CRIVELLI, Carlo
Figlio di Iacopo e fratello di Vittore, pittore anche lui (Zampetti, C. C., 1961, pp. 106, 227), nacque a Venezia intorno al 1435, come si può desumere dai dati biografici. Non sono molte le notizie legate alla sua giovinezza e la stessa sua appartenenza al mondo padovano non è certezza documentata, bensì deduzione dall'esame stilistico delle sue opere.
Il primo documento che lo riguarda risale al 7 marzo 1457 (Ludwig, 1905, p. 4): il C., che vi è definito "pictor", subisce un processo e viene condannato a sei mesi di carcere e 200 lire di multa per adulterio e concubinaggio. La qualifica di pittore e la natura stessa dell'episodio danno certezza che, allora, il C. dovesse aver già superato i vent'anni e permettono di collocare la sua nascita, come s'è detto, dopo il 1430. La sua presenza a Venezia si chiude con questo episodio giovanile, appena illuminata, da tarde citazioni di alcune sue opere ivi esistenti, ricordate dal Ridolfi (1648) e dal Boschini (1664). peraltro perdute. Per avere altre dirette notizie occorre attendere otto anni quando, il 10 sett. 1465, a Zara, in Dalmazia, il C. compare come testimone di un contratto di nozze (Zampetti, 1960, pp. 227 s.). Vi figura come "habitator" della città, e anche come "civis". Poiché la cittadinanza si otteneva dopo un certo periodo, è legittimo pensare che a quella data il C. risiedesse a Zara già da lungo tempo. Egli viene citato con la qualifica di pittore veneziano. La notevole vicinanza stilistica tra le sue opere giovanili e quelle dei dalmata Giorgio Culinovic´(lo Schiavone) suggerisce l'ipotesi che i due si conoscessero bene e che la presenza a Zara del C. sia da legare ai loro rapporti. Lo Schiavone era stato nel '56 a Venezia ed era tra gli allievi a Padova dello Squarcione. Ma nel 1461 era di nuovo a Zara, ed è quindi impensabile che non si conoscessero.
La data successiva che interessa il C. risale al 1468, quando firma ("Karolus Crivellus Venetus pinxit hoc opus MCCCCLXVIII") il polittico di Massa Fermana (chiesa di S. Silvestro). Aveva, quindi, allora già lasciato Zara, dando inizio ad una nuova intensa attività, esclusivamente svolta al di qua dell'Adriatico.
Secondo quanto afferma il Ricci (1834), che raccoglie notizie dalla tradizione locale, quest'opera fondamentale dell'iter dell'artista venne eseguita su ordinazione di un conte Azzolini di Fermo. Ciò dovrebbe confermare l'ipotesi che, lasciata la Dalmazia e stabilitosi nelle Marche, il C. avesse posto la sua prima residenza in quella città che conosceva bene gli artisti veneziani, da Iacobello di Bonomo a Iacobello del Fiore, e che, del resto, era molto legata a Venezia, che vi inviava i suoi cittadini, spesso dai nomi prestigiosi, quali amministratori. Se abitò a Fermo, tuttavia la permanenza del C. dovette essere di breve durata, perché ben presto egli compare ad Ascoli, dove prese stabile dimora, probabilmente già dal 1469, quando vi nominò un procuratore (Fabiani, 1951, p. 158). Da allora l'attività del C. può essere seguita con sufficiente sicurezza, per le date offerte dalle sue opere e dai documenti. Nel 1470 dipinse il polittico (smembrato e ricostruito di recente) di Porto San Giorgio, nonché una Madonna con Bambino, oggi nella Civica Pinacoteca di Macerata - di cui si dirà più avanti - firmata con l'indicazione "Fermis": dipinta dunque a Fermo. Segue il famoso polittico del duomo di Ascoli, firmato nel 1473, momento centrale di un'intensa attività, tutta legata ad Ascoli e al suo territorio. Nel 1478 il suo nome compare in due documenti, sempre in quella città: il primo (dove è citato come abitante ad Ascoli) si riferisce a un pagamento per un dipinto eseguito per Montegiberto (Grigioni, 1908), l'altro, in data 17 giugno, è un contratto per l'acquisto di una casa nel sestiere di S. Biagio, nei pressi del duomo (Fabiani, 1951, p. 258).
