AQUINO, Carlo d'
Nacque a Napoli nel 1654 da Bartolomeo , principe di Caramanico, e da Barbara Stampa, milanese, dei marchesi di Soncino. A quindici anni vestì l'abito della Compagnia di Gesù. Terminati i suoi studi, fu assegnato all'insegnamento nel Collegio Romano, dove tenne la cattedra di retorica dal 1684 al 1702. Successivamente divenne prefetto degli studi, e infine fu trattenuto nel medesimo Collegio col titolo di scrittore, sino alla sua morte avvenuta nel miaggio del 1737.
Fu membro dell'Accademia dei Rozzi di Siena e di quella degli Arcadi di Roma, nella quale portò il soprannome di Alcone Sirio. A questo proposito, va ricordato che uno dei suoi biografi, attribuisce a lui più che al Crescimbeni la fondazione dell'Arcadia: ma si tratta di una amplificazione laudativa priva di fondamento.
L'A. scrisse molto e dei più svariati argomenti, portando in ciascuno di essi l'impronta della sua educazione decisamente retorica e pedantesca, non priva, però, di un certo gusto affinato nella quotidiana frequentazione con i classici italiani e latini; talché, pur mancando egli di un preciso indirizzo e di idee nuove, non si può dire che tutte le sue opere siano da considerare sotto un identico profilo negativo.
A un'attività propriamente retorica si possono ricondurre le numerossime orazioni d'occasione (funerali, encomiastiche, per compleanni), di cui è ricca la sua carriera letteraria e mondana insieme. Ricordiamo le più importanti: Genethliacon Vvalliae Principi Jacobi II Magnae Britanniae regis filio (...) dictum in aula maxima Collegii Romani..., Romae 1688; Oratio in funere Ioannis III Poloniae Regis habita in Sacello Pontificio Quirinali... d. 5 dec. 1696, ibid. 1697; Oratio in funere Eleonorae austriacae, Poloniae Reginae..., ibid. 1698; Sacra exequialia in funere Iacobi II Magnae Britanniae regis..., ibid. 1702.Q ueste e molte altre orazioni furono riunite in un grosso volume di due tomi (Roma 1704).
A un interesse soprattutto retorico si pos!ono ricondurre in sostanza anche le opere in versi e in prosa, di argomento storico, in cui peraltro l'A. presta la sua abilità oratoria a un desiderio assai vivamente sentito di esaltazione religiosa e politica. Erano quegli gli anni della suprema espansione ottomana nei Balcani e del decisivo violento contrattacco iniziato dalla cristianità sotto le mura di Vienna e proseguito poi nelle pianure ungheresi. A questi fatti sono dedicati il De Veradini expugnatione carmen, Romae 1693, e i Fragmenta historica de bello Hungarico, ibid. 1726, parte questi ultimi di una più vasta opera che l'A. aveva intrapreso con l'alta approvazione dell'imperatore Leopoldo e con il sussidio importantissimo del p. N. Avancini della medesima Compagnia, assistente di Germania in Roma, e che aveva dovuto in seguito abbandonare per la morte di questi due suoi protettori.
L'A. si occupò anche di questioni lessicali, componendo vocabolari specialistici, che si annoverano nella vasta produzione contemporanea di opere analoghe. Suoi sono infatti un Lexicon militare, Romae 1724 (cui seguirono tre anni più tardi le Additiones) e un Vocabularium architecturae aedificatoriae, ibid. 1734, abbastanza pregevole.
Nei Miscellaneorum libri III, Romae 1725, l'A. raccolse ogni tipo di osservazione critica, specie su soggetti letterari.
L'A. fu poeta in lingua latina facile e abbondante, anche se il più delle volte scolastico. Pubblicò tre tomi di Carmina (Romae 1701, 1702, 1703), di vario metro e genere, che vanno dall'epigramma all'ode oraziana al frammento anacreonteo. Un derivato di questa produzione poetica fu L'Anacreonte ricantato dal Padre C. d'A. della C. di G., trasportato in verso italiano da Alcone Sirio pastore Arcade, Roma 1726. Da buon religioso, egli seppe mettere questa sua abilità tecnica al servizio degli offici ecclesiastici, componendo e pubblicando gli Elogia Sanctorum quae ab Ecclesia romana divini officii lectionibus recitantur, epigrammatis reddita a..., Romae 1730 (voll.2).
