Carlo Costamagna
Se Carlo Costamagna non può certo essere annoverato fra gli «scienziati autentici» (Grossi 1999) che fra le due guerre si impegnarono nel dibattito sul tema della crisi dello Stato liberal-parlamentare e del corrispondente diritto, nondimeno resta una figura emblematica della giuspubblicistica degli anni Trenta per le sue posizioni 'ultrafasciste', che lo accreditarono come uno degli ideologi più intransigenti della nuova dottrina dello Stato totalitario.
Nato a Quiliano (Savona) il 24 settembre 1881, dopo la laurea in giurisprudenza, Costamagna intraprese la carriera di magistrato, arrivando rapidamente fino al grado di consigliere della Corte di cassazione. Più accidentata fu invece la sua carriera accademica. Nonostante l’appoggio inziale di Giovanni Gentile, di cui in seguito divenne uno dei più acerrimi oppositori, solo nel 1927 fu chiamato all’Università di Ferrara alla prima cattedra italiana di diritto corporativo, materia che poi passò a insegnare a Pisa.
Fascista della prima ora, avendo aderito al movimento fin dal 1920, divenne membro influente del Partito nazionale fascista (PNF) e svolse incarichi politico-istituzionali di prestigio. Nel 1924 fu tra i promotori della mozione per la «conquista dello Stato» presentata al Consiglio nazionale del partito e, in quello stesso anno, fu anche nominato segretario nazionale dell’organizzazione dei consigli tecnici del PNF. Entrato a far parte della Commissione dei diciotto per la riforma costituzionale, nel 1925 ne divenne segretario.
Molto vicino al nazionalismo militante di Alfredo Rocco, con questi collaborò alla preparazione della legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro che sanzionava il monopolio della rappresentanza dei lavoratori da parte del sindacato fascista e sottoponeva le associazioni sindacali a un rigido controllo da parte dello Stato (l. 3 aprile 1926, nr. 563). Successivamente contribuì alla faticosa elaborazione della Carta del lavoro, approvata dal Gran consiglio del fascismo nell’aprile del 1927.
Per quanto riguarda l’attività accademica, dopo essersi perfezionato alla Scuola di studi storico-corporativi diretta da Giuseppe Bottai, di cui in seguito divenne collaboratore presso il ministero delle Corporazioni, nel 1933 fu chiamato stabilmente nell’ateneo romano.
Deputato dal 1929 e membro della Camera dei fasci e, dal 1939, delle corporazioni, nel febbraio del 1943 venne nominato senatore.
Scrittore fluviale, alla produzione di carattere più dottrinario affiancò sempre un’intensa attività pubblicistico-politica, tanto da poter essere considerato alla fine degli anni Trenta uno dei più importanti ideologi del regime. Al dibattito giuridico dell’epoca partecipò con numerosi saggi e con interventi e articoli sulle più importanti riviste del periodo; tuttavia il suo nome rimane legato soprattutto alla rivista da lui diretta, «Lo Stato» (1930-1943), fondata, non casualmente, nell’anno che per molti doveva segnare lo spartiacque fra la fase sindacale e quella propriamente corporativa del fascismo, con l’estensione dell’ordinamento corporativo dai rapporti di lavoro ai rapporti economici e alla disciplina della produzione.
Nonostante il carattere di palestra mantenuto nei primi anni dalla rivista – sulle cui pagine si incrociarono, ma non sedimentarono, le più diverse e contrastanti letture del corporativismo –, «Lo Stato» sarà sempre identificata dalla storiografia con la figura del suo direttore e con la campagna da lui condotta a favore di un concetto essenzialmente politico di diritto, funzionale a una concezione 'integrale', totalitaria, del nuovo ordine. Una volta divenuto, dopo alcune incertezze e ambiguità, deciso propugnatore dell’alleanza con la Germania hitleriana e successivamente dell’entrata in guerra dell’Italia, Costamagna utilizzò la rivista per appoggiare le leggi razziali. In quest’ultimo periodo la sua attività fu volta a impostare la campagna antisemita nei termini di uno 'scontro di civiltà', avallando, sotto l’influenza di Julius Evola, la tesi di un ‘razzismo spiritualista’ come peculiare del fascismo italiano (De Cristofaro 2009).
