CONTI, Carlo
Nacque a Roma da Torquato, duca di Poli, e da Violante Farnese, figlia naturale di Ottavio duca di Parma, intorno alla metà del sec. XVI. Dopo i primi studi nel prestigioso Collegio Germanico di Roma prese gli ordini e si laureò in diritto a Perugia. Nominato sotto il pontificato di Gregorio XIII referendario delle due Segnature, sappiamo che venne largamente beneficato e sostenuto dal cardinale Alessandro Farnese, che ebbe uninfluenza notevole sulla sua carriera ecclesiastica. Nel gennaio 1585 fu nominato vicelegato di Viterbo e della provincia del Patrimonio e quindi dì quella di Camerino; per volontà di Sisto V il 1°luglio dello stesso anno si vide affidare, in qualità di vescovo, la diocesi di Ancona con il governatorato dell'Umbria e di Perugia.
Nella sua diocesi, fissò e codificò regole giuridico-amministrative che vanno ricordate sotto il nome di "comitule" e contribuì ad edificare il monastero di S. Palazia, ad istituire il conservatorio delle penitenti e ad introdurre nella città la Compagnia di Gesù, che vi stabilì un proprio collegio. Eletto da Clemente VIII presidente della Marca, acconsentendo alle insistenti richieste della Comunità cittadina fiavorì l'istituzione di un Monte di pietà; si dimostrò tollerante nei confronti della comunità ebraica e, con soddisfazione dei papa, s'impegnò nell'accordare significativi privilegi ai ceti mercantili e nel prestare particolari attenzioni alle attività commerciali dei porto di Ancona.
Nel 1587, nonostante il cardinale Farnese lo avesse scelto come proprio candidato nella nomina dei cardinali, il C. non riuscì per il momento ad ottenere la porpora cardinalizia. Allo scoppio della questione di Ferrara, fu nominato nunzio straordinario a Venezia e a Praga.
Secondo le istruzioni impartitegli, si trattava di ottenere, eventualmente anche con aperte minacce, la totale astensione dal conflitto della Repubblica di S. Marco facendo leva sul timore veneziano di irritare eccessivamente il pontefice o, peggio ancora, gli Spagnoli. Compito precipuo dell'ambasciata doveva essere il "dimostrare, che essendo essi [i Veneziani] più grandi degli altri hanno anco da procurare che col fomentare D. Cesare non si mantenga la perturbacione et il fuoco che per sua causa si accende, il quale ponendo alli principi possenti in necessità di armare per la sicurezza dei loro Stati habbia da partorire pessimi effetti e conseguenze..." (V. Prinzivalli, p. 98). Così pure era indispensabile far comprendere all'imperatore quanto fosse dannosa una diversione militare italiana ai fini di un'elficace difesa imperiale dagli assalti turchi e perciò quanto fosse inevitabile astenersi dal soddisfare le richieste di Cesare d'Este.
In realtà, la prima tappa della missione del C. fu presso il duca d'Urbino: egli giunse al suo cospetto il 24 nov. 1597 e immediatamente argomentò e giustificò l'iniziativa militare del papa per l'occupazione di Ferrara.
Alla risposta dei duca che lasciava trapelare qualche indecisione intorno alle risoluzioni da adottare, motivate soprattutto dai legarni di parentela con gli Estensi e dalla reticenza nel mobilitare eventualmente le proprie forze in favore di una delle due parti in causa e dall'auspicio di una soluzione indolore del conflitto, il C. replicò che la "quiete d'Italia" era strettamente connessa alla restituzione di Ferrara, senza alcuna possibilità di una mediazione su questo punto, considerato fondamentale dal pontefice.
Dopo aver soggiornato brevemente a Ravenna e a Chioggia, il C. s'imbarcò alla volta di Venezia.
Qui l'opinione pubblica era sicuramente favorevole a Cesare d'Este, per la preoccupazione di un'estensione indiscriminata dei territori pontifici, che rischiava di aggravare le discordie sul Polesine, mentre l'acquisizione di Ferrara alla Chiesa minacciava di aprire un traffico mercantile sul Po verso la Lombardia; inoltre, il governo veneziano sino a quel momento non aveva per nulla ostacolato le operazioni di rifornimento militare alle forze estensi, mentre aveva negato il passo attraverso i territori della Repubblica alle armate pontificie "sotto pretesto di sospetto di peste" (Barb. lat. 5961 c. 22).
