D'ADDA, Carlo
Nacque a Milano il 24 nov. 1816, figlio cadetto del marchese Febo e di Leopolda Khevenhüller.
Il padre (1772-1836) era stato uno degli allievi prediletti del Parini, al quale dedicò l'ode L'amicizia (Milano 1795) e, in seguito, In morte dell'abate Parini sommo poeta e La rimembranza. In epoca napoleonica ricoprì cariche pubbliche (consigliere comunale dal 1802 e membro del Consiglio degli uditori dal 1807 e del Consiglio legislativo dal 1809) e fu insignito dell'Ordine della Corona ferrea, pur non compromettendosi con un'adesione piena al regime. Con la restaurazione austriaca egli poté quindi ricoprire un ruolo di vertice nella nuova amministrazione (dalla vicepresidenza della commissione mista politico-giudiziaria per le materie feudali alla vicepresidenza del governo). Né gli nocque l'essere cugino di F. Confalonieri, dopo la cui condanna firmò la supplica per la grazia.
L'educazione del D. si svolse in un ambiente assai tradizionalista per coordinate politiche e religiose e soprattutto per costume e mentalità, incrostati ancora di valori di stampo feudale e del senso di un antico esprit nobiliare. Dopo i primi gradini dell'insegnamento superiore egli fu avviato a compiere il corso filosofico sotto la guida di docenti privati. Affrontò quindi gli studi universitari della facoltà politico-legale fino alla soglia della laurea. Morto intanto, il 26 ag. 1836, il padre e presto emancipato, egli rinunciò a laurearsi per non prestare con la formula d'uso una sorta di giuramento di fedeltà all'imperatore. Con l'accentuato rigore morale che malgrado l'estrema giovinezza gli era proprio, e che rimase per lui una direttiva costante di vita, il D. prendeva così a definirsi, almeno inizialmente, per contrapposizione al mondo di origine, il dominio austriaco e la società aristocratica. Un tracciato prefissato di alternativa culturale e politica egli aveva già trovato del resto nei fratelli maggiori, soprattutto in Giovanni, che fin dalla prima diffusione della Giovine Italia in Lombardia si era rivelato così acceso nella causa rivoluzionaria da impensierire V. Albera e L. Tinelli. i quali, poco fidando nella sua prudenza, avevano preferito tenerlo fuori dalle trame intessute fra il 1832 e il 1833 e che fu risparmiato solo per questo dall'ondata di arresti o dal rischio dell'espatrio.
Repubblicano anch'egli e democratico al pari di Giovanni, per motivi esclusivamente anagrafici il D. non ebbe però alcuna tentazione per il metodo cospirativo o fiducia in una imminente crisi rivoluzionaria. Piuttosto egli calò le proprie aspirazioni verso il rinnovamento in una dimensione studiosa ed intellettuale. Le prime prove in questa direzione egli andò facendo nel sodalizio con Giulio Spini, i due fratelli Giulini, i Porro, Giuseppe Sirtori ed alcuni altri. Anima del gruppo e stimolo al fare era Cesare Correnti, intorno al quale si rannodavano iniziative pubblicistiche e programmi di letture secondo progetti dapprincipio solo abbozzati ma che avrebbero tempestivamente trovato più saldi ancoraggi nello sforzo di abbracciare in un confronto critico un po' tutti i campi delle scienze politiche e morali e in particolare le elaborazioni della scuola sansimoniana con il suo afflato religioso oltre che sociale. Per questa via, avrebbe rilevato caustico Cattaneo nel clima rovente del postquarantotto. "essi, non che cittadini e repubblicani, s'imaginavano d'essere umanitarii, democratici e socialisti": e l'acre commento era volto a colpire con C. Giulini soprattutto il D'Adda. Il dissenso del resto non era fatto recente. Di là da venire ancora l'ipoteca monarchica, a Cattaneo li aveva contrapposti (e stretto a loro, in una "trinità" infranta poi dal '48, Correnti) una visione del mondo incompatibile. Né poteva essere diversamente per chi come il D. poneva a fondamento degli obblighi e delle azioni sociali il precetto cristiano dell'amore. Era la sua, precisava agli amici, una religiosità istintiva che andava appoggiando a meditazioni sulla Bibbia e sulle pagine di B. Pascal e che gli consentì di superare presto la crisi del dubbio innestata dalla conoscenza diretta della società romana e dalla lotta dell'autorità ecclesiastica al progresso. Fu dunque su questa impalcatura spirituale che si svilupparono i principi dell'etica individuale e della socialità presenti nella sua impostazione culturale e politica. Motivi tutti che confluirono nell'ampia recensione che, celato sotto una sigla anonima, egli dedicò sugli Annali universali di statistica (LXXI [1842], pp. 41-60) al poderoso saggio di C. Negri, Del vario grado d'importanza degli Stati odierni (Milano 1841). Fu questo l'unico impegno giomalistico assunto in prima persona dal D. che, partecipe dell'esigenza propriamente correntiana di inserirsi nel movimento pubblicistico milanese, fin dall'ormai lontana esperienza del Presagio (1835-1836) s'accontentava di preferenza d'aver parte nel lavoro organizzativo e nelle discussioni preliminari. A Negri il D. si oppose con accanimento e con una vis polemica che fecero scalpore nell'ambiente intellettuale.
