Denina, Carlo
Nato a Revello nel 1731 e morto a Parigi nel 1813, il poligrafo piemontese, viaggiatore e cosmopolita (visse alla corte di Federico II di Prussia e fu poi bibliotecario di Napoleone), cita spesso M., plagiandone anche gli scritti, ma esprimendo sovente giudizi in linea con un convenzionale moralismo. Nella sua opera più fortunata, Le rivoluzioni d’Italia (1769-1770), tracciata, quanto al metodo, sulle orme dell’Histoire des moeurs di Voltaire, parafrasa tacitamente, come ha notato Vitilio Masiello, varie pagine delle Istorie fiorentine: per esempio, nel libro XVII 4 (le guerre di Francesco Sforza) riprende quasi alla lettera Istorie fiorentine VI iv (cfr. Le rivoluzioni d’Italia, a cura di V. Masiello, 1979, pp. 11 e 906). Non manca tuttavia di scrivere che «l’energia e chiarezza dello stile» e la «cognizione molto esatta» delle circostanze storiche rivelata nelle Istorie sono oscurate dai «semi della empia e sanguinaria sua [di M.] politica» (p. 924). Nelle Rivoluzioni D. si confronta altrove con l’insieme dell’opera di M.: per es., nella parte dedicata alla storia romana approva l’opinione espressa in Discorsi II i 1, secondo cui le truppe romane erano «spezialmente eccellenti nel combattere a campo aperto» (p. 114), mentre nega, contro M. e contro Montesquieu, che la grandezza di Roma fosse stata raggiunta grazie ai «suoi fondamentali istituti, e per certi suoi ordini propri e particolari», cioè a causa dell’originale costituzione (p. 105). Più singolare il riferimento a Discorsi I ix 2 dove, discutendo delle lotte municipali nell’Italia medievale, D. si sofferma sull’esempio storico offerto da Romolo e analizza criticamente il senso delle distinzioni machiavelliane tra principato e repubblica (p. 726):
Cosa maravigliosa in vero, che un autore [M.], il quale suppone generalmente gli uomini ambiziosi e malvagi, abbia potuto o credere o dire che Romolo, nato di stirpe regia, allevato nella ferocia, avvezzato alla licenza ed alle usurpazioni fino da’ primi anni, pensasse a fondare una nuova città, con suoi travagli e pericoli, per darne poi il governo all’arbitrio d’un popolo indomito, composto di tante generazioni differenti, piuttosto che trasmetterne il principato a’ suoi posteri.
Implicita è poi la disapprovazione di Discorsi I xii intorno agli effetti negativi sulla storia italiana del potere temporale dei papi:
lasceremo dolersi chi vuole, che i papi né abbian saputo farsi padroni d’Italia, né per invidia e gelosia abbian voluto patire che altri se ne impadronisse. Ma in tal caso chi mi dirà se la condizione delle nazioni che, divise una volta in più dominii, divennero provincie d’un solo imperio, sia migliore di quella degl’italiani? (pp. 660-61).
Le idee di M. sulle milizie mercenarie vengono sottoposte a una curiosa valutazione (con riferimento specifico a Istorie fiorentine V xxxiii):
[M.] seguendo quel suo genio sanguinario che l’inspirava biasimò in più luoghi delle sue storie e in tutte le altre sue opere parimente questo modo di guerreggiare, appunto perché poco vi si uccideva, e mai non distruggevasi per le vittorie il nemico; sicché sempre il vincitore si trovava la strada tagliata alle conquiste (p. 950).
Illustrando le vicende conseguenti alla fine politica di Cesare Borgia, D. critica poi le idee espresse da M. in Discorsi I xxvii (l’inettitudine del perugino Giampaolo Baglioni a spegnere con la forza nel settembre 1506 le trame di papa Giulio II):
Giulio II sapeva forse meglio che il Segretario fiorentino, fino a che segno possa compromettersi ed esser sicuro, anche a fronte de’ più insolenti ribaldi, chi sente la superiorità del suo grado, massimamente se colla prontezza dell’azione non lascia tempo di riflettere a quelli che vuole offendere (p. 1011).
Bibliografia: Vicende della letteratura, Torino 1792-1793; Le rivoluzioni d’Italia, a cura di V. Masiello, Torino 1979. Si veda inoltre: G. Fagioli Vercellone, Denina Carlo Giovanni Maria, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 38° vol., Roma 1990, ad vocem.