Il C. tuttavia venne ricevuto dal Senato con rispetto e deferenza; ed egli non indugiò nel richiedere apertamente ai Veneziani di assumere una precisa posizione e di favorire la S. Sede nell'impresa, abneno con un mutuo e tacito consenso. La Repubblica, dal canto suo, nei giorni di permanenza del nunzio non diede alcuna risposta realmente vincolante, anzi pose ripetutamente l'accento sul rischio che un atto impulsivo del papa potesse far riversare in Italia armate straniere "nemiche di questa Provincia" e "infette d'Heresia" (ibid., c. 4): in sostanza, anche a Venezia si auspicava una composizione pacifica del conflitto. Senza avere dunque ottenuto risultati, il C. si avviò alla volta della corte imperiale, giungendo a Praga il 24 dic. 1597.
Anche qui la situazione appariva quasi compromessa: su istanza dell'ambasciatore estense, marchese di Scandiano, Rodolfo II era intervenuto presso gli Spagnoli e i principi italiani perché dissuadessero il papa dai suoi propositi: tutto ciò era stato compiuto molto frettolosamente prima dell'arrivo dei C., non tenendo in minima considerazione gli appelli del nunzio residente (Ferdinando Farnese, vescovo di Parma), che aveva chiesto di attendere l'ambasciatore da Roma. Il C. ebbe netta sensazione che dietro alla mediazione imperiale, giustificata con la necessità di difendere la religione cattolica dall'assalto ottomano e con il conseguente impegno di mantenere ad ogni costo la pace, vi fosse una sotterranea opera di persuasione della diplomazia veneta, tendente a realizzare l'isolamento del papa anche da parte dei principi e dei monarchi cattolici. Inoltre, maturò la convinzione che fosse ormai irrinunciabile il porre "mano a grossa somma di denari ché con questo mezzo si otterrà ciò che si vuole" (ibid., c. 6v).
Il 30 dicembre il C. presentò all'imperatore un memoriale contenente l'illustrazione del diritto della S. Sede sul feudo di Ferrara e l'esplicita richiesta di favorire le posizioni pontificie. Le risposte imperiali furono estremamente evasive e il C. ottenne soltanto, con la minaccia di dilazionare gli aiuti promessi dal papa per la lotta al Turco, che fosse impedito il passaggio nei territori imperiali di truppe arruolate da agenti estensi.
La convenzione di Faenza tra il pontefice e Cesare d'Este (12 genn. 1598) pose fine alla travagliata missione del Conti. Il 24 dello stesso mese era già ad Augusta sulla via del ritorno.
Nel 1599 venne nominato vicelegato di Avignone in sostituzione di Ottavio Acquaviva, mantenendo tale carica sino al novembre del 1604: di questo periodo di permanenza in Francia non sì hanno notizie di rilievo, tranne che conquistò una buona fama presso la popolazione e che organizzò con gran pompa splendidi festeggiamenti a Maria de' Medici che stava recandosi a Parigi per maritarsi con Enrico IV. Nel giugno del 1604, sostenuto da ripetute e continue istanze di Ranuccio Farnese, ottenne la porpora cardinalizia con il titolo di S. Crisogono ed in seguito di S. Lorenzo in Lucina, anche se da tale elezione non ricavò le rendite sperate e riuscì a malapena a far costruire una villa in Poli che fece denominare "Ierocomion".
Il C. ebbe indubbiamente una discreta cultura e una spiccata curiosità intellettuale che lo resero sensibile alle nuove scoperte galileiane: infatti ebbe rapporti epistolari diretti con il Galilei almeno in due occasioni. Nell'aprile del 1610 il Galilei gli inviò il Sidereus nuncius e il C. lo fece pervenire all'Altobelli, il matematico e astronomo allora reggente degli studi ad Ancona. Il secondo contatto epistolare avvenne dopo il viaggio del Galilei a Roma nel 1611, ove lo scienziato aveva conseguito notevoli consensi, ma anche opposizioni pervicaci alle sue affermazioni scientifiche il C., interpellato nel luglio 1612 circa gli umori delFambiente colto della Curia, conobbe e commentò le Lettere solari in cui veniva confutata la teoria geocentrica con osservazioni compiute sulle macchie presenti sulla supefficie del Sole.