Ciò che dava nerbo alla diatriba era la contrapposizione fra la fede nel momento morale ed ideale e l'interpretazione materialistica del fatto politico cui Negri, che qualcuno prossimo al D. aveva già assimilato per questo al Cattaneo, sacrificava. Affermando l'interesse come unico motore della società e la forza unica base del diritto pubblico, il professore padovano non faceva che ricalcare vecchie teorie, ultime l'utilitarismo benthamiano, e il sansimonismo negato dai suoi stessi seguaci che per spiegare le passioni generose avevano dovuto approdare al misticismo. Il principio dell'utilità generale per il D. non doveva invece andar disgiunto da quello di giustizia perché interessi e doveri si componevano nell'armonia finale disegnata dalla provvidenza secondo la legge morale dettata agli individui ed ai popoli. Intelligenza e volontà, i fenomeni del pensiero ignorati da Negri, erano le leve dell'agire umano, la forza reale di un popolo, figlia del tempo e delle tradizioni. La civiltà di una nazione era data dalla fiorente agricoltura, come dall'industria diffusa e rispettata, dalla morigeratezza come dall'istruzione sparsa ovunque soprattutto mediante le scuole minori per la classe più numerosa.
Occorreva dunque per il D. puntare alla crescita della società civile, e non soltanto quale strumento d'intervento politico. Facilmente le sue posizioni si colorirono di una filantropia che s'incrociava con le istanze sociali da cui era permeata la cultura lombarda e in specie l'intellettualità che circondava Correnti. A queste tematiche egli dedicò un approccio non soltanto libresco, facendone uno dei primari interessi dei giri d'istruzione che intraprese molto presto con Giovanni, in parte anche per sfuggire all'opprimente atmosfera familiare. Nel 1838 a Roma, nel corso del viaggio d'Italia interrotto tragicamente dalla morte del fratello Emanuele, si preoccupò ad esempio di raccogliere dati ed impressioni sugli asili da comunicare a Milano. Oppure di registrare puntualmente le visite agli stabilimenti di beneficenza del suo itinerario spagnolo del 1843.
Larghe disponibilità pecuniarie gli erano ormai assicurate dall'eredità paterna, che oltre a beni stabili negli Stati sardi, comprendeva i tenimenti di Isolabalba ed Uniti nel Lodigiano per un valore di stima di circa 640.000 lire austriache; a questi beni alla morte della madre si sarebbero aggiunte le rendite dell'imponente patrimonio fondiario Khevenhüller, rese più importanti dall'esercizio di filanda. In questi anni egli prese così l'abitudine di trascorrere lunghi periodi fuori dalla Lombardia, principalmente in Francia a contatto con l'emigrazione italiana e con i viaggiatori di altri Stati della penisola. Presso Cristina di Belgioioso conobbe, tanto per fare un nome, C. Cavour. In questo stesso lasso di tempo entrò in rapporto con Bettino Ricasoli, per questioni connesse forse con le bacherie di famiglia, e con svariati esponenti del patriziato genovese oltre che con personalità estere di primo piano. Erano relazioni che le inclinazioni dell'ora rendevano più personali che politiche ma suscettibili di rapidi sviluppi in questo senso col volgere degli avvenimenti. Allo stato delle cose apparivano più promettenti le entrature con l'organizzazione democratica. Nel 1843 pertanto egli si faceva introdurre da C. Lamberti e, pur senza aderire formalmente alla Giovine Italia, gli offriva, al pari di Giovanni, cooperazione. Per questo, e per l'intimità che il D. vantava con membri autorevoli del partito d'azione come P. Maestri, nel settembre del 1847 G. Mazzini gli si indirizzò direttamente per sollecitarne l'aiuto. Ma nel frattempo, profondamente mutato il clima politico, il D. aveva trovato piuttosto la sua collocazione nel fronte moderato. Si era trattato inizialmente soprattutto di assecondare con un certo possibilismo il processo in atto che inaugurava spazi d'azione concreta e faceva moltiplicare le iniziative.
Così il D. e gli amici a lui prossimi decidevano all'inizio degli anni Quaranta d'entrare nella Società d'incoraggiamento d'arti e mestieri a fianco del ceto mercantile; così egli decideva d'aderire al Club dell'unione con il notabilato milanese. A mezzo il 1845 il D. si preoccupò poi di mediare a Vichy la conciliazione fra il Confalonieri e G. Pallavicino. L'episodio non stava ad indicare un'identificazione con il moderatismo principalmente nella versione giobertiana dominante, cui il D. permase ostile anche in seguito: al momento le sue posizioni coincidevano infatti appieno con quelle del gruppo correntiano non ancora diviso fra indipendenti più o meno convinti e "piemontesi". Detti "ridicolmente i Puritani", ma nient'affatto privi di influenze nella città, essi andavano allora facendosi promotori con alterne fortune di nuove istituzioni in campo civile e sociale ed enueleando la propria voce nella Rivista europea che accentuava così l'aspetto educativo ed intellettuale. Un generoso fondo di dotazione assicurò la sopravvivenza materiale del. foglio, passato da poco alla direzione di C. Tenca, che continuò però a procedere molto zoppicando. Intanto, nello stesso 1845, un incontro del D. con Massimo d'Azeglio reduce dalla Romagna offriva le prime suggestioni albertine amplificate nel biennio successivo dall'insistente propaganda dei costituzionali genovesi e piemontesi finché esse non presero un carattere dì assoluta verosimiglianza. Né a questo appuntamento fra liberalismi regionali mancarono collegamenti con la Toscana o con il riformismo neoguelfo emiliano.