Opere datate e documenti confermano la continuità della sua presenza nella città, dove risiedeva anche la sua famiglia. Quando nel 1487, infatti, gli morì l'unico figlio maschio, i funerali si svolsero nel duomo (ibid., pp. 258 s.). L'anno successivo, sempre ad Ascoli, fece testamento, di cui rimane notizia indiretta (ibid., p. 259). Ma proprio con questa data hanno inizio nuove peregrinazioni, anche se sempre nei confini del territorio marchigiano. In quell'anno il C. si impegnò (Aleandri, 1905), infatti, a dipingere una tavola con la Consegna delle chiavi (Madonna col Bambino che consegna le chiavi a s. Pietro e altri sei santi) per la chiesa di S. Pietro degli osservanti di Camerino, oggi negli Staatliche Museen di Berlino-Dahlem. Da questo momento si spostò verso Nord operando a Camerino, Matelica, Fabriano, Pergola. Nel 1490, tuttavia, ricevette a Francavilla, quindi in territorio del Regno di Napoli, il titolo di cavaliere (Andreantonelli, 1676) per iniziativa di Ferdinando principe di Capua, il futuro re Ferdinando II (l'artista firmando le sue opere si sottoscriverà "eques" o "miles" "laureatus"). Il C. continuò quindi a lavorare per Camerino, città per la quale eseguì anche due polittici, entrambi infine trasferiti a Brera e in parte smembrati (del gruppo fa parte la famosa Madonna della Candeletta). È probabile, anche se difflcilmente documentabile, che in questo periodo, o forse anche prima, il C. abbia lavorato ad affresco nel cortile del palazzo ducale di Camerino. Infatti le scarse sinopie a graffito ivi rimaste a documentare una vasta decorazione quasi del tutto scomparsa rivelano con una certa sicurezza la presenza della sua mano. A quel periodo inoltre risalgono la Pala Odoni di Matelica (oggi Londra, National Gallery) e l'Incoronazione diFabriano (oggi a Brera) firmata nel 1493. l'ultima opera datata e documentata da un contratto. L'anno precedente aveva dipinto l'Immacolata per la chiesa di S. Francesco a Pergola (oggi Londra, Nat. Gall.). Ma non è questa la punta più a Nord dell'attività del C.: per il convento di S. Francesco a Carpegna aveva dipinto una Maddalena da identificarsi con quella che si trova nel Rijksmuseuin di Amsterdam. Lo spostamento nel Nord della regione forse si deve alla necessità di trovare altre possibilità di lavoro. Ad un periodo avanzato - anche se non datato - risalgono pure le sue opere anconetane: la piccola Madonna col Bambino, oggi nella Pinacoteca di quella città, e il Beato Gabriele Ferretti, ora nella National Gallery di Londra.
Nonostante il suo allontanamento da Ascoli e la sua attività così frazionata, il C. non dovette lasciare la sua residenza abituale, dove continuava a vivere la moglie. Mancano notizie esatte sulla data e il luogo della morte, che dovrebbe essere sopraggiunta dopo il 7 ag. 1494, quando rilascia quietanza per l'Incoronazione di Fabriano (cfr. R. Sassi, Arte e storta tra le rovine di un antico tempio francescano, estr. da Rassegna marchigiana, 1927-28), ma prima del 3 sett. 1495 quando il fratello Vittore chiese di essere considerato suo erede (Di Provvido, 1972, p. 25). Nel 1524 risulta che la vedova - evidentemente più giovane di lui - abitava da 24 anni in casa della figlia Diana.
Oltre a Diana e al figlio maschio morto, forse molto giovane, come s'è visto, nel 1487, l'artista ebbe anche una figlia adottiva di nome Biasiola, che aveva ricordato nel suo testamento, ma già morta nel giugno 1511, quando il figlio di lei cedette alla vedova del pittore una parte della eredità per soddisfare un debito con lei contratto (Fabiani, 1951, p. 259). Nel documento stesso la vedova viene ricordata come originaria di Atri in Abruzzo (tutti i docc. in Zampetti, C. C., 1961, pp. 109 s.).
È stata avanzata (Bovero, 1961) l'ipotesi di qualche viaggio a Siena e a Ferrara: nella prima città quale diversivo nei suoi spostamenti tra una località e l'altra delle Marche; a Ferrara, durante il suo trasferimento da Venezia. Le proposte di tali soggiorni sono legate all'esigenza di trovare apporti culturali all'attività dell'artista. Ma nulla documenta questi viaggi né li lascia supporre.