Interrogato circa la conciliabilità tra le scoperte e la Sacra Scrittura, il C. diede una risposta interlocutoria che, comunque, dimostrò il suo interesse e la sua apertura verso le novità galileliane e che non escludeva pregiudizialmente la possibilità di conciliare il cattolicesimo con la cultura scientifica emergente. Pur mantenendo un atteggiamento di sostanziale prudenza e ribadendo la necessità di compiere lunghe e accurate osservazioni prima di sbilanciarsi circa un'eventuale "corrutione" e "corrattibilità" della sfera celeste, egliiì pronunciò con una sincera curiosità intorno al problema delle macchie solari confidando su una "più longa dechiaration, delle sue osservatione et ragione" (Galilei, Opere, XI, p. 354): un mese dopo sostenne la tesi che le "macchie non siino nell'istesso corpo solare, ma in altra parte del cielo" e che Galilei "con la sua diligenza et ingegno, sii per dar luce a tutto questo" (ibid., p. 376) e riconfermò dunque la sua stima e il suo apprezzamento, impegnandosi a coinvolgere altri prelati nell'esame di ogni scritto che gli fosse inviato dallo scienziato. Altresì significativa fu la posizione del C. circa il problema di accordare l'analisi del movimento della Terra con la tradizione scolastica: in effetti, egli, se da un lato dichiarò l'incompatibilità sostanziale tra l'asserzione di un movimento circolare della Terra e la tradizione scritturale, nondimeno prese a citazione, nell'informare il suo corrispondente, un commento "copernicano" di un passo del Libro di Giobbe del frate spagnolo agostiniano Diego de Zuñiga, che alla fine del XVI secolo aveva affermato "esser più conforme alla Scrittura moversi la terra, ancor che comunemente la sua interpretatione non sia seguita" (ibid., XI, 9 p. 355). Di fatto, questa disponibilità a prendere in considerazione la teoria eliocentrica e gli stessi rapporti epistolari tra i due cessarono in concomitanza del primo serio attacco alle dottrine galileiane, scagliato a Firenze dal domenicano Nicolò Lorini.
Morì a Roma il 3 dic. 1615. Per i suoi meriti culturali, in particolare per la sua conoscenza approfondita del greco e del latino, venne ricordato in un'iscrizione del Collegio Romano.
Fonti e Bibl.: Bibl. Apost. Vat., Barb. lat. 5863, ff. 1-24; G. Galilei, Opere (ediz. naz.), X, pp. 311 s., 317; XI, pp. 354 ss., 376, 393, 438, 463; G. B. Contarini, Della veneta historia, II, Venetia 1663, pp. 36 s.; M. Dionigi, Geneal. di casa Conti, Parma 1663, pp. XII ss., 10, 14, 89, 91 s.; G. Saracini, Notitie stor. della città d'Ancona, Roma 1675, pp. 44, 377 s., 403 ss., 539; S. Fantoni Castrucci, Istoria della città d'Avignone, I, Venetia 1678, pp. 24, 456, 458 s.; G. Palazzi; Fasti cardinalium..., III, Venetia 1701, coll. 810 s.; F. A. Maronio, De Ecclesia et episcopis Anconitanis commentarim, Romae 1759, p. 53; L. Cardella, Mem. stor. de' cardinali, VI, Roma 1793, p. 97; A. Peruzzi, LaChiesa anconitana, I, Ancona 1845, pp. 120, 201 s.; H. Reynard-Lespinasse, Armorialhistorique du diocèse et de l'état d'Avignon, Paris 1875, pp. 183, 241; G. Cascioli, Mem. stor. di Poli, Roma 1896, pp. 155 s., 160 ss., 167, 169-172, 177; V. Prinzivalli, Ladevoluz. di Ferrara alla S. Sede secondo una relazione inedita di C. Capilupi, Ferrara 1898, pp. 87, 96, 98 ss., 113, 168, 201, 203, 207; L. v. Pastor, Storia dei Papi, X, Roma 1955, p. 176; XI, ibid. 1958, pp. 189 s., 602; XII, ibid. 1962, pp. 6, 215; G. De Santillana, Processo a Galileo, Verona 1960, pp. 74 ss.; M. Natalucci, Ancona attraverso i secoli, II, Città di Castello 1960, pp. 68, 159, 298; L. Geymonat, Galileo Galilei, Torino 1969, p. 96; G. Moroni, Diz. di erudizione stor.-eccl., XVII, p. 86; B. Katterbach, Referendarii utriusque Signaturae, LV, p. 161; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Monasterii 1923, p. 108; P. Gauchat, Idem, IV, ibid. 1935, p. 7.