Nel dopoguerra venne escluso dall’insegnamento, ma non rinunciò all’attiva politica e promosse la fondazione del Movimento sociale italiano. Morì a Pietra Ligure (Savona) il 1º marzo 1965.
Alla base della campagna portata avanti da Costamagna – e dalla rivista da lui diretta – per una ricostruzione organica della dottrina dello Stato e del diritto, e per l’adeguamento degli schemi scientifici al sistema positivo vigente, vi era la convinzione che, a partire dalla legge sulle prerogative del capo del governo (l. 24 dicembre 1925, nr. 2263), si fosse avviato un processo di trasformazione della struttura istituzionale tale da esigere il riconoscimento dell’esistenza di una nuova Costituzione, nonostante la non abrogazione formale dello Statuto del Regno. Da qui le molte e ripetitive pagine dedicate alla polemica contro il perdurante tradizionalismo di un rilevante e autorevole settore del pensiero giuridico italiano, accusato di perpetuare l’immagine di un fascismo 'multianime' e, nel complesso, restio a operare una radicale rottura con le dottrine del passato e con i vecchi impianti categoriali.
Destinata a risolversi in un’operazione tutta ideologica - anche per la ben nota disorganicità della legislazione del Ventennio e per la provata incapacità del fascismo di dare piena attuazione alla propria vocazione totalitaria - la campagna di Costamagna si caratterizza per l’adozione di una strategia retorica che tenta di fornire una doppia legittimazione, storico-politica e dottrinaria, alla concezione monistica e monocratica dello Stato fascista.
Per quanto riguarda la legittimazione storico-politica, anche Costamagna si preoccupò di presentare la costruzione del nuovo Stato italiano – fascista e totalitario – come necessaria risposta alle sfide di ordine politico ed economico, oltre che spirituale, specifiche del 20° sec., mettendo in risalto lo stretto legame esistente tra le trasformazioni del capitalismo e la crisi dello Stato liberal-parlamentare. Ma ciò che differenzia e contraddistingue la sua posizione nel dibattito è l’assenza di qualsiasi propensione a considerare le formazioni sociali intermedie, sia pure disciplinate e sottoposte a un rigido controllo statale, come possibili portatrici di una forma qualitativamente superiore di organizzazione sociale, da valorizzare nella progettazione del nuovo ordine.
Gli scritti di Costamagna sul tema si sforzano sempre di rappresentare il fenomeno dell’associazionismo, aggregante gli individui secondo il criterio dell’interesse economico e professionale, come un fenomeno dotato di una logica perversa, causa prima del processo di disgregazione pluralistica della sovranità statuale, che inevitabilmente conduce a esiti disastrosi per la tenuta del legame politico e sociale. La crisi dello Stato è tematizzata, in quest’ottica, come una crisi che si manifesta lungo l’arco di un processo a due stadi, analiticamente differenziabili ma storicamente spesso sovrapposti, rispettivamente corrispondenti alla fase concorrenziale e a quella monopolistica del capitalismo: lo stadio rappresentato dal sistema liberale classico, in cui viene demandata agli automatismi del mercato la formazione dell’equilibrio economico-sociale; e quello successivo e conseguente, generalmente definito come 'sistema sociale', in cui viene meno la separazione formale fra sfera economico-sociale e sfera politico-statuale. Ciò sarebbe dovuto all’assunzione da parte dei pubblici poteri di sempre nuovi compiti in campo economico e assistenziale e, di contro, per l’incontenibile tendenza delle forze economiche, organizzate sotto forma di sindacati, trust industriali, consorzi ecc., a svolgere un ruolo sempre più direttamente politico (Considerazioni sulla qualifica dello Stato fascista, «Lo Stato», 1931, pp. 241-57).
L’intento principale di questa lettura è quello di argomentare: che con la riclassificazione del rapporto fra le due sfere si era compiuta la completa subordinazione del politico all’economico; che questo processo era già iscritto nel principio del primato della società civile di cui si erano fatte portatrici le filosofie madrine del «preteso ‘Stato moderno’» (sempre nell’accezione di «Stato polarizzato sulla difesa del diritto soggettivo»); che gli esiti ultimi del dispiegamento del principio in questione si erano rivelati tali da pregiudicare la stessa sopravvivenza di quella forma statuale e, quindi, da legittimare la ricerca di nuovi e opposti principi su cui rifondare la coesione sociale e l’unità politica.