Gli storici del tempo sono ben avari di notizie sul C., anzi tacciono del tutto: silenzio da parte del Vasari, come pure degli scrittori veneziani. Il primo a ricordarlo è il Ridolfi (1648), che cita alcune sue opere nella chiesa veneziana, distrutta e successivamente ricostruita, di S. Sebastiano, ed andate disperse. Esse vennero poi citate dal Boschini (1664), e dallo Zanetti (1771). Il silenzio degli storiografi veneziani fa pensare che l'artista non avesse raggiunto nella sua città particolare notorietà prima di essersene dovuto allontanare per le vicende già ricordate. Il silenzio perdura a lungo e fa del C. un vero caso, in quanto la ricostruzione della sua attività e anche, le vicende critiche che lo riguardano sono il frutto di ricerche in gran parte recenti o recentissime, legate alle preferenze culturali e al gusto di precisi momenti storici. In realtà l'artista è rimasto fuori d'ogni sicura critica fino all'Ottocento avanzato. Il suo recupero e dovuto in parte proprio alla dispersione delle sue opere nel corso del sec. XIX, passate nei musei di tutto il mondo. Prima Napoleone, poi il card. Fesch, quindi gli antiquari di Europa e di America compirono un vero massacro dei suoi polittici, i cui pannelli finirono nelle più diverse località, rendendo in seguito estremamente difficile la loro ricomposizione.
L'interesse per il C. è di origine nordica, inglese, ed è legato al gusto romantico dei ritorno al "primitivi". L'amore per il pittore - quasi una scoperta - fu enorme e la critica cominciò ad interessarsi di lui, dal Cavalcaselle in poi: si iniziava così un cammino difficile, quello del recupero d'una personalità dispersa e frammentaria. Mentre i musei europei si riempivano di opere del 9 dalla National Gallery di Londra al Kaiser Friedrich Museum di Berlino. Sicché, proprio mentre l'attenzione della critica si fermava sull'artista, l'allontanamento delle sue opere dai luoghi di origine e lo stesso disperdersi dei singoli pannelli dei vari polittici rendevano il lavoro del recupero critico ancora più arduo.
Nel 1900 usciva la prima monografia sul C., quella del Rushfort, il quale poneva la questione della sua formazione alla scuola dello Squarcione. Era la strada giusta e da allora tutti gli studi successivi presero l'avvio da quella indicazione fondamentale.
Infatti la sua prima attività è documentata da due opere devozionali firmate, entrambe strettamente legate al mondo padovano attorno al 1450 e, dunque, anteriori alle opere marchigiane: la Madonna col Bambino del Museo di San Diego in California e la Madonna con i simboli della Passione del Museo di Verona, così firmate: "Opus Karoli Crivelli Veneti". Ad esse, inoltre, occorre aggiungere una terza tavoletta con soggetto analogo, non firmata, presente nella collezione Cini di Venezia. Il Longhi (1946) l'ha proposta come la più antica delle opere finora reperibili dell'artista, ravvisandovi la presenza di quel gusto protorinascimentale ("rinascimento umbratile"), che faceva capo a Iacopo Bellini, ad Antonio Vivarini e, forse, allo stesso Giovanni Bellini della primissima maniera (si allude alle famose ma discusse tavolette del Museo di Matelica).
Non essendo il dipinto firmato, il problema rimane aperto. Certe, invece, le altre due e di importanza decisiva per comprendere l'ambiente culturale nel quale il giovane artista si formò. La più giovanile è forse quella di San Diego che suggerisce chiaramente la cultura di Padova, con quelle forme quasi desunte dalla scultura, anzi sbalzate come in un bassorilievo. Tutto ciò presuppone una esperienza diretta, non già un'educazione avvenuta nelle botteghe veneziane o muranesi. E certe assonanze con Bartolorneo Vivarini debbono considerarsi elementi stilistici comuni, nati da esperienze che erano state vissute assieme, nel mondo padovano dello Squarcione.
L'indicazione cu Iturale è di derivazione fiorentina: sembra che l'artista abbia guardato direttamente a Donatello e a Filippo Lippi. Legata allo squarcionismo degli anni '50 (e quindi allo stesso Schiavone) appare anche la Madonna del Museo di Castelvecchio di Verona, tanto più complessa dell'altra, anche per le annotazioni paesistiche e ambientali e i rimandi prospettici, evidentemente desunti dagli affreschi del Mantegna agli Eremitani.
Quest'opera si trovava a Venezia, dove la vide il Ricci (1834, p. 225 n. 4), il quale afferma che proveniva dal convento di S. Lorenzo. Siamo dunque di fronte ad una testimonianza dell'attività giovanile forse anteriore alla condanna di cui s'è detto e all'aliontanamento del C. da Venezia e dal territorio. Questa tavola è davvero il frutto di una complessa educazione padovana, in presa diretta, e già un poco "contestatrice", nel senso che il classicismo vi è sentito in chiave più squarcionesca che mantegnesca; ed è evidente che la strada percorribile dal suo autore non è già quella che inseguirà un Giambellino, ma sarà parallela a quella di un Marco Zoppo, di un Cosmè Tura e dello stesso Schiavone. E soprattutto è la strada del C.: qui appaiono in fieri gli elementi che l'artista, rielaborerà poi con tanta maturazione di pensiero: anche nel paesaggio, che sullo sfondo a destra ci mostra una Crocifissione quanto mai elaborata e precisa dove non manca, simbolo di morte, l'albero spoglio e secco, e dove sta in agguato un rapace.
