CARLO di Borbone, re di Napoli e di Sicilia
Primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, nacque a Madrid il 20 gennaio dell'anno 1716. Il diritto, anche se molto incerto, all'eredità di due grandi stirpi in via di esaurimento, i Farnese e i Medici, aveva influito nella scelta della volitiva principessa italiana quale seconda moglie del fondatore della dinastia borbonica spagnola, intorno alla metà del 1714, poco dopo la morte di Maria Luisa di Savoia. L'esistenza dei primi due figli di Filippo - Luigi e Ferdinando - non permetteva ragionevoli aspettative di un trono in Spagna per la discendenza di Elisabetta. Nella genealogia di C. il nome dei Medici figurava fra i rami non molto prossimi; egli, tuttavia, era a Firenze - secondo la testimonianza di B. Tanucci - "rinomato per successore del Granduca" prima ancora di nascere. Cosimo III, infatti, essendo morto senza prole il suo primogenito Ferdinando, e non avendo speranza di discendenti dal secondogenito Giangastone, si sarebbe assicurato con un rampollo dei re cattolici una discendenza più che degna. Quanto ai Farnese, il duca Francesco non aveva per erede che il fratello Antonio, mostruosamente obeso e che non prometteva né vita lunga, né posterità.
La politica d'equilibrio in Europa ed altre concrete spinte internazionali favorivano le sorti regali di C.: la creazione nell'Italia centrosettentrionale di un regno più o meno dipendente dalla Corona spagnola era infatti ben vista da quanti, in Francia come in Italia, temevano il consolidarsi della pesante egemonia asburgica, già presente a Milano e nel Meridione. Perciò quelle aspirazioni dinastiche furono subito recepite dalla diplomazia europea e costituirono per oltre sei lustri uno dei suoi maggiori problemi. C. non aveva ancora un anno e già un progetto inglese, nel quadro di una soluzione complessiva degli antichi contrasti fra le corti borboniche e asburgica, gli attribuiva il riconoscimento cesareo del suo eventuale diritto sul granducato mediceo e sui ducati farnesiani, sia pure sotto vincolo feudale a vantaggio dell'Impero: riconoscimento, allora, troppo vago, poiché erano in vita i legittimi sovrani dei due Stati. Fino a che punto fossero, al contrario, risolute e impazienti le pretese della regina di Spagna, si comprese bruscamente poco più tardi, il 22 ag. 1717, quando 9.000 Spagnoli sbarcarono in Sardegna, tolsero rapidamente l'isola agli Imperiali e l'anno dopo s'impadronirono della Sicilia. L'audace impresa, immatura dal punto di vista diplomatico, determinò la reazione delle altre maggiori potenze europee. La Spagna fu costretta a cedere le due isole e a sottoscrivere, il 17 febbr. 1720, la quadruplice alleanza, che riconobbe a C. il diritto di successione eventuale nei ducati, ma riaffermò la loro dipendenza feudale all'Impero.
Il fallimento del colpo di mano militare indusse a tentativi diplomatici e ad adottare l'antico espediente delle unioni dinastiche. Tre matrimoni avrebbero rinsaldato i legami fra le due corti borboniche: alla fine del 1721 l'infanta Anna Maria Vittoria (che non aveva ancora quattro anni, essendo nata il 31 marzo 1717) fu promessa in sposa a Luigi XV e fu inviata a Parigi; due figlie del duca Filippo di Orléans, reggente di Francia, furono destinate al primogenito del re di Spagna e a Carlo. Questi aveva allora sette anni e Philippe Elisabeth d'Orléans, principessa di Beaujolais, quarta figlia del duca, uno di più. Il contratto di fidanzamento fu sottoscritto a Parigi il 22 nov. 1722 e subito la promessa sposa partì per la Spagna. Ma i tre matrimoni fallirono o ebbero esito infelice in poco più di due anni: la morte del duca di Orléans, alla fine del 1723, l'abdicazione del re di Spagna a favore del primogenito Luigi, la morte del giovane sovrano dopo appena sette mesi di regno, il ritorno sul trono di Filippo V sconvolsero i piani dinastici degli Orléans, indebolirono il loro partito, indussero la corte di Francia a cercare una soluzione più rapida per il matrimonio di Luigi XV e perciò a sciogliere l'impegno di nozze con Anna Maria Vittoria. La rottura, di cui si parlava già nell'estate del 1724, fu comunicata ufficialmente solo il 9 marzo 1725. Il terzo progetto matrimoniale seguì la sorte dei primi due e la principessa di Beaujolais fu rinviata in Francia