziani furono i primi ad essere sacrificati. Il 23 ott. 1709 un dispaccio reale giubilava il C. in vista "della sua età e continua indisposizione", conservandogli "l'intero salario et honori come se stasse in servizio". Un altro dolore pesava, nel frattempo, sulla coscienza del C.: la scomunica comminata il 16 giugno 1708, in piena polemica beneficiaria, al viceré, ai membri ed al segretario del Collaterale, agli economi regi ed al cappellano maggiore; fu, perciò, tra i primi a chiederne la revoca, quando, nel marzo 1710, il pontefice offrì questa possibilità.
Morì a Napoli il 10 nov. 1712. Dei dieci figli avuti dal matrimonio con Anna De Majo, nobile del "seggio" di Montagna, i più noti furono Michele, giudice di Vicaria, Baldassarre, presidente del Sacro Regio Consiglio, e Antonio, confessore a Vienna dell'imperatrice Amalia.
Fonti e Bibl.: Le biogr. più complete sono quelle di G. Gimma, Elogi accademici della Società degli Spensierati di Rossano, II, Napoli 1703, pp. 133-140; e di D. Confuorto, Discorsi postumi, in C. De Lellis, Famiglie nobili, IV, Napoli 1701, pp. 219-224; meno esaurienti F. De Fortis, Governo polit. del giureconsulto, Napoli 1755, pp. 109-110, 311; C. C. Minieri Riccio, Mem. stor. degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1884, p. 102; riassuntiva delle fonti settecentesche è quella di L. Accattatis, in Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, II, Cosenza 1869, pp. 284-285. Alcuni cenni contengono le varie storie della cultura del Regno, e B. Croce, Aneddoti di varia letter., II, Napoli 1942, p. 171; e ancora C. Minieri Riccio, Cenno stor. delle Accademie fiorite nella Città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap., III (1878), pp. 298-304, e IV (1879), p. 530. Sui rapporti del C. con le "piazze", sulla sua ascesa soc. e sulla nomina al Sacro Regio Consiglio, vedi Napoli, Soc. nap. di st. patria, ms. XXI.D15: N. Caputo, Delli Annali della Città di Napoli, 30 ag. 1675; S. Mastellone, Francesco D'Andrea politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969, p. 71; I. Fuidoro [V. D'Onofrio], Giornali di Napoli dal MDCLX al MDCLXXX, IV, a cura di V. Omodeo, Napoli 1943, p. 272; D. Confuorto, Giornali di Napoli dal MDCLXXIX al MDCIC, a cura di N. Nicolini, II, Napoli 1930, pp. 153-154, 196-197, 319, 322; e soprattutto G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Napoli 1972, pp. 224-226, 257-258, 385, 600. Sulle relazioni del C. con gli "ateisti", L. Osbat, L'Inquisiz. a Napoli. Il processo agli ateisti (1688-1697), Roma 1974, pp. 59, 63, 92, 263, e in particolare con Basilio Giannelli, la lettera (25 marzo 1689) di quest'ultimo in A. Magliabechi, Corrispondenza napol., a cura di A. Quondam-M. Rak, I, Napoli 1978, p. 508. Sull'attività univers. del C., N. Cortese, L'età spagnola, in Storia dell'Univers. di Napoli, Napoli 1924, p. 356; G. C. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, II, Napoli 1754, pp. 162-163. Sulruolo svolto dal C. negli anni 1707-1709, vedasi Diario napolet. dal 1700 al 1709, a cura di G. De Blasiis, in Arch. stor. per le prov. nap., X (1885), pp. 615-617; A. Granito di Belmonte, Storia della congiura del Principe di Macchia e della occupazione fatta dalle armi austriache del Regno di Napoli nel 1707, II, Napoli 1861, p. 199; F. Nicolini, Uomini di spada, di Chiesa,di toga,di studio ai tempi di G. Vico, Napoli 1942, pp. 229, 236, 250 e, per quanto riguarda la religiosità del C., p. 265; G. Galasso, Introduzione a P. M. Doria, Massime del governo spagnolo a Napoli, a cura di V. Conti, Napoli 1973, pp. XX-XXI; soprattutto la recens. a quest'ultimo di R. Aiello, in Boll. del Centro di studi vichiani, IV (1974), pp. 197, 201. L'attività di magistrato del C. è ampiamente documen. dai fondi dell'Archivio di Stato di Napoli, e in particolare: Sacro Regio Consiglio, Liber Descendentiarum, vol. 1277, ff. 113v-114; Sacro Regio Consiglio, Notamenti voll. 772-774 (la descrizione del patrimonio del C. è nel notam. del 4 febbr. 1696 nel vol. 772); Collaterale, Notamenti, voll. 117-119 (il dispaccio di giubilazione è nel vol. 119, f. 344 della num. antica). Altri accenni all'attività del C. in Collaterale, Affari diversi, I, vol. 36, 24 nov. 1712 e in Vienna, Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Ital. Span. Rat, Neapel,Collectanea, Fz 19, n. 3.