Forse non si è insistito abbastanza su questa influenza culturale padovana, che coinvolge anche altri artisti, ad esempio Nicola d'Ancona, il quale non è discepolo marchigiano del C., bensi suo compagno a Padova, come altri marchigiani, quali Giovanni Boccati e Girolamo di Giovanni. Proprio a questo mondo si rifà un altro "crivellesco", Pietro Alemanno, attivo nelle Marche, ma la cui educazione dovette avvenire a Padova, alla scuola, appunto, dello Squarcione. E ciò non soltanto per certe assonanze, altrimenti incomprensibili, con altri pittori minori padovani (si pensi ad Andrea Bellunello), ma addirittura per i rapporti con lo stesso polittico Lazzara dello Squarcione. C'è completo accordo formale, persino nei valori decorativi delle parti lignee tra le opere padovane e quelle marchigiane, sia del C. sia di Pietro Alemanno sia, infine, dei Vivarini, compreso il polittico di Montefiorentino di Alvise (Urbino, Galleria nazionale). È possibile provare che certi incontri nella bottega dello Squarcione sono all'origine di tutta una svolta dell'arte italiana, di un filone che interessa l'arte lungo le coste delle due sponde adriatiche, da Ferrara a Zara ad Ancona. Da quale sostanza morale, da quale profondo sentimento o risentimento fossero poi mossi quei pittori, che danno subito una interpretazione allucinata e violenta, quasi paradossale, dell'umanesimo mantegnesco appena sul suo fiorire, è problema ancora non risolto. Certo è che essi si muovono su una strada diversa da quella del Mantegna alla corte di Mantova. Dopo le esperienze degli Eremitani, essi non accettano quel mondo definito e sicuro, non credono più nelle verità solari ed assiomatiche del classicismo mantegnesco, e ad esso contrappongono, quasi parodiandolo, in chiave ossessiva e dolente, un mondo teso e talora disumano.
Se l'accertata e documentata presenza a Zara riempie una lacuna nella vita dell'artista, essa tuttavia non concede nulla alla sua attività del periodo dalmata, che rimane purtroppo vuoto. Il polittico di Massa Fermana (chiesa di S. Silvestro), del 1468 è dunque la prima opera marchigiana e, insieme, la prima datata. Esso comprende la Madonna col Bambino tra i ss. Giovanni Battista, Lorenzo, Silvestro e Francesco; nella predella poi appaiono quattro storie della Passione: Cristo nell'orto, la Crocifissione, la Flagellazione e la Resurrezione; in alto, Cristo morto tra due tavolette con l'Angelo annunziante e la Vergine.
Il polittico ha subito notevoli traversie ed è incompleto (manca tra l'altro la struttura lignea originale); le componenti padovane persistono e rivelano quanto, ad esempio, il Lippi abbia suggestionato l'artista nel quale però già si palesa uno stile autonomo e personale. Tanto ammirata dal Longhi (1946), quest'opera costituisce un momento di riflessione, quasi un consuntivo delle esperienze giovanili, rivissute con grande autorità creativa: ma rivela anche che il C. sta tentando una sua strada "diversa". Egli si distacca non solo da Giovanni Bellini, ma si isola ormai da qualsiasi altra corrente veneta, compresa quella dei Vivarini: e ciò non per mancanza di stimoli creativi, ma perché avviato, ormai, ad una propria visione formale, che fa di lui un unicum nel complesso mondo del Rinascimento italiano. Il C., insomma, fa ormai parte per se stesso; ma non è giusto affermare che tutto ciò sia frutto dell'isolamento marchigiano, perché la regione era, allora, tutt'altro che culturalmente arretrata: basti pensare alle corti di Camerino e di Urbino dove operavano fecondamente grandi artisti; e Loreto, con il suo santuario, era meta non solo di pellegrini, ma anche di artisti famosi, colà attivi proprio in quella seconda metà del secolo: come Melozzo e Signorelli (e, a dar retta al Vasari, Domenico Veneziano e Piero della Francesca). Del resto il C. non poteva ignorare i pittori locali: due camerinesi, Giovanni Boccati e Girolamo di Giovanni, avevano fatto le loro esperienze a Padova negli stessi anni in cui vi si trovava il C., ma portandovi la loro cultura rinascimentale.
Con il polittico di Massa Fermana ha inizio un'intensa operosità dell'artista, che può essere seguita con una certa continuità, e tutta svolta nelle Marche. Purtroppo, come s'è detto, le opere del C. furono quelle più colpite dall'assalto ai "primitivi" operato dal collezionismo ottocentesco, abbastanza indifferente a certi valori culturali.