insieme alla vedova di Luigi I.La corte spagnola, d'altra parte, impaziente di sistemare C. in Italia e scontenta del tiepido appoggio francese, non s'era lasciata cogliere impreparata e aveva già avviato le trattative per una soluzione diversa e in certo senso opposta: l'accordo diretto con Carlo VI, suggellato dal duplice matrimonio delle arciduchesse Maria Teresa e Maria Anna con i due infanti, figli di Elisabetta, C. e Filippo (missione Ripperda). I primi trattati austroispani furono sottoscritti a Vienna il 30 apr. 1725 e non costarono molto all'Impero: la giovane età delle due coppie forniva a Carlo VI il pretesto per rinviare i matrimoni e per non concedere intanto che vaghe promesse. In base ad esse le due corti tradizionalmente nemiche si trovarono a svolgere, almeno in apparenza, la stessa politica per oltre un triennio. Ma mentre a Madrid si coltivavano ambiziosi propositi e bellicosi progetti di guerra, a Vienna si procrastinava e si cercava di attenuare i contrasti. Gli stessi motivi che rendevano impaziente Elisabetta - la salute sempre più malferma di Filippo V e il timore di dover uscire da un momento all'altro dalla scena politica - inducevano la diplomazia viennese a far di tutto per guadagnare tempo.
Dopo la morte del duca di Parma, Francesco Farnese (26 febbr. 1727), la condotta di Carlo VI apparve chiara: favorendo il matrimonio del successore Antonio con Enrichetta d'Este, egli mostrò di voler continuare ad ostacolare l'avvento di C. nei ducati. A Vienna, non a torto, si pensava che quel primo passo sarebbe stato decisivo per la sorte di tutti i possedimenti imperiali d'Italia. Elisabetta comprese allora che sarebbe stato ingenuo continuare a considerare l'imperatore un interlocutore ben disposto e decise di riavvicinarsi alla Francia e di realizzare fra le due corti borboniche un accordo che apparve, in quei primi anni, non privo di molte riserve mentali e fondato, da parte spagnola, sullo stato di necessità.
La riconciliazione produsse tuttavia frutti concreti il 9 nov. 1729, con la firma del trattato di Siviglia, che costituì per C. un passo importante verso l'Italia: mentre infatti non solo i due regni borbonici, ma anche l'Inghilterra garantivano il suo diritto alla successione su Parma, Piacenza e la Toscana, gli fu riconosciuta la facoltà d'introdurre subito nei suoi futuri possedimenti 6.000 soldati spagnoli a tutela dei suoi interessi. Tale spedizione sarebbe stata realizzata, se necessario, con l'appoggio armato delle tre potenze garanti (a cui si aggiunse l'Olanda), entro sei mesi dalla firma del trattato. In realtà la politica di pace e di negoziati diplomatici voluta dai governi francese e inglese, e in particolare da Fleury e Walpole, portò a lunghi rinvii nell'esecuzione del patto e servì a evitare una guerra che in quegli anni l'imperatore si mostrava deciso a combattere. Egli infatti rinforzò i presidi dei suoi Stati d'Italia e, traendo pretesto dalla morte dell'ultimo dei Farnese (20 genn. 1731), fece occupare dalle sue truppe i ducati di Parma e Piacenza, a tutela dei propri diritti.
Fu allora che l'intervento inglese, ottenuto dalla Spagna a Siviglia con il sacrificio di importanti posizioni commerciali e strategiche (la tacita rinunzia a Gibilterra), si rivelò decisivo per la soluzione dell'intricato problema. Il mezzo per far valere le esigenze dinastiche della regina di Spagna fu trovato in quelle di Carlo VI: nella sua aspirazione ad assicurare, in mancanza di discendenti maschi, alla figlia Maria Teresa la successione al trono di Vienna, e ad ottenere a questo scopo il riconoscimento europeo del documento che la sanciva, la Prammatica sanzione. L'Inghilterra era disposta a mediare e ad appagare gli interessi dinastici delle corti europee, e a consentime moderate, alternative espansioni in Europa (nel quadro di una politica di equilibrio), in cambio di obiettivi e sostanziali vantaggi economici e commerciali. Approvando la Prammatica sanzione, ch'era stata riconosciuta allora soltanto dalla Prussia, l'Inghilterra ottenne, insieme con la soppressione della Compagnia di Ostenda, che faceva seria concorrenza al suo commercio, l'assenso imperiale all'ingresso di C. e delle sue truppe in Toscana, a Parma e a Piacenza (trattati di Vienna del 16 marzo e del 22 luglio 1731).
