COLONNA, Carlo
Terzogenito di Filippo gran contestabile del Regno e di Lucrezia Tomacelli, nacque a Roma nel 1607. Sin da fanciullo il C. rivela una natura particolarmente collerica, un'indole violenta che - lungi dal correggersi con una spruzzatura d'istruzione e dallo stemperarsi in - un progressivo ingentilimento dei tratti - s'esasperano e s'estremizzano via via alimentate dalla smodata boria d'appartenere alla famiglia ritenuta la più "antica" e "Principale" di Roma. Nefasto, per il C., l'esempio paterno (il contestabile del Regno di Napoli Filippo è, infatti, ostinatissimo in fatto di titoli, prepotente, a tal punto gonfio d'orgoglio da accogliere il papa che lo visita a Cave nel 1630 sciorinando schierati in armi 3.000 uomini a piedi e ottocento a cavallo), tale da incoraggiarlo a diventare forse il peggior esemplare di quella "superbia colonnese" la quale, come noterà Fulvio Testi, era "venuta in fastidio a tutto il mondo". Impegno dell'adolescente, che si fregia del tratto distintivo di duca dei Marsi, non esitare a mettere mano alla spada laddove si tratti di "causa di titoli"; come, a suo tempo, il padre scatenò quasi un "garbuglio" per una questione di "precedenza del sedere", così il C. è della più ottusa intransigenza in fatto d'alterigia nobiliare. Non vorrà mai cedere quando è in ballo "picca di titoli".
Attaccabrighe e protervo il C., non senza molte preoccupazioni della famiglia e degli ambienti più vicini al pontefice; il mestiere delle armi sembra un buon espediente per disciplinarlo e, soprattutto, per allontanarlo da Roma ove la sua arroganza rischia d'inasprire troppo, la tensione con le altre grandi famiglie aristocratiche. Capitano, nel 1626, d'una compagnia di corazze napoletane dapprima milita in Fiandra quindi, al più tardi dalla fine del 1628, in Lombardia dove - dietro esplicita raccomandazione del padre sempre timoroso commetta qualche balordaggine - Mazzarino (figlio del maggiordomo di Filippo e già compagno, a Salamanca, di studi e spassi d'un fratello del C., Girolamo poi cardinale) si occupa di lui e vigila sulla sua condotta. E, poiché il C. si ferisce ad una mano, Mazzarino sollecito lo fa curare dai gesuiti a Genova. Rifiutato all'inizio del 1630 il grado - a suo avviso non abbastanza prestigioso - di mastro di campo delle milizie pontificie, il C. partecipa all'assedio di Casale e quindi, quale mastro di campo del "terzo vecchio" di Napoli, raggiunge nuovamente la Fiandra, donde passa in Germania per combattere contro gli Svedesi in Palatinato e Baviera. Di nuovo in Fiandra, quanto meno dall'estate del 1632, fa capo a Bruxelles come attestano un paio di missive da li inviate a Mazzarino. Ed il fatto che Testi lo nomini in seguito quale "quello che in Fiandra si batté col duca di Lerma" fa collocare nei 1632-33 circa un suo duello - probabilmente avvenuto per questioni d'onore - con Francisco Gomez de Sandoval, che deve aver destato un qualche scalpore se viene ricordato come episodio notorio anni dopo. Rientrato a Roma entro l'estate del 1634, il C. vanta nei raduni e nelle conversazioni le sue guerresche prodezze, esagera i suoi bellici cimenti. Spicca assecondante nel palazzo di famiglia il ritratto equestre - attribuito troppo disinvoltamente al pennello di Van Dyck (G. Lefemestre-E. Richtenberg, Rome..., Paris 1905, p. 167, e L. Callari, Ipalazzi di Roma, Roma 1932, p. 495) - che lo coglie in primo piano, sullo sfondo d'un agitato urto di cavalieri, col bastone di comando nella destra e la gloria calante su di lui dall'alto reggendo una colonna. Ma se nel quadro la sua smania d'affermazione s'ammanta di nobili movenze, di fatto - per le vie di Roma - s'esprime nel tentativo di rozzamente spadroneggiare.