Infatti gran parte dei suoi polittici, asportati, vennero smembrati e i singoli pannelli, così recuperati, furono dispersi e, talora, poi riuniti arbitrariamente (vedi gruppo Demidoff), perdendo così la loro unità concettuale e formale, in cui ha importanza anche la parte lignea, e, di conseguenza, molto del loro valore.
Il polittico di Porto San Giorgio ne è testimonianza puntuale, ed è anche prova di come la critica possa giungere, attraverso un esame filologico e strutturale, alla identificazione e ricostruzione, sia pure ideale, di un'opera dispersa (per la storia del polittico, v. Zampetti, C. C., 1961): Madonna col Bambino (Washington, National Gallery); SS. Pietro e Paolo (Londra, National Gallery); S. Giorgio che uccide il drago (Boston, Isabella Gardner Museum); SS. Caterina d'Alessandria e Girolamo (Tulsa, Philbrook Art Center, Kress Collection); SS. Antonio abate e Lucia (Cracovia, Museo nazionale); Pietà (Detroit, Institute of Fine Arts). Perduta è invece la predella che esisteva ancora al primi dell'Ottocento (Ricci, 1934, pp. 209, 227 n. 12).
Sulla base della descrizione dei Ricci, numerosi studiosi riuscirono a ricomporre il polittico, fatto risalire dal Longhi (1946) a "circa il 1470"; in seguito (Zampetti, C. C., 1961, p. 28) fu trovato nell'Archivio arcivescovile di Fermo un documento del 1727, che, descrivendo il dipinto, ne indicava anche la firma e la data: "Carolvs Crivellvs Venetvs pinxit 1470".
Il polittico di Porto San Giorgio, pur presentando qualche rimembranza dei precedenti squarcioneschi, offre alcune componenti nuove, specie nella squillante stesura cromatica che rivela una evoluzione in atto verso una più aperta sensibilità ai problemi della luce, o a quelli dei valori spaziali e a un più rigoroso impegno formale. L'impeto creativo dell'artista raggiunge un momento molto alto e si direbbe insuperabile nella scena del S. Giorgio, dove lo scattante linearismo e l'impeto drammatico rivelano una personalità unica, legata ad un'astrazione formale portata all'estremo, raffinata e violenta assieme. È questo, indubbiamente, uno dei capolavori della pittura italiana del Quattrocento, legato al mondo veneto-padovano, ma frutto di una concezione figurativa, di quel mondo astratto e metafisico, isolato nella pittura italiana, che è proprio e solo del Crivelli.
Nel polittico di Porto San Giorgio l'evoluzione stilistica del C. è in pieno fermento, e rappresenta il necessario passaggio verso le nuove esperienze che saprà raggiungere specie con i polittici di Ascoli Piceno e Montefiore dell'Aso. Al 1470 risale anche il prezioso frammento costituito dalla Madonna col Bambino della Pinacoteca di Macerata: un'opera giunta in condizioni precarie, legata ad una rinnovata concezione anche sostanziale: la Vergine rivolge gli occhi verso l'esterno, alla ricerca di un dialogo; ed è aperta ad un sentimento di umanità, che solo raramente affiora nei dipinti del Crivelli. Nella raccolta Linsky di New York si trova una Madonna col Bambino (Madonna Erikson)su tavola, opera firmata e datata nel 1472.
Se ne ignora la provenienza, ma potrebbe venire da Amandola, dove nel 1834 il Ricci vide un dipinto, poi scomparso: dopo varie peregrinazioni è giunta nel 1961 nella sede attuale (Bovero, 1975, p. 88 n. 48). Con tutta evidenza doveva costituire il pannello centrale di un polittico, che prima il Venturi (1933), quindi il Berenson (1958) tentarono di ricostruire, seguiti da altri studiosi; gli altri pannelli - tra cui la splendida Pietà Johnson, a Filadelfia - sono divisi tra raccolte e musei americani, oltre a tre Santi della predella, due dei quali si trovano al Castello Sforzesco di Milano ed uno ad Anisterdani (coll. Proehl).
Segue, in ordine di tempo, il polittico del duomo di Ascoli, l'unico rimasto al suo posto, intatto. Datato 1473, opera di grande impegno, dipinto per il duomo della città divenuta sua residenza, esso è fondamentale per conoscere l'evoluzione stilistica dell'artista (v. Zampetti, in Restauri..., 1973, pp. 181-89).