Nel quadro vasto e farraginoso di questa produzione retorico-umanistica di stampo nettamente gesuitico, va ricondotta anche, per essere spiegata e ridimensionata, la devozione del padre d'A. verso Dante. Fin dal primo accostamento alle versioni latine di Dante, che egli attuò con costanza e impegno addirittura eccezionali, il lettore non riesce a liberarsi dall'impressione che al fondamento di quest'opera strabiliante di erudizione e di sapere classico ci sia una pressoché totale incomprensione dei testo studiato e, tradotto, o, per meglio dire, una non sempre intenzionale ma certo chiarissima volontà di correzione e di rifacimento. In altri termini, proprio in questo lavoro cosi devoto e paziente dell'A. noi possiamo constatare come il rispetto del gran nome di Dante sia, nel particolarissimo ambito della cultura del primo Settecento, un fatto assai più formale che sostanziale, al punto che gli stessi suoi più strenui cultori, nel momento stesso in cui applicano concretamente al testo la loro venerazione, ne svelano anche i limiti profondi e la debolezza di fondo.
L'A. iniziò la sua attività di traduttore dantesco con Le similitudini della "Commedia" di Dante Alighieri trasportate verso per verso in lingua latina da...(coltesto italiano a fronte), Roma 1707, opera già di per sé considerevole, e pure un semplice assaggio nei confronti della successiva, che addirittura realizzava l'ambiziosissimo progetto di ridurre in versi latini tutta l'opera maggiore di Dante: Della "Commedia" di Dante Alighieri trasportata in verso latino da... Coll'aggiunta del testo italiano e di brevi annotazioni, Napoli, 1728,voll. 3 (l'impressione fu in realtà fatta a Roma; la data di Napoli fu posta sul frontespizio, perché Dante non era mai stato stampato a Roma, e l'A. dovette temere che la sua traduzione sarebbe stata proibita).
Per quanto riguarda i criteri usati dallo scrittore nell'operare la sua traduzione, basterà dire che egli si rende ben conto del divario immenso intercorrente fra le possibilità espressive della terzina e quelle dell'esametro virgiliano (preferito a quello oraziano, troppo prosaico per la sua ambizione di retore); ma la consapevolezza del problema gli serve soltanto per mettere in luce i motivi per cui la sua traduzione sarà tanto diversa dall'originale: "Siccome allo stile Comico e Satirico, da esso comunemente usato, ben si convengono i Laconismi, così dall'Eroico si richiede l'Asiatico, ampio e magnifico, che non adempia il solo necessario, ma ridondi con saggi di maggior forza e dovizia...". Nasce così un Dante smussato e solenne, camuffato in paludamenti virgiliani, che è, inconsapevolmente, assai più vicino di quanto non sembri a prima vista a quell'atteggiamento del gusto, di cui S. Bettinelli, divenutone più tardi consapevole, doveva dar prova, condannando in una il grande poeta e il mediocre suo traduttore. Quanto alla scelta del metro, l'A. la giustifica con una motivazione che più retorica non potrebbe essere: "dirò dunque di aver scelto un tal metro, per esser più noto all'uso, e più gradito al palato universale de' Letterati".
L'A. dichiara anche, nella sua Prefazione, di non aver voluto tradurre dal poema dantesco quanto sonasse offesa a "illustri Comuni", "sagri personaggi di eccelso grado", re e principi di nazioni straniere, e financo ad illustri rappresentanti di famiglie nobili italiane, i cui discendenti, dopo quattro secoli, avrebbero mai tollerato la vergogna di vedere il proprio nome condannato, in versi latini oltre che italiani, "al caldo e al gelo del suo Inferno fantastico e capriccioso". Proposito rigidamente applicato, al punto di portare all'eliminazione o alla parziale censura non solo delle grandi invettive contro Pisa (Inf., XXXIII) o contro Firenze (Inf. XV), ma anche degli accenni alle famiglie nobili, come i Gualandi i Sismondi i Lanfranchi (Inf., XXXIII, 32), o alla natura prava di certi italiani o di certi popoli stranieri ("E io dissi al poeta: Or fu già mai / gente sì vana come la sanese? / "Certo non la francesca sì d'assai"; Inf., XXIX, 121-23). Stranamente integra invece l'invettiva contro l'Italia del canto VI del Purgatorio, la quale conserva, pur nella dignitosa sostenutezza dell'esametro eroico, alcune punte notevolmente aspre ("domito servilia collo / vincla geris..."; "lupa venalis, miserandaque..."); forse sembrò al buon padre gesuita che, tra tutti i casi possibili di suscettibilità storica, famigliare o personale, l'Italia sola, nel suo complesso, non avesse né motivo né diritto di irritarsi e di reclamare della brusca parola dantesca.