Ed è sempre sulle aporie del sistema sociale che Costamagna ritiene di poter fondare la stessa ragion d’essere dell’ordinamento sindacale e corporativo fascista, il quale viene presentato come una forma «realistica» e del tutto originale di risposta alle sfide poste dallo sviluppo della «civiltà industriale». Dove «realistica» significa, anche, all’altezza degli imperativi propri di una terza fase della concorrenza, di un terzo stadio caratterizzato dall’emergere – in concomitanza con il generale riconoscimento della saturazione dei mercati e con la conseguente definitiva liquidazione della vecchia utopia liberista degli sbocchi illimitati – di un’assoluta dominanza del fenomeno della lotta economica fra Stati-nazioni. Questo fenomeno renderebbe ineludibile l’esigenza di una drastica inversione del processo di sottomissione del «politico» all’«economico» e di una contestuale ridefinizione del rapporto tra l'individuo, la società (i gruppi) e lo Stato (L’universalismo economico e la crisi, «Lo Stato», 1933, pp. 81-93).
Del tutto conseguente è l’immagine apologetica del regime fascista proposta: esso viene legittimato, ed esaltato, come tempestivo interprete dell’essenza della nuova fase; ossia per aver voluto, e saputo, procedere all’inversione postulata mediante l’assunzione di un principio di organizzazione civile eminentemente anti-individualistico (leggi 'opposto a quello dei diritti dell’uomo'), idoneo a garantire le condizioni indispensabili per promuovere lo sviluppo della potenza economica della nazione e il suo espansionismo (tema, quest’ultimo, che acquisterà sempre più spazio negli scritti di Costamagna posteriori all’alleanza con la Germania nazista). È scontato che il ruolo di nuovo principio anti-individualistico venga poi assegnato al tanto propagandato 'principio corporativo' – principio la cui voluta ambiguità semantica aveva stimolato i più arditi esercizi retorici, ma anche lo scontro fra prospettive ideologico-politiche divergenti (Santomassimo 2006) – il quale viene inteso come un principio diretto, primariamente, a ricostruire la frantumata unità politica ed economica sulla riaffermazione del valore assoluto della sovranità statuale.
Se la giustificazione storico-politica del nuovo ordine è ricercata nella presunta inadeguatezza del cosiddetto sistema sociale a far fronte agli imperativi specifici della nuova fase del capitalismo, la legittimazione dottrinaria è invece individuata nel testo canonico del corporativismo fascista: in quella Carta del lavoro che la propaganda vantava come una coerente enunciazione del programma economico-sociale della 'rivoluzione' e dei suoi principi informatori. Ignorando volutamente le dichiarazioni della Carta che ne rappresentavano la parte più avanzata – quelle concernenti i diritti dei lavoratori e le provvidenze sociali – Costamagna si trova obbligato a dare una lettura del testo che ne sacrifica la lettera a favore del 'vero spirito'. Ne risulta una lettura antitetica non solo a quella dei corporativisti puri, preoccupati di trovarvi materia per rivendicare una qualche autonomia economica e politica per le istituende corporazioni, ma, altresì, a quella avanzata dagli esponenti del neocorporativismo cattolico, i quali tenevano soprattutto a far risaltare la presenza nel programma di elementi di giustizia e di solidarismo sociale.
Quest'operazione viene portata avanti con due mosse strategiche. In primo luogo, in polemica con quei giuristi che avanzavano fondati dubbi sul valore giuridico del documento (di fatto solo con la l. 30 gennaio 1941, nr. 14, si riconobbe alle dichiarazioni della Carta il valore di principi generali dell’ordinamento), se ne dà per acquisita l’appartenenza all’ordinamento giuridico vigente, con valenza di vero e proprio atto costituzionale. In secondo luogo, ai fini della retta comprensione dello spirito del sistema, si attribuisce significatività unicamente alle due dichiarazioni iniziali che vengono elevate al rango di fonti del nuovo principio costituzionale anti-individualistico. A queste si rimanda per l’«interpretazione autentica» dei concetti presiedenti «non solo alla cosiddetta legislazione corporativa, ma a tutta la legislazione costituzionale dello Stato», mentre si presentano le successive enunciazioni come una mera specificazione-applicazione del principio in questione in un ambito particolare: quello della disciplina dei rapporti di lavoro e delle relazioni economiche (La validità della Carta del Lavoro, «Lo Stato», 1931, p. 791).