Pochi mesi dopo, alla fine di ottobre di quell'anno, una flotta anglo-spagnola poté sbarcare a Livorno prima i 6.000 soldati, poi, il 27 dicembre, lo stesso infante, che aveva viaggiato per via di terra, con la sua corte, fino ad Antibes.
Per circa sedici anni il giovane principe era stato al centro della scena politica europea, semplice oggetto della storia che lo riguardava. Venendo in Italia, egli si trovava a dover interpretare in prima persona il personaggio che l'amor materno aveva voluto, e non si può dire fosse preparato a svolgere quel compito. La tradizionale educazione imposta dalla corte spagnola agl'infanti non era tale da risvegliare vivacità intellettuale, intraprendenza e piacere delle novità in chi era sottoposto a quella cura. Timore-amor di Dio e dei padres, innanzi tutto; poco studio, e comunque all'antica; assoluta castigatezza dei costumi; gelosa, quasi fanatica considerazione della propria dignità e della funzione, a cui ogni personale iniziativa doveva essere posposta, ogni altrui pretesa doveva essere sacrificata in obbedienza ad aviti rituali, a minuziosi cerimoniali. Secondo gli usi, C. era stato affidato, fino al compimento del settimo anno, alle cure di un'aya, e poi a quelle di un'intera corte di vecchi nobili, diretti da un ayo di sicura fede: al momento della partenza per l'Italia, il conte di Santisteban del Puerto, José Manuel de Benavides y Aragón, che aveva tutti i pregi, ma anche tutti i difetti, di un hidalgo spagnolo all'antica.
Certo è che l'infante, accompagnato da un'enorme notorietà, circondato da una aureola di straordinario prestigio e potere, apparve in Italia timido, impacciato, represso, incapace di dire tre parole in italiano, schiavo del personaggio ch'era costretto a interpretare, e che autorevoli custodi guidavano e amministravano rigidamente, in base a direttive tanto rispettose delle forme, quanto prive di sostanziale riguardo per i seri problemi di maturazione intellettuale e di equilibrio psicologico del giovane principe. Specialmente di questi ultimi invece C., dotato di solido intuito, ed edotto dai precedenti paterni e fraterni, a ragione si preoccupava. E furono quei problemi e timori a determinare il suo bisogno di vita all'aria aperta e la sua passione, che parve mania, per la caccia, un'attività non sconveniente alla figura marziale e tradizionale di un principe, adatta a soddisfare (e, al tempo stesso, a curare) la sua malinconia, utile a liberare le sue giovanili e forti energie fisiche. Ma, innanzitutto, lo spirito tormentato e introverso di C. trovava appagamento ed equilibrio nella profonda esigenza di un ordine morale, in una religiosità sincera, anche se spesso espressa in forme di culto assai semplici e non prive d'ingenuità. Di questi atteggiamenti e stati d'animo son testimonianza fedele molte centinaia di lettere ch'egli scrisse, fin da bambino, alla madre, piene di espressioni della più sottomessa e passiva devozione filiale, e d'invocazioni, ripetute con pari monotona insistenza, "à Dieu, à la Vierge et à S. Antoine". Lettere il cui tono assunse vivacità e calore solo quando incominciò a porsi concretamente il problema (non più soltanto politico, ma personale) della scelta di una compagna.