La critica ottocentesca non è stata tuttavia benevola nei suoi confronti., tanto che Crowe e Cavalcaselle possono parlare di "impressione sgradevole" (1912, I, p. 86): ma si tratta in realtà di un'opera eccezionale anche per le condizioni in cui ci è pervenuta con la sua stupenda cornice lignea dorata ben conservata. La natura pungente ed estrosa del pittore riernerge libera, pronta ad aprire il gusto alle soluzioni più fantasiose ed incisive, dove il tema obbligato e monotono di santi e sante occhieggianti dai loro pannelli diviene addirittura argomento per una sfilata di moda: giovani e giovanette elegantissimi (S.Orsola, S. Giorgio)si propongono alla nostra ammirazione per gli abiti sfarzosi, d'una ricchezza ed eleganza insuperabili; ma anche per le loro movenze controllate e ritmate, dove ogni elemento decorativo ed ogni movimento, persino quello delle dita, vengono evidenziati e proposti come eventi irripetibili. Sicché non v'è nulla che non rientri in una visione globale, ma non v'è egualmente nulla che non risponda ad un interna perfezione, anche isolata dal contesto cui appartiene. Sono in complesso ben ventuno riquadri, dominati da quello centrate della Madonna col Bambino, una delle più felici tra le tante create dall'artista. La sua figura qui emerge quasi a sbalzo, come un rilievo di Agostino di Duccio: sensitiva e raffinata, essa è realizzata con estremo nitore formale, aperta ai valori della luce, festosa nei colori.
Il polittico di Ascoli svela ormai in modo definitivo la personalità del C. e la isola nei limiti, pur splendidi, che egli coscientemente si impose. Lo stesso problema della luce il C. avverte e risolve - proprio negli anni in cui anche il Giambellino lo affronta - in. modo univoco e in direzione opposta, quasi a rendere il suo mondo ancor più isolato.
È possibile che le esperienze di Piero della Francesca e di Girolamo di Giovanni non gli fossero ignote, anzi vi fu, probabilmente, un incontro tra il C. e quest'ultimo, quasi a consolidare le comuni esperienze padovane. È comunque evidente che dal polittico di Massa Fermana a quelli di Porto San Giorgio, di Ascoli, di Montefiore si svolge una continua evoluzione in chiave luminosa, che esalta le immagini, senza umanizzarle, come avviene nel Giambellino e negli altri pittori veneziani (Antonello fa parte per se stesso, ma forse è il più affine al Crivelli). In altri termini, sembra necessario - per "entrare" nella sua personalità - rendersi conto che non gli mancavano stimoli creativi suggeriti da una civilità figurativa in continuo superamento. Volendo, avrebbe potuto prendere anche lui una strada analoga - come tanti altri veneti - a quella scelta dal Giambellino. Avrebbe avuto, anzi, maggiori indicazioni in un mondo come quello marchigiano, percorso in lungo ed in largo dalle "novità" di Piero della Francesca, di Melozzo da Forlì, infine di Luca Signorelli. E non è pensabile che il C., appunto, ignorasse il nuovo corso giambelliniano, presente a Pesaro con un'opera qual è la Incoronazione, risalente proprio al 1470 o poco dopo.
Ma il C. insegue un processo opposto a quello del Giambellino: questi ci propone un mondo il più possibile verosimile e confidenziale, dove l'evento religioso si trasforma in consuetudine familiare e il paesaggio è quello stesso in cui noi pure viviamo, riconoscibile, nel quale addirittura compaiono edifizi a noi noti. dove luce ed ora del giorno possono essere vissute dalla nostra coscienza e dal nostro sentimento; il C., pur partendo dallo stesso mondo, lo ribalta, lo astrae, lo rende irraggiungibile ed irripetibile, isolato nel tempo e nello spazio. Ciò avviene anche quando dipinge lo stesso soggetto; si pensi alle due versioni del S. Giorgio col drago, quella giovanile di Porto San Giorgio (oggi Boston, Isabella Gardner Museum) e quella tarda di Matelica (Pala Odoni, oggi Londra, National Gallery). Appaiono due aspetti di una fantasia creativa allo stato nascente, ma ugualmente estranei ad ogni credibile realtà. L'artista s'appiglia a suggestioni medievali o meglio bizantine, ma pone immagini e problemi nuovi. Egli appartiene all'umanesimo: ma diverso da quello veneto, come pure da quello toscano. Da quel suo mondo iperbolico il C. estrae un particolare, un frammento, di verità e lo trasferisce in ipotesi di realtà, astratta e sfigurata: un mondo soggettivo, dunque, inventato, corrispondente a inquietudini non confessate, a stati d'animo in crisi, in cerca d'una verità nascosta ed irraggiungibile. Egli è culturalmente affine a Cosmè Tura, Marco Zoppo, Giorgio Schiavone, Bartolomeo Vivarini, Nicola d'Ancona: esponenti tutti di quel mondo postpadovano ed "adriatico", partecipi d'un umanesimo diverso.