È sintomatico del resto che tra i casi elencati nella Prefazione di intenzionale esclusione, non figurino i numerosissimi brani della Commedia volti a condannare la corruzione della Chiesa, dei pontefici e dei prelati; i quali brani sono peraltro sistematicamente espunti dalla traduzione, talché, ad esempio, delle parole di Guido da Montefeltro nel XXVII dell'Inferno, o di Pier Damiani e di s. Benedetto, rispettivamente nei canti XXI e XXII del Paradiso, ovvero dell'intero XIX canto dell'Inferno, non restano altro che file monotone e scarsamente espressive di puntolini; e lo stesso s. Pietro (Paradiso, XXVII) subisce l'onta della censura. È già stato osservato (M. Besso) che l'intento censorio del padre d'A. si rivela fondamentalmente politico o, diremmo noi, politico-ecclesiastico; prova ne sia che brani anche scabrosi dal punto di vista morale, come quelli del canto V dell'Inferno, sono tradotti molto fedelmente, e in alcuni punti, a giudizio del Tommaseo, con una accentuazione di sensualità.
La versione dell'A. fu molto nota, e servì d'esempio a tentativi successivi, come quello dell'abate Dalla Piazza (pubbl. nel 1848 a Lipsia da C. Witte) e del Tommaseo (v. soprattutto alcuni luoghi della traduzione tommaseiana del canto V dell'Inferno). Il Bettinelli condannò la fatica dell'A., ai suoi occhi mostruosa. Il Tommaseo trovò in essa belle eleganze, pur non condividendone l'impostazione generale, troppo lontana dallo spirito dantesco. Il Witte giudicò la traduzione del padre d'A. elegante. F. Testa volle colmare le lacune dell'opera, traducendo tutti i luoghi censurati dal gesuita (e presentò il frutto del suo lavoro in una pubblicazione Per le cospicue nozze - del nobile uomo - Domenico Melilupi - Marchese di Soragna - colla nobile donzella Giustina Piovene - contessa - Porto Godi Pigafetta, Padova 1835). A. Piegadi ristampò la versione del canto XXXIII dell'Inferno, insieme con quella di altri scrittori del Sette e Ottocento (Morte del conte Ugolino, quadro di messer Dante Alighieri ritratto in metro latino dal giovane messicano Uguccione Nonvrai e da altri sei celebri autori (p. C.d'A., ab. M. Cesarotti, F. Testa, dott. A. Catellacci, ab. G. Dalla Piazza, Biagio Barone de' Ghetaldi), Venezia 1864. F. De Sanctis, infine, confrontando un passo della versione aquiniana con il testo dantesco, colse la debolezza intrinseca alla mancanza di consapepevolezza critica e di spirito poetico del padre gesuita.
Bibl.: Manca uno studio d'insieme sulla figura del d'Acquino. Citiamo le voci bibliografiche più importanti: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753, pp. 910 s.; E. D'Afflitto, Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, I, Napoli 1782, pp. 401-403; P. Napoli-Signorelli, Vicende della coltura nelle Due Sicilie, VI, Napoli, 1811, pp. 63 s.; Dantis Alligherii Divina Comoedia, hexametris latinis reddita ab Abbate dalla Piazza, Vicentino. Praefatus est et vitam Piazzae adiccit, Carolus Witte, antecessor Halensis, Lipsiae 1848; N. Tommasco, Dante e i suoi traduttori, in Riv. contemporanea, IV(1855), pp. 433-467; Ch. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, I, Bruxelles-Paris 1890, coll. 492-495; Dantisti e dantofili dei secc. XVIII e XIX, fasc. 2°, s.l. né d., ad vocem; M. Besso, A proposito di una versione latina della "Divina commedia", in La Bibliofilia, IV(1903), pp. 373-390; N. Tommaseo, Colloqui col Manzoni, pubblicati per la prima volta da T. Lodi, Firenze 1929, p. 65; S. Bettinelli, Dissertazione accademica sopra Dante, in Lettere virgiliane e inglesi e altri scritto critici, a cura di V. E. Alfieri, Bari 1930, p. 279; R. G. Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Romae 1954, pp. 279, 289, 336; F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1955, pp. 210 s., 641; G. Natali, Il Settecento, Milano 1955, I, pp. 512, 515, 522, 557; II, p. 650.