Nell'estate e nell'autunno del 1847, la soluzione albertista era comunque sicuramente già operante ed anzi ad essa il D. aveva guadagnato l'avallo, fra gli altri, del Correnti e degli indipendenti. Nella fase prerivoluzionaria ormai innestatasì a Milano, ascritta tutta al partito della legalità l'aristocrazia, alla quale per unanime consenso si riconosceva una funzione dirigente e alla quale anch'egli si era organicamente congiunto, il D. si impegnò prevalentemente nell'organizzare manifestazioni e pronunciamenti dell'opinione pubblica attraverso il Club dell'unione e il noto caffè della Cecchina. Solo dopo gli eccidi del 3 gennaio, sui quali prese ferma posizione in faccia agli Austriaci respingendo l'esortazione al compromesso del Cattaneo, si convinse dell'utilità di predisporre la difesa armata del popolo. Fu allora largo di aiuti e sovvenzioni al Correnti. Di lì a poco, nella prima quindicina di febbraio, per sfuggire all'arresto dovette ripartire per Torino. L'esigenza di intessere contatti diretti con Carlo Alberto era d'altronde giudicata improrogabile. E di ciò il D. si fece interprete nella capitale sarda.
Sui rapporti che egli intrattenne con la monarchia a nome del liberalismo lombardo l'epopea moderata si è esercitata con racconti spesso fantasiosi, quando non strumentali, tanto a lungo che restituire gli avvenimenti al loro concreto svolgimento non è sempre possibile. Comunque pare certo che a Torino il D., prima e dopo lo scoppio della rivolta a Milano, abbia avviato trattative con personalità del seguito di Carlo Alberto e poi con il sovrano stesso, già destinatario di periodiche relazioni da Milano. Dopo una rapida corsa a Milano il 26 marzo egli era nuovamente a Torino dove era stato nominato capitano del reggimento di cavalleria Novara. L'indomani gli giunse però la designazione del governo provvisorio a suo incaricato ufficioso d'affari (ufficiale poi dal 5 aprile) nella capitale sarda. Egli riepilogò allora le convinzioni che aveva comunicato a voce a Milano nella lettera (ripubblicata come sua in 1848. Il carteggio diplomatico, pp. 18 s. e contemporaneamente, su una copia mutila, sotto il nome di A. Bixio, alle pp. 46 s.) che inaugurava una corrispondenza fitta di indicazioni e di sollecitazioni, attenta agli umori dell'alleato piemontese e della diplomazia europea, personale nella linea e nelle prospettive e per questo stesso non sempre in sintonia con gli orientamenti del governo provvisorio.
Cessata con l'approvazione della legge sul regime transitorio della Lombardia la sua missione ufficiale e presto sconfitta dalla "codardia" dell'armistizio Salasco, e non da questa soltanto, la politica insieme nazionale e liberalcostituzionale che egli aveva fatto propria, il D. si tenne da allora volutamente in disparte dal lavorio di uomini e partiti. Lontano anche fisicamente dagli avvenimenti (a partire dal novembre 1848 dimorò infatti a lungo in Francia), si limitò ad un ruolo di osservatore critico.
Dal fallimento della guerra regia non vennero comunque al D. ripensamenti sulla funzione della monarchia e del Piemonte ed anzi, sedato in fretta il timore di una affermazione del partito retrogrado, ne approvò pienamente orientamenti e scelte.
Col 1850 intanto, parendogli assicurata dall'amnistia almeno la libertà individuale, il D. era rientrato definitivamente in Lombardia pur mantenendo, con frequenti puntate negli Stati sardi e prolungati soggiorni in Francia, contatti politici con l'esterno.
Egli fece della sua casa milanese uno dei centri più attivi di resistenza antiaustriaca, coadiuvato in questo dalla moglie, la nipote Maria Falcò Valcarcel Pio di Savoia (1826-1893), che aveva sposato alla fine del 1846.
Tramontata la circolazione delle opinioni propria della stagione prerivoluzionaria e rinserratisi al momento i partiti entro schemi ben delimitati, il D. finì col rappresentare essenzialmente un polo di aggregazione per la corrente filopiemontese degli "albertisti", coagulando intorno al suo salotto soprattutto esponenti dell'aristocrazia. E il suo sforzo maggiore, mentre andava crescendo il seguito di Cavour, fu quello di garantire la tenuta e la compattezza delle classi alte, messe un po' in forse dal viaggio di Francesco Giuseppe prima e ancor più poi dalla venuta dell'arciduca Massimiliano, che sembrarono schiudere nuovi spiragli d'intesa con l'Austria.
All'atto della liberazione della città, dopo essere stato con C. Prinetti a capo delle guardie civiche, si dedicò con tenacia alla costituzione del partito liberalconservatore: il primo passo fu la riattivazione del Circolo dell'unione cui si accompagnò presto la nascita della Perseveranza. Fra i principali azionisti e membro del comitato di redazione, anche in avvenire seguì attraverso le varie ristrutturazioni societarie la vita interna del maggior organo moderato cittadino, contribuendo non poco a determinarne l'indirizzo politico, come presumibilmente per altri fogli di tendenza. Nominato senatore nel febbraio 1860, più che ai lavori parlamentari si dedicò alla vita politica locale nell'accezione più ampia, dall'esercizio di una sorta di tutela sul momento elettorale alla gestione dei meccanismi preposti al controllo sociale, dalla rappresentanza comunale agli incarichi amministrativi, esercitando un'autentica supremazia sulla Destra lombarda.
In questo impegno tutto milanese una parentesi a sé furono gli anni che il D. trascorse nel governo della provincia (poi prefettura) di Torino. Al governatorato, reso prestigioso dalla vicinanza ai vertici dello Stato ma povero d'ascendenza sulla città, si insediò alla fine del 1859. Fra le incombenze dell'impiego vi fu anche quella, ufficiosa, di far da tramite nella fase delicata della transizione al nuovo regime fra la Lombardia e il ministero o la corte, che aprendosi ai borghesi - osservava il D. - mostrava di farsi espressione autentica di una monarchia costituzionale. Fino alla formazione del ministero Rattazzi egli rimase nella capitale: Napoli, propostagli da Ricasoli mentre si andava preannunciando l'abolizione della luogotenenza, infatti lo sgomentò. Dimissionario nel 1862 per manifesta incompatibilità col gabinetto, in seguito rifiutò, pur a malincuore, anche le nomine di governi amici: a Milano lo tratteneva la famiglia con le sue esigenze e le sue radici.