Ed è, appunto, un gesto di grossolana soperchieria quello compiuto dal C. il 1° settembre, nel giorno della festa di S. Egidio, d'irrompere da un vicolo con la carrozza e tagliare oltraggiosamente la strada a quella che reca, coi rispettivi precettori, quattro fanciulli, due fratelli Cesarini e due fratelli Caetani loro cugini. Un'offesa intollerabile - il C., riassumerà Testi, fa "fermar" dai suoi staffieri il cocchio "de' predetti signorini e si mette loro innanzi" sbeffeggiandoli - per l'animoso Gregorio Caetani, pur egli reduce dalla Fiandra, che dei ragazzi è zio. Questi l'indomani esce con un certo seguito deciso ad esigere dal C. le debite scuse; mossa prevista ché il C. s'aggira a sua volta per il centro spalleggiato da un gruppo d'armati e indossando per precauzione un giubbone "imbambagiato grave con li piastrini". Incontratesi le carrozze, il primo lo redarguisce severamente. Ne nasce un duello tra i due, mentre i rispettivi seguiti s'affrontano in una furibonda mischia nella quale non mancano i feriti. Il C. ha la peggio ed incalzato indietreggia chiedendo a gran voce aiuto; lo salva Giulio Bufalini (può essere sia lo stesso che pubblicherà, a Roma nel 1637, un discorsetto cavalleresco indirizzato al re di Francia di cui in G. E. Levi-I. Gelli, Bibl. del duello..., Milano 1903, p. 116 e in L. Ferrari, Onomasticon, Milano 1947, p. 153), che per lui si sta battendo, il quale, con una proditoria "stoccata sopra la mammella", trafigge Caetani. Il giovane stramazza e, di lì a poco, muore. Vè, allora, un fuggi fuggi generale nel corso del quale il C., rimasto ferito (e se non avesse avuto "il duro, cioè giubbone a piastre", per lui sarebbe andata assai peggio, a giudizio di Lorenzo Ceccarelli che informa dell'"avvenimento" Galilei), viene trasportato in un palazzo amico, donde poi riparerà nel palazzo paterno e, quindi, nella villa di famiglia a Marino ove, ristabilitosi, sperpererà grandi somme al gioco.
L'accaduto mette Roma "sossopra", avvisa Testi. Il feroce "combatto", informa il rappresentante veneto Alvise Contarini, fa riemergere "antichi" contrasti che parevano sopiti, rianima l'odio tra le "case" con grande "agitatione" d'Urbano VIII e di tutto il "palazzo".
Pare, infatti, scoppiata la "guerra civile di Roma". Si profila una lunga ed esiziale serie di ritorsioni e controritorsioni (e, in effetti, nel 1640 Bufalini sarà ammazzato a colpi di archibugio nei pressi di Città di Castello, suo luogo natio, per ordine, pare, dei Caetani) con gravissimo pericolo per l'ordine pubblico. Il padre del C. incede, circondato da una cinquantina di bravacci col moschetto, con ostentata "pompa del suo potere"; per fortuna i Caetani per il momento non reagiscono, "per non esservi - così Contarini - da quella parte capi" e "huomini di spada". Però godono dell'appoggio di tutto il corpo diplomatico e dell'esplicita dichiarazione in loro favore degli ambasciatori sabaudo, mediceo, estense, farnesiano e del viceré di Napoli. Anche la "plebe" parteggia per loro poiché, come costata Contarini, "odia i Collonesi". Il papa è "angustiatissimo": "se fa giustitia", osserva Contarini, s'inimica i Colonna coi quali è imparentato; "se non la fa", avrà nei cardinali Luigi Caetani e Alessandro Cesarini, "creature potenti" entrambi, due dichiarati avversari e lascerà "a i nepoti un bell'intricho per il papato futturo". Un "negozio" tutt'altro che "da burla", commenta Testi, che insidia la credibilità del governo barberiniano, che evidenzia, così Contarini, la "titubanza grande di palazzo", la sua incapacità di sedare "i disordini". Da un lato v'è l'anomala "autorità dispotica" del contestabile, "ancorché suddito"; dall'altro il costituirsi, per contrastarla, di "conventicole di ministri di principi esteri con case private sotto l'occhio del papa", che - quasi gruppo di pressione, di coalizione di casate e Stati esteri - esigono la punizione del C., la mortificazione della prepotenza della sua famiglia. Né va trascurato lo strascico dei "banditi" delle due parti postisi in "campagna". Urge una formalizzata composizione: Uttino VIII, le cui reiterate proposte d'accordo non lavano, peraltro, la macchia di "parciale di Collonesi", riesce, alfine, nel maggio del 1635, ad ottenere - sia pure tramite tre distinti atti sottoscritti separatamente dai Colonna (dal C. e, a garanzia, da suo padre), dai Caetani e dai Cesarini - un impegno di "pace".
Quanto al C., scagionato dall'accusa d'avere egli stesso ucciso l'antagonista e forte dell'assoluzione pubblicata nel gennaio del 1635, partecipa - ad ogni buon conto scortato da ceffi armati - alle feste carnevalizie. Successivamente, prima comunque dello scadere dell'anno, raggiunge la Fiandra, donde l'internunzio Stravio ragguaglia il cardinal Francesco Barberini sul suo comportamento.