Stando a questa lettura, rigidamente organicistica e gerarchica, dalla prima dichiarazione si evince che la natura del nuovo principio corporativo è quella di una supernorma intesa a imporre la «solidarietà nazionale» nella forma di un’assoluta subordinazione degli interessi degli individui – sia come singoli, sia come elementi di un gruppo sociale – a quelli dello Stato, concepito come entità in cui si realizza (in senso deontico) l’unità, oltre che politica, anche morale ed economica della nazione. L’interesse superiore dello Stato viene quindi a costituire il criterio della «nuova legalità» fascista, da cui è definitivamente espunto l’obiettivo della «garanzia delle autonomie individuali» (La validità, cit., p. 791).
La seconda dichiarazione («il lavoro sotto tutte le sue forme […] è un dovere sociale. A questo titolo e solo a questo titolo è tutelato dallo Stato») è, di conseguenza, considerata alla stregua di un semplice corollario della precedente, mirante a chiarire, sulla base del nuovo principio di legalità quale «regola di subordinazione», la natura della nuova relazione Stato-individuo, che trasforma il cittadino in servitore delle autonome finalità dell’ente politico. La tesi avanzata è che «il titolo per cui il cittadino si lega allo Stato e partecipa allo Stato non può più essere» – dopo l’approvazione della Carta – «quello dell’esercizio di un diritto negativo di libertà. Bensì deve essere il titolo di una funzione positiva di collaborazione. E pertanto l’adempimento di un dovere» (L’insediamento delle corporazioni, «Lo Stato», 1934, p. 759). La formula dell’identità fra Stato e nazione-popolo si converte in quella dell’identità di Stato e società, dando luogo a un’equazione che sembra a Costamagna ben compendiare il disegno totalitario, o 'integrale', del fascismo (Storia e dottrina del fascismo, 1938).
Per quanto riguarda invece la pratica attuazione del disegno di statalizzazione-fascistizzazione della società, essa è affidata alla creazione e al consolidamento di «un sistema di istituzioni pubbliche qualificate dallo scopo di effettuare l’integrazione del popolo nello Stato», imperniato su due elementi chiave: il partito unico e il sindacato legalmente riconosciuto, rispettivamente responsabili del perseguimento dell’unità ideologico-morale e dell’unità economica della nazione (Ancora sull’argomento: organi, istituzioni e persone giuridiche di diritto pubblico, «Lo Stato», 1931, pp. 567-79).
In costante polemica con Sergio Panunzio, che auspicava una rifondazione dello Stato italiano su basi sindacal-corporative, Costamagna, fin dagli Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista (1929), si era impegnato a delineare la sua dottrina dell’«istituzione sociale» quale strumento politico-giuridico cui affidare la realizzazione del progetto di sussunzione della società nell’ordinamento statuale. Tale nozione avrebbe dovuto rispecchiare i nuovi modi di partecipazione del cittadino allo Stato, non più fondati sull’esercizio di un diritto soggettivo individuale (e tantomeno sociale), bensì su quello di un «dovere-funzione» spontaneamente assunto. A fondamento dell’istituzione sociale, concepita come un congegno integrante del governo senza alcuna volontà propria, si poneva l’«elemento dell’iniziativa volontaria individuale» nella forma di un’«assunzione spontanea di pubblico servizio», di cui erano esempi emblematici le figure dell’iscritto al PNF e del socio dell’associazione sindacale legalmente riconosciuta.
Siamo qui di fronte a un’interpretazione dell’ordinamento sindacale-corporativo che, nel concreto, darà luogo al tentativo, giudicato troppo estremistico persino dalla dottrina più organica al regime, di ridurre le associazioni sindacali, anche sotto il profilo formale del loro status giuridico, a meri strumenti della volontà politica centrale, a organi dello Stato, privi di un qualsivoglia ruolo negoziale autonomo.