Di schietta ispirazione governativa era stata nel 1861 anche la sua chiamata al consiglio d'amministrazione delle Ferrovie lombarde e dell'Italia centrale (più tardi Alta Italia).
La relativa sinecura dei primi anni dell'incarico cedette a un più gravoso coinvolgimento fra il 1873 e il 1874, quando egli fu investito in rapida successione della vicepresidenza e della presidenza del consiglio stesso. Sotto la sua gestione, attenta alle ragioni dell'investimento straniero, i rapporti fra l'impresa e lo Stato toccarono punte di massima esasperazione, alle quali non fu estraneo, in un clima di aperto fastidio per lo strapotere dell'"oligarchia finanziaria dell'Olona", il trasferimento della sede sociale a Milano. Le tante contestazioni, liti, incomprensioni in atto, come è noto, sfociarono così nella decisione del riscatto della rete. Da allora il D. rivestì la presidenza del consiglio preposto all'esercizio temporaneo e poi alla liquidazione della Società stessa per la sezione dislocata sul territorio nazionale. Già amministratore di ferrovie secondarie come la Vigevano-Milano, sorretta dall'aiuto finanziario di quest'ultimo comune, da cui si era dimesso nel 1874, le propensioni economiche del D. non si indirizzarono comunque verso i nuovi settori dell'investimento mobiliare o industriale secondo l'esempio pionieristico del nonno Khevenhüller. Semmai egli rimase legato alle prospettive di una razionalizzazione dell'agricoltura, come dimostra la sua partecipazione a consorzi di proprietari per la canalizzazione e l'utilizzo delle acque per l'irrigazione. Le sue sollecitudini maggiori non furono in ogni caso rivolte allo sviluppo e alla tutela degli interessi materiali, fossero essi collettivi o anche di natura privata e patrimoniale. Sottratta nel dettato amministrativo unitario la beneficenza all'ingerenza della mano pubblica per essere restituita ad autonomo governo, qui soprattutto il D. aveva realizzato la saldatura fra giurisdizione dei censiti ed antica vocazione caritativa, fra esercizio liberale del potere e una filantropia intesa anche come patrocinio politico e sociale.
Impegni in tal senso egli si addossò poco dopo il suo rientro a Milano, cioè dal 1863, allorquando il D. accettò la presidenza del consiglio dell'ospedale Maggiore. La sua fu una presidenza fortemente direttiva e per molti versi assai scomoda. Autoritaria, si disse e si ripeté con monocorde insistenza nei tre anni successivi, ed ispirata ad un rigido senso del proprio ruolo che agli occhi offesi di molti medici suonò come l'altezzosità classista del grande patrizio. Malumori, recriminazioni, attacchi, repliche e controrepliche di ogni tipo punteggiarono così l'accelerata attuazione del programma di radicali riforme varate dal D., che toccava tutti i tratti della vita del nosocomio sforzesco e delle cause pie annesse per approdare ad un risanamento contemporaneamente finanziario e sanitario dell'istituzione.
Alla fine del 1866, allorché la rappresentanza comunale si prestò ad eleggere, fra i membri del consiglio ospedaliero, una figura di compromesso, rassegnò il mandato. Il plebiscitario rifiuto del gesto poté convincerlo a soprassedere fino alla presentazione del bilancio che, rendendo definitivo il 1° apr. 1867 il suo allontanamento, avrebbe disperso molta parte della carica innovativa portata dal primo consiglio. Un anno più tardi, resasi vacante la presidenza della Congregazione di carità, il D. era chiamato a reggere la massima istituzione dell'assistenza milanese (un patrimonio netto, distribuito fra sei Opere pie, vicino ai 19 milioni di lire e un assegno annuo per i soccorsi di 700.000 ed oltre, una rete di interessi e di clientele che non aveva eguali) venendo più volte riconfermato nell'incarico fino al marzo del 1886. Già fissate dalla gestione precedente alcune direttive cardine come la restituzione dei bilanci all'attivo finanziario o la creazione di delegati in ciascun quartiere per la distribuzione dei sussidi, fu soprattutto nel corso della quasi ventennale presidenza del D. che venne organizzata la beneficenza elemosiniera e di ricovero nel suo complesso. Egli ne predispose statuti e regolamenti senza consultare, come era accaduto per l'ospedale, i rappresentanti comunali, badando in prima istanza a stabilire la totale indipendenza e la piena autonomia dell'ente e a responsabilizzare il comune, renitente in via di principio, per le categorie di assistiti addossategli dalla legislazione austriaca ancora in vigore. Né rinunciò anche in seguito ad assumere ferma posizione sulla controversa questione delle competenze comunali. Nel concreto però le relazioni fra i due poteri permasero improntate ad uno spirito di collaborazione ed affidate alla strada conciliante delle transazioni. Anzi, avvertita dell'esigenza del municipio di scrollarsi di dosso la conduzione diretta della beneficenza, la Congregazione agì per qualche tempo come mandataria del comune stesso. Inoltre, quando l'aggregazione dei corpi santi portò per intervento ministeriale alla costituzione di un'unica Congregazione, nolente il D. che avrebbe preferito la sopravvivenza di entrambi gli organismi uniti nella persona del presidente, questa si fece carico di amministrare per conto e sui fondi del comune le provvidenze per il circondario esterno. Nella rigorosa difesa dei diritti dei residenti intra muros, sfruttando i margini di manovra lasciati dalle fondiarie, il D. si preoccupò comunque di avviare una cauta integrazione fra le due realtà assistenziali. L'intangibilità