Nel gennaio del 1636 si batte, in uno scontro notturno, col conte di Megen, col quale ha litigato; datosi, poi, a corteggiare la figlia di Madeleine d'Egmont principessa di Chimay, è, ad un certo punto, diffidato dal frequentarla perché, pare, disgustata da talune sue espressioni. Gli subentra, più gradito alla giovane, il marchese Gonzaga suscitando nel C. furiosi propositi di vendetta, distratti, con sollievo di Stravio, dalla partenza, in giugno, per il campo. Non cessano, ad ogni modo, per l'internunzio le preoccupazioni ché il C., come scrive il 3 luglio, offesissimo d'essere stato posposto nel comando, da lui ambito, del reggimento del marchese Sfondrato, s'è precipitato dal governatore dei Paesi Bassi, il cardinal infante Ferdinando d'Austria, minacciando di congedarsi. Al che, senza tanti riguardi, questi replica ch'era liberissimo di farlo subito. Non senza sforzo Stravio riesce ad accomodare la faccenda convincendo il C. a riprendere servizio e il governatore a non licenziarlo. Nell'inverno del 1637 il C. - che, pure, dovrebbe andare, in temporaneo congedo, in Italia - preferisce trattenersi a Bruxelles ove è assiduo di casa Piccolomini nella quale rischia grosse somme al gioco; sembra, ad esempio, vi abbia perso, il 12 marzo, 2.000 o 3.000 fiorini.
Il 30 luglio il C. si reca col volto turbato da Stravio: una volta introdotto, tra sospiri e singhiozzi e stringendo in mano il rosario, gli esprime la decisione repentina di monacarsi. Più impressionato dai suoi sproloqui - il C. confusamente dice tra i singulti che lo Spirito Santo lo chiama perentorio, borbotta che i suoi servitori congiurano a suo danno, assicura che Tommaso di Savoia vuole trucidarlo - che convinto del suo proposito, Stravio dapprima tergiversa. Poi, pressato dalle sue insistenze, lo fa accogliere dai carmelitani scalzi. Nel contempo appura i precedenti immediati di tante lacrime e tanta agitazione: apprende, cioè, che il C. è stato bruscamente destituito dal comando del reggimento per eccesso d'insolenza nei confronti dei sottoposti, per essere trasceso col barone Claude de Besangon comandante delle truppe spagnole nell'Hainaut, per aver inveito contro i ministri regi in genere. Resta il fatto che il C, recita sino in fondo la sceneggiata del disgusto del mondo, dell'irresistibile bisogno di staccarsene per immergersi nella redentrice asprezza della solitudine, nella salutare contrizione della più assorta meditazione. Trascorre le giornate in ginocchio di fronte ad immagini sacre, mentre sgrana il rosario. Per quanto perplesso, Stravio ne prende atto.
Il 15 agosto il C. si trasferisce presso i carmelitani di Lovanio e, di lì, parte, il 29, per Colonia, qui raggiunto da un emissario della famiglia al quale assicura di non volere, ad ogni modo, urtare la volontà del padre (non insensibile quest'ultimo alla proposta fattagli da Francesco I duca di Modena - a sua volta interessato a guadagnarsene l'appoggio per ottenere il cardinalato ad Obizzo d'Este - di dare in moglie al C. una figlia del duca di Mirandola). Rimessosi in viaggio alla fine di settembre, in novembre il C. è a Bologna, mentre Stravio si preoccupa d'inviare a Roma i suoi mobili e l'argenteria e, più ancora, del risarcimento dei molti debiti di gioco rimasti pendenti a Bruxelles.
Una volta in Italia, il C. persiste nel desiderio d'abbracciare la vita religiosa, pur rinunciando alla troppo scomoda veste carmelitana. Non possiede - sono sue parole - quella "forza di complitione" richiesta dallo "instituto"dei "santi servi de Dio scalzi carmeliti". Dopo una parentesi orientativa a Loreto presso i gesuiti, finisce coll'optare, il 15 maggio 1638, per l'abito benedettino che - trascorsi i sei mesi di noviziato nel convento di S. Scolastica a Subiaco - indossa, pronunziando i voti, il 4 dicembre, assumendo, ad attestare il più completo ravvedimento, il nome di Egidio, il santo nella cui ricorrenza aveva provocato l'incidente delle carrozze. Non è il caso, comunque, di scorgere nel C. una prefigurazione del fra' Cristoforo manzoniano, d'annusarvi un'embrionale suggestione del macerante pentimento di quello. Ne costituisce, semmai, un'anticipata parodia. La vita claustrale è per il C. subito interrotta da consistenti pause e prolungate vacanze; da Montepulciano, ad esempio, scrive, l'8 ott. 1642, al protettore dell'Ordine, il cardinal Antonio Barberini, chiedendogli "una proroga della ricreatione della vendemmia". Il mondo del quale, con tanta enfasi, s'è detto disgustato continua ad attrarlo e per meglio apprezzarne gli svaghi si fa trasferire, nella primavera del 1639, a Roma nel convento di S. Callisto a Trastevere. Abate, nel 1641, dell'abbazia di S. Maria nella Valle di Giosafat, il 19 dic. 1643 viene insignito dell'arcivescovado, tutt'altro che impegnativo, di S. Amasia, in Anatolia, "in partibus infidelium". Le vesti prelatizie si confanno ben più del saio alla sua vanagloria; di queste paludato può con più agio riprendere le sue vecchie abitudini. Non è certo un vescovo di cui Roma possa menar vanto. E le saltuarie incombenze talvolta affidategli sono di semplice rappresentanza, le deve non già al suo prestigio personale - questo è affatto inesistente -, ma al cognome che porta, all'indulgenza benevola dei parenti.