L'arrivo degli Spagnoli in Toscana chiuse una fase diplomatica ma ne aprì un'altra non meno difficile e incerta. La posizione dell'infante, posto formalmente sotto la sovranità imperiale, appariva tutt'altro che consolidata e sicura. Carlo VI si mostrava contrario a fornire l'unica garanzia che avrebbe rassicurato la regina di Spagna, il matrimonio con un'arciduchessa, sia pure diversa dalla primogenita. Per esperienza recentemente acquisita, il pacifismo ad oltranza del cardinal Fleury non consentiva sperare in un valido appoggio francese. In questi frangenti Elisabetta Farnese mostrò ancora una volta grande decisione: un forte esercito fu posto sul piede di guerra, facendo temere uno sbarco in Sardegna, e fu inviato (giugno 1732) alla riconquista di Orano; C. e la sua corte, in base ad istruzioni spagnole, si comportarono ostentando la più completa e provocatoria indipendenza dall'Impero; a Firenze, il 24 giugno 1732, in occasione della festa di s. Giovanni Battista, il rituale giuramento di omaggio e obbedienza al granduca da parte di tutte le comunità della Toscana fu ricevuto dall'infante di Spagna non solo come rappresentante di Giangastone, assente, ma in nome proprio e senza alcun cenno alla necessaria investitura imperiale; quattro mesi più tardi C. (che si faceva chiamare Gran Principe di Toscana), ignorando il divieto di Vienna, si recò a prender possesso diretto dei ducati di Parma e di Piacenza, già governati per lui dalla duchessa Dorotea, sua nonna materna e tutrice. L'intervento inglese valse a calmare ancora l'indignazione di Carlo VI: ma in questo modo non si usciva da una situazione di stallo. I reciproci sospetti fra le maggiori potenze impedivano si realizzassero schieramenti omogenei,e quindi iniziative atte a superare i molti equivoci su cui riposava la pace in Europa. Serie difficoltà vennero inoltre, a partire dall'estate del 1732, alla politica spagnola dal grave peggioramento della salute di Filippo V, crisi che lo avrebbe portato, nei mesi seguenti, ai limiti della follia.
A questo punto un avvenimento imprevedibile costrinse la Francia ad uscire dal suo pacifismo e dal suo isolamento: il 1º febbr. 1733, la morte del re di Polonia Augusto II risvegliò l'antagonismo fra Stanislao Leszczyński (la cui figlia, aveva sposato nel 1725 Luigi XV) e la casa sassone regnante, il cui erede, il futuro Augusto III, era sostenuto dall'Impero, dalla Russia e dalla Prussia. Quando i nobili polacchi elessero il candidato sostenuto dalla Francia, il rifiuto asburgico di riconoscerlo come re decise l'intervento dei Francesi a difesa dell'onore della loro regina. Si realizzava così per C. l'attesa occasione di consolidare e ampliare i propri possedimenti italiani. Interessava infatti anche alla Francia sviluppare la guerra nello scacchiere meridionale, per tenerla lontana dai Paesi Bassi e non coinvolgere gli Anglo-olandesi.
Un problema preliminare si poneva alla diplomazia francese: contenere e regolare le pretese spagnole, in modo da poterle conciliare con quelle altrettanto ingorde e pressanti del re di Sardegna. Questi chiedeva per sé tutto lo Stato di Milano; la Spagna i regni di Napoli e di Sicilia e d'ingrandire a nord i ducati di Parma e Piacenza, affmché i confini dei possedimenti di C. fossero protetti dalla piazzaforte di Mantova, chiave strategica della pianura padana. Sull'esistenza di questo grave contrasto d'interessi contò anche troppo la diplomazia viennese, certa che il re di Sardegna in nessun caso avrebbe contribuito all'incremento dei possedimenti spagnoli in Italia: perciò l'Impero si fece cogliere dagli avvenimenti quasi completamente impreparato, e comunque incapace di difendere validamente i suoi Stati italiani. La Francia riuscì invece a superare l'ostacolo diplomatico ricorrendo a una soluzione ambigua: stipulò un trattato con Carlo Emanuele III (Torino, 26 sett. 1733) e poco dopo un altro, che segretamente lo contraddiceva in gran parte, con Filippo V (Escorial, 7 novembre).
Altro rimedio non s'era potuto trovare alle inaccettabili richieste di Elisabetta Farnese, che pretendeva, tra l'altro, il supremo comando dell'esercito per Carlo. Tuttavia l'indiretto ed equivoco accordo fra i due principi sulla spartizione dei possedimenti imperiali d'Italia lasciava spazio ai maggiori sospetti e costituiva una pessima base diplomatica per la guerra imminente. Il re sardo, che alla fine di ottobre del 1733 era entrato nello Stato di Milano, trovandolo praticamente indifeso, mostrò ben presto di voler realizzare le sue conquiste senza indebolire troppo l'esercito nemico, di cui temeva meno che di quello alleato. Tale comportamento apparve chiaro agli inizi di dicembre, quando, in occasione della resa di Pizzighettone, Carlo Emanuele consentì alla guarnigione della piazzaforte di ritirarsi indisturbata a Mantova. Da parte sua la Spagna venne meno all'impegno di partecipare alla guerra nella pianura padana e, senza neppure preavvisare i suoi alleati, fece abbandonare le posizioni sul Po e fece subito marciare il suo esercito (sbarcato a La Spezia e a Livorno, e comandato dal duca di Montemar e da C.) alla conquista di Napoli.