del patrimonio del povero restava in ogni caso il valore assoluto al quale rapportare scelte e politiche. Nel momento in cui l'ipotesi di una conversione coattiva dei beni immobili delle Opere pie in rendita dello Stato, nell'aria ormai da qualche tempo, rivestì nuova consistenza, egli intraprese pertanto una vigorosa ed incisiva azione per la mobilitazione sul piano cittadino e nazionale dei consigli degli enti collettivi coinvolti e dell'opinione pubblica. L'amministrazione oculata, la crescita continua delle rendite dei beni stabili, le migliorie incorporate nei fondi rurali, che escludevano si potesse parlare per i possedimenti degli enti soprattutto lombardi, e in particolare della Congregazione, di manomorta laicale, veniva confermata dall'andamento dei bilanci. Era una linea di tendenza di lungo periodo consolidatasi in modo marcato sotto la sua presidenza per il deciso indirizzo adottato oltre che per motivi congiunturali. L'incremento dei mezzi a disposizione consentì massicci investimenti nel campo della beneficenza di ricovero e di dilatare a spettro la pratica dei soccorsi. Contrario all'immobilismo dell'istituzione, come a troppo celeri riforme, nella sua politica dell'assistenza il D. mirò, per quanto possibile e con gradualità, a deprimere le forme più arcaiche del beneficare elemosiniero, dai sussidi fissi, che inceppavano la spinta al lavoro, alle doti, giudicate un istituto superato nel contesto cittadino ma ancora pienamente attuale presso le popolazioni agricole degli stessi corpi santi. Volendo adeguare gli interventi ai bisogni reali della società in trasformazione, aggiornati coi criteri della scienza, si premurò di tracciare la morfologia della povertà milanese. Dalla diagnosi, certo, non erano assenti considerazioni moralisticamente connotate. Pure l'accento batteva con maggior insistenza sui fenomeni sociali oggettivi. E solo in parte se ne potevano prevenire ed arginare le conseguenze attraverso lo sviluppo del lavoro, dell'istruzione e della previdenza. All'esercito dei quasi centomila operai in bilico fra l'indipendenza economica e la necessità di fare appello alla carità, al nutrito contingente dei miserabili precipitati oltre ogni speranza di riscatto individuale s'affiancava la massa - gonfiatasi nel ciclo politico ed economico postunitario - dei poveri di condizione civile. Impiegati, piccolo commercio e quanti venivano spostati dal ruolo sociale d'origine dalle fittizie promesse d'ascesa fatte balenare dalla scolarizzazione alimentavano richieste crescenti cui soprattutto occorreva badare. Nessun freno andava comunque opposto alla voglia di imparare. Nel perseguire una modernizzazione degli indirizzi assistenziali della Congregazione, il D. la orientò infatti principalmente verso i settori portanti della prevenzione, lavoro ed istruzione. Il caso più indicativo di un disegno coordinato in tal senso fu la riforma varata negli ordinamenti dell'Opera pia Croce, vincolata al soccorso medico nella frazione di Magnago. Nel piccolo borgo, vinta la resistenza del comune, con economie nella somministrazione dei medicinali si finanziò l'apertura di un asilo facilitando così anche alle madri l'occupazione nella filanda riattivata nei locali della Congregazione stessa. Più difficile si manifestò il buon esito di progetti che uscivano dalla metodologia consueta degli aiuti: magnificata dall'opinione pubblica, e presto imitata in altri capoluoghi, l'apertura di sale attrezzate con macchine da cucire a disposizione delle operaie fece registrare un insuccesso pressoché totale.
L'attività filantropica del D. non si limitò all'oneroso ufficio presso la Congregazione. Egli aderì a svariate delle iniziative in cui veniva concretandosi il celebrato spirito caritativo milanese. Il suo consenso andò in genere alle proposte che presentavano un carattere inedito e coprivano bisogni non difesi da altri enti. Fra i benefattori dei riformatori, nel 1879 non rispose con un diniego all'invito di S. Ronchetti, da cui pure lo allontanavano la politica e i principi religiosi, di porsi alla testa del patronato per gli adulti liberati dal carcere. E se ne dimise soltanto dopo parecchi anni, quando l'istituzione aveva ormai assunto una sua fisionomia ben delineata. Sul tema, caro al pensiero risorgimentale, che proprio a Milano aveva dovuto scontare un vistoso fallimento, e reso d'interesse più immediato dalle recenti ansietà per i crimini in aumento, egli convogliò anche l'attenzione del Congresso internazionale di beneficenza di Milano del 1880, di cui fu membro del comitato ordinatore e vicepresidente. A lato dei contributi offerti a società operaie di mutuo soccorso, fra cui quella fra i tipografi della Perseveranza, si quotò per dotare il patronato per gli infortuni sul lavoro. Ebbe parte anche nel finanziare o nel dirigere alcune realtà nuove nel campo dell'assistenza sanitaria, dall'Istituto oftalmico alla guardia medica notturna, all'ambulatorio per la cura antirabbica presso l'ospedale Maggiore. Questa fitta partecipazione all'azione sociale del liberalismo nelle sue sfaccettate articolazioni non rappresentò che un aspetto della presenza del D. nella vita associata e nelle iniziative tese a promuovere lo sviluppo cittadino e ad arricchire quel tessuto civile che era insieme il vanto e il cruccio dei Lombardi. Sottoscrisse così per le esposizioni del 1871 e del 1881 come per la fondazione del Museo industriale. E, allo stesso modo, sottoscrisse per la nascita della Società storica della regione.