Non si tratta dunque di giudicare negativamente l'arte del C., quasi si fermasse sul cammino del Rinascimento per difetto di informazione o di ossigeno. Per andare in fondo al problema occorre semmai capire il perché di una scelta, che lo sollecita verso una solitudine non nutrita d'inerzia, ma di perfezionismo formale, sempre più astratto. Anche nelle opere di racconto - si veda l'Annunciazione di Ascoli (oggi Londra, National Gallery) del 1486 - il C. mostra di conoscere bene i problemi della prospettiva edellaluce e di essere al corrente degli aggiornamenti culturali: eppure anche in quell'opera discorsiva ed episodica non rinuncia al suo distacco. Che il C. non abbia avuto evoluzione e sia rimasto chiuso, quasi assediato nello stile (si potrebbe dire, vasarianamente, "maniera") che s'è creato, è vero, ma fino ad un certo punto. In quel mondo non se ne sta quieto, né mostra di essere pago di una creatività scontata e ripetuta; si arrovella invece nel cercare non composizioni nuove, ma nuove soluzioni formali, rinnovandosi continuamente, quasi soggiogato dalla astratta esigenza di una impossibile perfezione.
Si è a lungo discusso di suoi possibili rapporti con la pittura nordica, fiamminga o tedesca, giungendo a far nomi, come quelli di Rogier vari der Weyden o Michael Pacher. Sarà anche possibile che tali contatti, non certo diretti, possano essere avvenuti. Ne sono sintomo e prova le incisioni dello Schongauer, che tra le sue Vergini sagge ne elabora una troppo simile alla figura della Maddalena del polittico di Montefiore per essere casuale (Bovero, 1961). Il problema rimane aperto, tuttavia, perché l'opera di Schongauer è posteriore a quella del C. e non c'è rapporto di dare ed avere, semmai una fonte iconografica comune. Anche con i due altri artisti ricordati, se pur qualche assonanza può essere colta (per il Pacher c'è la comune cultura padovana), non pare che si possa andar molto al di là di una certa aria, di un soffio d'aria culturale affine, che li investe. D'altra parte non e necessario immaginare viaggi a Ferrara (per vedere il vari der Weyden) o a Siena (per capire la miniatura toscana): né infine sembra sia molto importante, per capire il caso C., individuare (Adorisio, 1972) una sua attività di miniaturista, assai difficilmente accettabile, almeno sulla base delle proposte finora avanzate.
Solo raramente, e nella sua tarda attività, il C. rinuncia alla scontata struttura del polittico, legato a formule fisse e, dunque, senza particolari problemi compositivi ed accetta finalmente i nuovi indirizzi formali, legati alla pala d'altare. La prima opera in tal senso è l'Annunciazione di Ascoli (Londra, National Gallery) - già menzionata -, risalente all'anno 1486; quindi la Consegna delle chiavi degli Staatliche Museen di Berlino-Dahlem (in origine nella chiesa dei minori osservanti di Camerino), del 1488; poi la Pala Odoni (Londra, National Gallery, già Matelica, S. Francesco), senza data, ma del 1490 o poco dopo; inoltre la Sacra Conversazione Bacchetti (già Fabriano, S. Francesco, e ora a Londra, National Gallery); infine la Incoronazione (già Fabriano, S. Francesco:, e ora a Brera), del 1493, ultima opera firmata e datata.
Non è detto che, col rinnovamento conipositivo, l'artista compia dei veri passi avanti, anche se sarebbe ingiusto pronunciare la sua condanna per quel suo rimanere inchiodato a composizioni bloccate e senza respiro di spazio atmosferico. Occorre riconoscere che il C. insegue problemi e soluzioni diverse rispetto alle esigenze ed alle soluzioni del suo tempo; dissimili, addirittura, da quelle lagunari, appena si pensi, appunto, al Giambellino ed al suo spazio luminoso, al suo colore come luce. Sempre più legato il C. appare invece a brani di verità in un contesto di astratte fissità, quasi memore dei magici rutilanti mosaici di S. Marco della sua città natale. Ma poi sorprende, quasi all'improvviso, quel suo proporci assolute certezze: niente di più "realistico" di quella fiamma della candela mossa dal vento nella Pietà di Brera e niente di più tragico di quell'incrocio di mani e di dita, nell'opera stessa, del Cristo e della Maddalena. E ancora: quando l'arte ha saputo cogliere un momento di umanità così vero, come il C. fa nel Bambino della tavola del Museo parrocchiale di Corridonia?.