La più nota tra queste è legata alle nozze del nipote Lorenzo Onofrio, nello svolgere la quale accumula gaffes e spropositi. Ridicolo l'esordio - la celebrazione nella cappella del Louvre, dell'11 apr. 1661, del matrimonio tra Maria Mancini e il nipote, rappresentato per procura dal marchese Angelelli -, poiché, come riferisce il rappresentante veneto a Parigi Alvise Grimani, s'intestardisce a "far... le cerimonie ecclesiastiche parte" in italiano "parte" in francese. Ma di questo è quasi ignaro sì che il "riso" dilaga "in universale" tra gli astanti e coinvolge contagioso le stesse "regie maestà" (Luigi XIV, la moglie e la madre) costrette a grandi sforzi per trattenerlo. Nel viaggio poi da Parigi a Milano (ove il nipote attende la sposa) funestato da varie peripezie dovute all'imperversare del maltempo e divenuto rischiosissimo per la furia di una spaventosa tempesta (un carro coi bagagli precipita in un burrone con morte di servi e cavalli; il C. stesso rischia di morire tra le macerie del malfermo edificio ove la comitiva s'è rifugiata), il comportamento del C. ha dell'incredibile. S'abbandona senza ritegno ad abbondanti libagioni e, mezzo ubriaco, ora accenna a rozze avances nei confronti di Maria ora la spaventa con sogghignanti racconti delle scapestrataggini del nipote, il quale, assicura, manesco e crudele com'è, l'avrebbe certo "acconciata per le feste". Geloso, inoltre, d'Angefelli - cui, a suo avviso, si prestano più riguardi che a lui - dà in frequenti escandescenze contro di questo. Raggiunta Milano e sposatavi "privatamente" la coppia, il viaggio prosegue lento e fastoso alla volta di Roma. Giuntovi, il C., sempre triviale e linguacciuto, non desiste da importune intromissioni: appreso che un aborto ha interrotto la prima gravidanza di Maria, s'aggira negli ambienti cardinalizi e aristocratici per propalare la convinzione che essa non darà mai un erede al contestabile. È troppo malaticcia, ribadisce, le occorre il medico, non la levatrice. È logico che Maria, per quanto egli strepiti, non voglia la sua compagnia nelle puntate a Venezia per il carnevale. E quando, nel 1669, il C. riesce ad aggregarsi alla comitiva che con lei si reca in viaggio di piacere a Napoli, scoppia ben presto una scomposta lite tra il C. e un nipote, l'abate Filippo Colonna: schiumante di rabbia il vescovo sfida a duello l'esterrefatto parente. Nel 1672, infine, di fronte alla clamorosa fuga di Maria, il C., lungi dallo sdrammatizzarla, è il più intemperante nel deplorarla: teatralmente evoca gli spiriti degli antenati a piangere sullo smacco subito dal prestigio del casato.
Ma, a parte episodi siffatti, del C. resta ben poco da ricordare. Risulta, comunque, attorno al 1664-1666, per qualche tempo a Madrid, donde si reca, nell'autunno del 1666, a Vienna, membro - non sappiamo quanto inopportuno - del seguito della sorella di Carlo II destinata sposa all'imperatore. A Madrid ritorna, ad ogni modo, l'anno dopo a garantirsi l'effettivo pagamento d'una pensione di tremila scudi "in rendite ecclesiastiche" promessagli ancora dalla "gloriosa memoria" di Filippo IV. Divenuto patriarca di Gerusalemme il 19 genn. 1671, ma deluso nella sua impudente aspirazione al cardinalato, muore a Roma il 18 ott. 1686 e viene sepolto nella chiesa benedettina di S. Callisto.
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