Dal 1871, ultimo fra gli eletti, sedeva nel Consiglio comunale. Era un passo influenzato forse dall'intensità dei rapporti tra Congregazione e comune o ispirato, fors'anche, ai piani complessivi dei liberalmoderati che avevano imboccato da poco la strada dell'organizzazione politica riunendosi nella Costituzionale. Ma il loro quartier generale, come voleva la voce pubblica e come sarebbe apparso evidente soprattutto nelle circostanze difficili e contrastate, restava il palazzo D'Adda. Ed anche ad orientare la condotta e le scelte del comune egli concorse essenzialmente, con gli accordi di vertice e il coordinamento della maggioranza. Unica eccezione gli anni in cui si pose in dissenso con la giunta Belinzaghi, accusata dal 1878 di una gestione finanziaria troppo larga.
Nel 1876, riconfermando la propria funzione guida nel gruppo moderato milanese, il D. era riuscito ad imporre alla Costituzionale, non senza obiezioni e contrasti, la linea di maggior intransigenza. Nel clima allarmato e risentito che aveva accompagnato l'insediamento del governo Depretis, e al quale per il D. aveva contribuito certo il voto del Senato sui punti franchi - giudicato da un collega milanese a lui vicino l'atto di morte della Camera alta -, la consuetudine di vecchia data di far blocco compatto contro le minoranze cittadine era stata così sottolineata ed approfondita. Per intanto la lotta, coloritasi di accenti astiosi contro progressisti e democratici, era stata incanalata principalmente contro il prefetto della Sinistra, presto isolato nella città e sostituito poi dal governo con persona più grata. Mentre la Costituzionale milanese diveniva il modello di numerose associazioni nel paese, il D. aveva aderito anche all'organizzazione centrale che doveva restituire al partito unità d'intenti e di azione ma destinata a trascinarsi stancamente dopo gli slanci iniziali. L'esigenza di più saldi legami interprovinciali e interregionali egli soprattutto rilanciò nel 1879. Suo fu, ad esempio, il suggerimento, fedele al comune proposito della conquista morale del Mezzogiorno, che M. Minghetti parlasse a Napoli: l'occasione esterna, è noto, dei Partiti politici, e la pubblica amministrazione. I frutti di questa mobilitazione confluirono poi nei risultati elettorali del 1880. Mutate le prospettive, la tornata successiva vide comunque il D. trincerarsi dietro l'opposizione ad ogni costo, ignorando le tendenze contrarie in espansione tanto che qualcuno, memore dei dissapori che in questi anni caldi lo avevano opposto al leader ufficioso della Costituzionale, avrebbe riscontrato nell'esclusivismo oltranzista di cui egli si faceva portatore la vera causa della rovina della Destra. I primi segni della crisi dell'egemonia moderata fino ad allora indiscussa lo spinsero in ogni caso a ribadire un irrigidimento capace di imprimere una svolta anche nella politica comunale.
Alla piena fiducia che accordò così nel 1885 alla giunta Negri, rispose di lì a poco l'appoggio di questo al D. quando affiorarono irregolarità operate dal segretario generale della Congregazione di carità, G. Scotti. Nessun addebito venne mosso apertamente al D. che si dimise comunque il 27 febbr. 1886, solidale l'intero consiglio, non appena presentate le risultanze della commissione d'inchiesta incaricata di svolgere un'indagine amministrativa interna.
Nel frattempo il D. aveva già compendiato nell'aula comunale le cifre lusinghiere della sua presidenza. Un incremento patrimoniale (indicato poi in termini più vistosi dai bilanci definitivi) di oltre 8 milioni, ottenuto tanto con nuovi legati quanto con l'accorta gestione dei beni stessi, la crescita numerica delle Opere pie da sei a diciotto, che comprendevano ora fondazioni essenziali come il baliatico, e soprattutto l'erogazione della beneficenza annua passata a 1.250.000 lire.
Dal 1875 il D. sedeva anche nel Consiglio provinciale pavese per il circondario di Voghera, mandamento di Casatisma ove erano site le sue proprietà di maggior rilievo. Fu più tardi nel comitato centrale lombardo-veneto per la perequazione fondiaria.
Attivo fin quasi all'ultimo sia nella rappresentanza pavese sia in Senato, nell'emergenza della lotta anticrispina, o nella Milano attraversata dai contraccolpi della crisi di fine secolo, qui morì il 25 giugno 1900.
Dei tre figli, avuti da Maria (Mariquita) Falcò, il primo morì appena nato, il secondo, Giovanni (1856-1900) morì senza discendenti poche ore prima del D.; gli sopravvisse soltanto Leopolda (1847-1922), Cui toccò l'eredità paterna. Dal 1914la famiglia del marito di questa, il conte Annibale Brandolini, ottenne la facoltà di aggiungere al proprio il cognome D'Adda.