La partenza dell'infante da Parma verso Firenze e poi verso il sud avvenne il 4 febbr. 1734 e fu subito seguita da un primo spoglio degli archivi e delle suppellettili dei Farnese, inviate per il momento a Genova: i ducati furono abbandonati alla difesa di un'esigua guarnigione, e all'insicura copertura dell'esercito franco-sardo.
La marcia attraverso la Toscana e lo Stato pontificio avvenne senza altre difficoltà che le grandi diserzioni. L'esercito, al momento dell'ingresso nei confini del Regno, il 28 marzo, era forte di 4.500 ottimi cavalieri e di 12.000 modesti fanti, avendo perduto per via 6.000 uomini. Il nemico aveva un'armata male attrezzata, ma, dal punto di vista numerico, di poco inferiore: tale disparità divenne però decisiva poiché una parte delle truppe imperiali era ancora in viaggio da Trieste, ed il comando poté disporne troppo tardi, quando già era fallito il programma iniziale di difendersi ai confini, 5.000 fanti si avviavano a chiudersi nella piazzaforte di Capua, e il resto dell'esercito si ritirava verso il sud. Ulteriore segno della superiorità spagnola fu la presenza nel golfo di Napoli di una grande flotta, che, disponendo di un'assoluta padronanza del mare, minacciava le coste e faceva temere uno sbarco alle spalle della prima linea. La via per la capitale fu pertanto aperta quasi senza colpo ferire, e C., dopo aver atteso in Aversa l'assedio e la rapida resa dei castelli napoletani, Poté entrare il 10 maggio in Napoli, accolto da una popolazione esultante. Gli sviluppi delle operazioni militari consolidarono tale favorevole inizio. Gli Imperiali, demoralizzati e divisi, si ritirarono in Puglia e furono duramente battuti il 24 maggio a Bitonto. La Sicilia si trovò praticamente indifesa e fu facile conquista dell'esercito di Montemar. Il 3 luglio 1735 C. fu incoronato nella cattedrale di Palermo re di Napoli e di Sicilia.
La situazione politica dei due regni era stata caratterizzata negli ultimi decenni da due fenomeni a prima vista opposti: da un lato si era verificata una forte dinamica sociale, che aveva rafforzato il ceto civile e l'amministrazione locale a danno delle altre componenti, ed in particolare della nobiltà e degli ecclesiastici; dall'altro lato, specialmente negli ultimi anni, a questo rafforzamento dell'amministrazione aveva corrisposto il suo profondo e generale discredito: i metodi del governo viennese avevano prodotto in tutti i ceti grande scontento, che veniva a confermare l'atavica e radicale sfiducia verso la gestione della cosa pubblica. Il primo dei due fenomeni, l'ascesa politica del ministero, proveniva da un metodo di governo già adottato dagli Spagnoli per tener divise le forze politico-sociali e per poterle così più facilmente dominare: tale indirizzo trovò, durante il viceregno asburgico, precise rispondenze nella composita corte di Vienna, dove prevalevano, specialmente negli organismi dell'amministrazione italiana, i profughi catalani e spagnoli, personaggi socialmente sradicati e interessati a esaltare la loro funzione quale unico punto di forza economico e politico. Quanto fosse chiaro e irreversibile l'indicato orientamento della gestione viennese nei confronti della società meridionale apparve in termini dranunatici in occasione della guerra: secondo l'accusa di uno dei maggiori sostenitori del partito austriaco, Tiberio Carafa, principe di Chiusano, il governo di Carlo VI preferì perdere il Regno piuttosto che fidarsi dei baroni, disposti ad armare le loro squadre contro gli invasori, ma decisi a pretendere in cambio sostanziali vantaggi contro il ministero in carica.