Sarebbe qui troppo lungo seguire l'artista in tutte le sue opere. Dopo i polittici di Ascoli, del 1473, e di Montefiore - questo non datuo, forse di poco posteriore all'altro (per la ricostr. cfr. Zampetti, C. C., 1961, pp. 79 s.) -, si possono ricordare gli altri due già ad Ascoli, l'uno in S. Domenico, l'altro in S. Pietro Martire, entrambi smembrati, dispersi, quindi in parte riuniti arbitrariamente, sotto il nome del proprietario (Polittico Demidoff; cfr. ill. 87-100 in Bovero, 1975, p. 92): acquisiti come tali dalla National Gallery di Londra, i pannelli vennero poi liberati da quel macchinoso contenitore e restituiti alla loro identità. Per Camerino, oltre alla ricordata Consegna delle chiavi, il C. dipinse due polittici, l'uno, firmato e datato 1482, forse per la chiesa di S. Domenico (poi trasferito nel duomo), l'altro proprio per il duomo, reso celebre dalla famosa Madonna della Candeletta che ne era al centro: tutte opere ora a Brera, meno i due pannelli laterali (uno frammentario) dei secondo, conservati alle Gallerie dell'Accademia di Venezia.
A Camerino il C. poté conoscere Niccolò Alunno, un unIbro severo e ritardatario, anche lui autore di polittici, che lo influenzò soprattutto nel colore, divenuto, nella tarda attività, più uniforme e, si potrebbe dire, incupidito. Un rapporto certamente più proficuo fu quello con Girolamo di Giovanni, il più alto rappresentante della scuola di Camerino, con il quale mostra già d'intendersi nella giovanile Madonna di Macerata (1470), troppo simile ad un affresco dell'altro, di età anteriore, ora nella Pinacoteca civica di Camerino, per non sottintendere un loro incontro. Ma essi s'eran già conosciuti a Padova, nel 1450, entrambi dunque partecipi della cultura adriatica. Lo stesso polittico del duomo di Camerino (oggi a Brera) del 1482 presenta un S. Venanzio che è direttamente mutuato dal santo analogo di un affresco di Girolamo (Camerino, Pinacoteca). Infine è possibile ipotizzare, se non una collaborazione, almeno una attività contigua tra i due, se del C. sono, come già accennato, i resti di decorazione dei cortile del palazzo dei Varano a Camerino, dove con quasi assoluta certezza operarono ad affresco, in dipinti poi distrutti o nascosti dagli intonaci, i maestri della scuola locale: come Girolamo, appunto, quindi il Boccati e infine Giovanni Angelo di Antonio.
Nel periodo in cui il C. operava nelle Marche, ivi giunsero anche i polittici di Antonio e Bartolomeo Vivarini (Osimo, Corridonia) e dello stesso Alvise (Montefiorentino, oggi Urbino), ma era presente anche - lo si è detto - Luca Signoielli, che vi lasciò traccia profonda, innestando la sua influenza su quella del C. e dando vita ad un'arte minore coniposita "crivellesca-signorelliana".
Sarebbe lungo qui ricordare anche solo i diretti seguaci o imitatori del C., iniziando dal fratello Vittore o da Pietro Alamanno. C'è tutta un'arte locale, spesso anonima, che risente di lui, e che spesso pone dei problemi. Esiste tutto un mondo "crivellesco" ancora in parte da ricostruire. Vi sono poi pittori ben noti, influenzati dalla sua personalità, anche di estrazione diversa, come Cola dell'Amatrice (nella sua prima attività); quindi Vincezo Pagani, Bernardino di Mariotto, il fabrianese Francesco di Gentile e il sanseverinate Lorenzo d'Alessandro. Qualcuno di loro passa, addirittura, dal C. al Lotto, il nuovo astro veneto che raggiunge le Marche pochi anni dopo la scomparsa, dei Crivelli.
In occasione della mostra veneziana (1961) il più acuto e pertinente giudizio sul C. fu quello espresso da Lionello Venturi, valido anche quale indicazione di principio, per una corretta lettura dell'opera d'arte: "Com'è noto, la tendenza più moderna della storia dell'arte è rappresentata dalla trattazione dei periodi artistici, anziché delle individualità". Essa "... ha recato preziosi contributi, e promette di svilupparsi favorevolmente. Ad una condizione, tuttavia: che giunga ad illuminare l'individuo, la sua libertà, il suo diritto di essere diverso da tutti, maestri e compagni. Altrimenti la nozione di cultura soffocherebbe la coscienza della creazione, e la comprensione dell'arte verrebbe meno. Il caso Crivelli è appunto significativo, perché una concezione ristretta del Rinascimento ha reso difficile di riconoscere in lui un grande e personale artista".
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