Fonti e Bibl.: Necrol.: In mem. del sen. C. D., Milano s. a. [1900]; E. Visconti Venosta, C. D., in Rass. nazionale, 1° maggio 1904, pp. 3-24; Cison di Valmarino (Treviso), Arch. Brandolini D'Adda, cass. 16, b. 5; 23; 24 e le 3 cass. CarloD'Adda. Varie, non invent. Per la documentazione relativa alla missione del 1848 cfr. soprattutto: Milano, Museo del Risorg., Carte D'Adda (salvo alcuni originali a Roma, Museo centrale del Risorgimento, b. 178, fasc. 28); Ibid., Arch. dei governo provvisorio della Lombardia, cc. 5, fasc. 21, 28; 6, fasc. 29, 30, 31; 9, fasc. 58; 10, fasc. 70; 11, fasc. 71, 76; Ibid., Arch. Martini, c. 2, p. 3. Si tratta di fonti ampiamente note e quasi integralmente edite. Cfr. in particolare A. Casati, Milano ed i principi di Savoia, Torino 18 59, pp. 431-456; C. Pagani, Uomini e cose in Milano dal marzo all'agosto 1848, Milano 1906, passim; R. Mosca, Le relaz. del governo provv. di Lombardia con governi d'Italia e di Europa, Milano 1950, passim; F. Curato, Il Parlamento di Francoforte e la prima guerra d'indip. ital., in Arch. stor. ital., CX (1952), 2, p. 292 n.; Id., La Baviera e la prima guerra d'indip. ital., in Il Risorgimento, V (1953), 1, pp. 25 s.; 45; 1848. Il carteggio diplomatico del governo provv. della Lombardia, a cura di L. Marchetti-F. Curato, Milano 1955, pp. 15-100, 106 s.; 109, 263, 272. Per altri momenti biografici, cfr.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Ministero d. Agricoltura, Industria e Commercio. Divisione industria e credito. Industrie, banche e società. 1839-1889, p. 176, fasc. 56, p. 207, fase. 164; Archivio di Stato di Firenze, Arch. Ricasoli, cass. 74, n. 80; Arch. di Stato di Milano, Araldica p. m., bb. 54, fasc. 1; 61, fasc. 2; 75, fasc. 2; Ibid., Cancellerie austriache, b. 140, fasc. 16; Ibid., Famiglie, sc. 65; Ibid., Feudi camerali p. m., bb. 13, 21, 27; Ibid., Presidenza di governo, b. 180, n. 1530; Ibid., Studi p. m., bb. 1190, 1192; Ibid., Uffici e tribunali regi p. m., b. 5 16 e parte speciale, b. 54; Arch. di Stato di Pavia, Antico Archivio dell'Università di Pavia, Registri, Politico-Legale-Legge, regg. 225, 235; Arch. di Stato di Torino, Sez. I, Arch. Castelli, m. 6 (O. Vimercati); Ibid., Gabinetto del Ministero degli Interni, m. 40; Milano, Arch. civico, Beneficenza pubblica, cc. 53, 55, 56; Milano, Arch. stor. civico, Consiglio comunale. 1802-1860, cc. 1-8, 47-51; Ibid., Famiglie, c. 7; Ibid., Funzionari pubblici, c. 5; Ibid., Arch. Malvezzi, c. 11, fasc. 4; Bergamo, Bibl. civica A. Mai, Arch. Camozzi Gamba, voll. XXVI, n. 19; XXXIII, nn. 2615, 2669, 2674, 2682; XXXIV, nn. 2697, 2708, 2789, 2795, 2797; XXXVI, nn. 2962 bis, 2984; XXXVIII, nn. 3234, 3251; XL, n. 3562 bis; XLI, nn. 3673, 3679, 3682, 3683; XLII, nn. 3909, 3910; LXIII, nn. 8240, 8263, 8348, 8349, 8355; XCI, n.9521; Ibid., Arch. Spaventa, Protocollo, nn. 2933, 2958; Ibid., Protocollo B, nn. 165, 166, 1125; Biella, Fondaz. Sella San Gerolamo, Arch. Sella, Fondo Quinfino, m. 83 (A. Villa Pernice); Ibid., Serie Affari generali, m. 57, fasc. 241; Ibid., Serie Carteggio, mm. 2, 45 (i riferimenti sono provvisori in attesa del riordino del complesso archivistico); Bologna, Biblioteca comunale dell'Archiginnasio, Carte Minghetti, cartt. 37, 43, 47 B, 47 C, 76, 77, 143, 147, 148, 151, 155; Ibid., Collez. autografi, cartt. XXIII, fase. 6445; XCIV, fasc. 22702; Ibid., Manoscritti Tanari, cart. XXIV, fasc. 1; Firenze, Bibl. nazionale, Carteggio U. Peruzzi, cass. XVII, ins. 1 bis; Ibid., Appendice da riordinare (Mariquita D'Adda); Milano, Bibl. Ambrosiana, Arch. Falcò Pio di Savoia (Sez. I), vecchia numerazione cc. 32 (nuova numerazione 3), ins. 1, 2; 51 (n. n. 46), ins. 6; 52 bis (n. n. 30), ins. 5, 17; 55 (n. n. 33), ins. 11, 18; 136 (n. n. 130), ins. 6; 211 (n. n. 214), ins. 6, 8; 530 (n. n. 562), ins. 12, 16; Ibid., Carte Sirtori, y 1 inf., fasc. 1; Ibid., Arch. dell'Ospedale Maggiore, Sezione amministrativa, Amministrazione, Amministratori, c. 6/1; Ibid., Deliberazioni del Consiglio degli Istituti ospedalieri, aa. 1863-1867; Ibid., Arch. del Museo di storia naturale, Corrispondenza Porro, sc. 2 (L. Frapolli), sc. 3 (B. Ricasoli); Ibid., Biblioteca nazionale Braidense, Manzoniana, B. XVIII. 