Per concludere, l’aspetto più interessante delle posizioni espresse da Costamagna in quegli anni può essere individuato nell’intuizione del nesso intercorrente fra organizzazione dello Stato totalitario e ideazione di inedite forme di controllo-neutralizzazione e, insieme, di coinvolgimento-partecipazione delle masse, dirette a indebolire, se non a spezzare, le vecchie lealtà di classe e/o di gruppo. Il punto di vista prospettico della modellizzazione del nuovo Stato è determinato proprio dalla questione della «nazionalizzazione delle masse» (Mosse 1974). Essa diviene nucleo generatore di un disegno che individua e articola due livelli d’intervento complementari, rispetto ai quali il corporativismo viene ad assumere la duplice valenza di «mito nazionale» e di principio di organizzazione della società, in sintonia con l’esigenza del regime di coniugare la mobilitazione politica con la stabilizzazione sociale: il livello dell’integrazione ideologica – sfera d’azione propria del PNF e della sua organizzazione – ovvero delle pratiche finalizzate a promuovere la formazione di una coscienza nazionale unitaria, facendo leva anche sulla diffusione di miti e simboli idonei a sollecitare l’identificazione del «popolo» con il fascismo e con la sua «missione» storica; e il livello dell’integrazione delle masse nello Stato sulla base delle funzioni svolte, da realizzarsi invece per mezzo dell’ordinamento sindacale e corporativo, secondo un progetto di tendenziale riduzione dello status di cittadino a quello di pubblico funzionario.
Da aggiungere, infine, che il crescente e sempre più ossessivo timore di possibili sopravvalutazioni del ruolo politico dell’elemento economico-professionale, giudicato per natura particolaristico e centrifugo, condurrà Costamagna a un parziale riaggiustamento della sua dottrina delle istituzioni sociali. Ciò avviene mediante una progressiva accentuazione dell’importanza del PNF che finisce per essere investito del ruolo di principale e ubiquo protagonista del disegno di ricomposizione dello iato fra Stato e società. Se infatti il sindacato fascista non poteva non rimanere, anche per Costamagna, uno dei pilastri del nuovo ordine, al partito unico, i cui rappresentanti erano presenti anche negli organismi corporativi, sarebbe spettato comunque di garantirne la non degenerazione in strumento di difesa di interessi settoriali, tenendone alto lo «spirito corporativo» unitario (Equivoci corporativi, «Lo Stato», 1933, pp. 9-11).
Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, Firenze 1929.
Elementi di diritto pubblico fascista, Torino 1934.
Il nuovo Stato fascista, in I dieci anni della Carta del Lavoro, a cura della Confederazione fascista dei lavoratori dell'industria, Roma 1937.
Storia e dottrina del fascismo, Torino 1938, 19402 (con il tit. Dottrina del fascismo); rist. dell'ed. 1940, in 3 voll., Brindisi 1983-1991.
Alcuni scritti brevi sono stati raccolti in Dalla caduta dell''ideale moderno' alla 'nuova scienza' dello Stato, a cura di G. Malgeri, Vibo Valentia 1981, e in L'idea di Stato (con G.C.A. Evola), Padova 1977.
G. Mosse, The nationalization of the masses: political symbolism and mass movements in Germany from the Napoleonic wars through the Third Reich, New York 1974 (tra it. Bologna 1975).
M. Cupellaro, Costamagna Carlo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 30° vol., Roma 1984, ad vocem.
M. Toraldo di Francia, Per un corporativismo senza 'corporazioni': «Lo Stato» di Carlo Costamagna, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1989, pp. 267-327.
F. Lanchester, 'Dottrina' e politica nell’università italiana: Carlo Costamagna e il primo concorso di diritto corporativo, «Lavoro e diritto», 1994, pp. 49-76.
P. Costa, Lo 'Stato totalitario': un campo semantico nella giuspubblicistica del fascismo, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1999, t. 1, pp. 61-174.
P. Grossi, Pagina introduttiva, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1999, t. 1, pp. 1-5.
A. Pedio, La cultura del totalitarismo imperfetto: il 'Dizionario di politica' del Partito nazionale fascista (1940), Milano 2000.
M. Benvenuti, Il pensiero giuridico di Carlo Costamagna nel dibattito su metodo, diritto e Stato durante il regime fascista, «Nomos», 2005, 1-2, pp. 17-102.
G. Santomassimo, La terza via fascista: il mito del corporativismo, Roma 2006.
E. De Cristofaro, Codice delle persecuzioni: i giuristi e il razzismo nei regimi nazista e fascista, Torino 2009.
A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti: gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009.