12; Ibid., Museo del Risorgimentp, Arch. Correnti, c. 5, p. 1, 3,6; Ibid., Arch. parte generale, D'Adda Carlo, n. reg. 36.870; Ibid., Arch. Correnti. Carteggio, cc. 8, b. 390; 12, b. 595; 22, b. 1114; 23, b. 1189; 24, b. 1195; Roma, Museo centr. del Risorg., b. 337, fase. 6. Cfr. inoltre F. Reina, Vita di G. Parini, in G. Parini, Opere, I, Milano 1801, pp. XXV, LVIII, LXIII; Atti della Società d'incoraggiamento d'arte e mestieri... Prospetto dei soci..., Milano 1847, p. 39; Atti del Consiglio provinciale di Torino, s. 1, Torino 1860-1862, passim; Atti del Municipio di Milano. Annate 1863, 1866-1868, 1871-1893, Milano s. a. [ma 1863, 1866-1868, 1872-1873], 1874-1893, passim; L. Negri, L'Ospitale Maggiore di Milano nel 1865. Considerazioni, in Minerva, II (1866), nn. vari; Id., L'Ospitale Maggiore di Milano nel 1866. Considerazioni, Milano 1867; Riassunti dei bilanci consuntivi degli anni 1868-1869-1870-1871-1872delle Opere pie amministrate dalla Congregazione di carità di Milano, Milano 1874; Supplemento alla Riv. della beneficenza pubblica, II (1874), nn. vari; F. Calvi, D'Adda, in Fam. notabili milanesi, I, Milano 1875, tav. VII; Atti del Consiglio provinciale di Pavia... 1875-1896, 1899-1900, Pavia 1876-1897, 1900-1901, passim; Opere pie amministr. dalla Congreg. di carità di Milano. Resoconto bilanci consuntivi 1873-1877, Milano 1879; Le odi dell'abate G. Parini riscontrate su manoscritti e stampe, conprefazione e. note di F. Salveraglio, Bologna 1881, pp. XXXII, 165-168, 270-277; Min. d'Agricoltura, Industria e Commercio, Direz. generale di statistica, Atti del Congresso internaz. di beneficenza di Milano. Sessione 1880, Milano 1882, pp. 13, 39, 48, 190, 193 s.; L'Ospitale Maggiore e le cause pie annesse. Relazione al Consiglio provinciale di sanità di Milano, Milano 1882, p. 31; P. Canetta, Cronologia dell'Ospedale Maggiore di Milano, Milano 1884, p. 47; G. Pallavicino, Memorie, a cura della moglie e della figlia, Torino 1885-1895, II, pp. 219, 301 n., 384, 419; III, p. 530; R. Bonfadini, Mezzo secolo di patriottismo, Milano 1886, pp. 190, 209, 251, 264 s.; 290 s.; 293-297 n., 343, 351, 363; Relazione all'onorevole signor sindaco di Milano della commissione nominata dal Consiglio comunale per un'inchiesta sulla Congregazione di carità, Milano 1886; Alcune osservazioni del cessato consiglio d'amministrazione della Congregazione di carità di Milano alla relaz. della commissione d'inchiesta nominata dal Consiglio comunale nella seduta del 26 ott. 1885, Milano 1886; P. Canetta, Elenco storico-biografico dei benefattori dell'Ospedale Maggiore di Milano, 1456-1886, Milano 1887, pp. LXXV-LXXIX; Bilanci consuntivi 1878-1885 delle Opere pie amministrate dalla Congregazione di carità di Milano, Milano 1890; T. Massarani, C.Correnti nella vita e nelle opere, Roma 1890, pp. 46, 120, 473, 476 n., 482, 505-509, 511, 518 s.; 564, 602; G. Carcano, Opere complete, X, Epistolario, Milano 1896, pp. 28, 45 s., 49, 390; L. Chiala, I preliminari della prima guerra d'indipendenza italiana del 1848, in Riv. stor. del Risorg. italiano, I (1896), pp. 398, 403-407, 416-419; R. Barbiera, Passioni del Risorgimento..., Milano 1903, pp. 349, 419 s.; G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute. 1847-1860, Milano 1906, pp. 36, 55, 58, 61, 130, 189, 261, 354 ss., 361, 365, 375, 424, 452, 557; Carteggio Casati-Castagnetto (19 marzo-4 ott. 1848), a cura di V. Ferrari, Milano 1909, pp. XXIV, XXVII, XXXIII, XXXV, XL, XLIV, XLVII, LXIII, LXXXII, 11-12 e n., 15-16 n., 117, 207; Carteggio del conte F. Confalonieri ed altri docum. spettanti alla sua biografia, a cura di G. Gallavresi, I-II, Milano 1910-1913, rispettivamente pp. 23 e n., 84 e n. 1116 e n.; Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini, Appendice, Protocollo della Giovine Italia (Congrega centrale di Francia), I, pp. 302 s.; II, p. 61 n.; Epistolario, XIX, pp. 5 s. n., 118 n.; Carteggio del governo provv. di Lomb. con i suoi rappresentanti al quartier generale di Carlo Alberto: 22 marzo-26 luglio 1848, a cura di A. Monti, Milano 1923, pp. 11, 21, 23, 26, 53, 57 s., 76 ss.; 101, 205; M. Minghetti-G. Pasolini, Carteggio, a cura di G. Pasolini, III, Torino 1929, pp. 178, 182, 197 ss.; 202 ss.; 206 s.; 209, 214 ss.; 220, 234 s.; 255; Il Museo del Risorgimento di Milano. Nel cinquantenario..., Milano 1934, passim; C. Morandi, La formazione culturale e politica di C. Correnti, in Annali di scienze politiche, IX (1936), 2-3, pp. 116, 124, 127, 132, 136 s.; I rapporti fra governo sardo e governo provvisorio di Lombardia durante la guerra del 1848. Secondo nuovi docum. del R. Archivio di Stato in Torino, introduzione e note di T. Buttini e a cura di M. 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