Durante la dominazione asburgica l'amministrazione locale napoletana s'era venuta a trovare, pertanto, in una situazione eccezionalmente favorevole dal punto di vista politico: ma l'esoso fiscalismo viennese le aveva impedito di raccoglierne i frutti. L'andamento fallimentare della gestione finanziaria dell'Impero era un fatto arcinoto in Europa: venire incontro alle insaziabili esigenze di quel bilancio era stato uno strumento di politica internazionale adoperato da Elisabetta Farnese durante le trattative per l'introduzione di C. in Italia e normalmente utilizzato dall'Inghilterra. La politica fiscale tanto vessatoria, quanto impaziente e disordinata che il governo di Vienna era stato perciò costretto a condurre nei due regni aveva tolto ogni credito alle sue stesse iniziative economiche e politiche, spesso non prive di dinamismo e di intelligenza nella progettazione, e aveva decisamente compromesso un prestigio che la pessima preparazione e conduzione della guerra contro i Franco-sardo-spagnoli travolse definitivamente presso le popolazioni meridionali.Fu questo complesso di tensioni e di spinte a determinare i caratteri della grande svolta storica rappresentata dall'avvento di C. sul trono. Le speranze di rivalsa nutrite sia dai nobili sia dagli ecclesiastici, la preoccupata attesa del ministero togato (che temeva una radicale riforma dell'apparato amministrativo e dei quadri della magistratura) nacquero e si mossero in un clima di generale fiducia nelle possibilità finanziarie del giovane principe, ch'era accompagnato da una fama di grandezza e di ricchezza. L'eccezionale dispiegamento di mezzi bellici e la promessa (solennemente promulgata da C. il 14 marzo 1734) di abolire tutti i pesi fiscali imposti dagli Austriaci confermarono quelle attese: appariva comunque certo che i due regni venivano ora a trovarsi sotto un governo "nazionale", con un re e una corte residenti in loco e tali quindi da volere e consentire la difesa e lo sviluppo dei commerci, della navigazione, della produzione e della moneta locali, secondo i canoni della politica mercantilistica, accettati in quegli anni con assoluta fiducia.
Dal punto di vista economico, le prime troppo rosee speranze caddero presto. Già alla fine del 1734 il trasferimento dell'esercito e della corte verso il sud, alla conquista della Sicilia, impose grandi spese per il rifacimento delle strade e dei ponti della Calabria: fu necessario integrare i fondi provenienti dalla Spagna con consistenti prelievi di danaro dalle banche napoletane; l'incauta promessa di condono fiscale fu annullata. Negli anni seguenti l'opera di ricostruzione del Regno comportò un forte impegno finanziario: fu posta in cantiere ex novo la flotta, che era andata completamente perduta, e costituiva strumento d'importanza vitale per la lotta alla dilagante pirateria e per la protezione del commercio; grandi opere pubbliche furono iniziate, rese indispensabili e urgenti dallo stato di totale abbandono in cui si trovavano la maggior parte dei beni della Corona e i pubblici servizi, dai regi palazzi di Napoli e di Palermo alle strutture portuali, dall'arsenale agli ospedali militari, dalla sede dell'università degli studi di Napoli alle fortificazioni di tutto il Regno. E da aggiungere che la politica di conciliazione fra i ceti e di magnanimità voluta da C. impedì si realizzassero gli eccezionali proventi che l'erario avrebbe potuto conseguire dalla confisca dei beni, degli uffici e delle rendite dello Stato alienate a basso prezzo negli ultimi tempi dagli Austriaci. Le finanze spagnole, impegnate nella guerra che proseguiva nella pianura padana, non erano certamente disponibili per opere di pace, nonostante la generosa e del tutto nuova disposizione e sollecitudine della corte di Madrid verso i due regni meridionali.
In definitiva venne a mancare il capitale di partenza indispensabile per realizzare la maggiore e più ambiziosa delle speranze che l'avvento di C. aveva fatto nascere e che alcuni intellettuali napoletani avevano indicato esattamente: la riforma e il riordinamento del sistema finanziario e fiscale, da secoli abbandonato al caos più completo; ossia il programma di sottrarre ai privati la gestione delle pubbliche entrate, di ridurre l'enorme indebitamento dello Stato, di distribuire equamente i pesi fiscali dopo aver realizzato un generale catasto, di ricomprare ed evitare la vendita degli uffici giurisdizionali e di tutti quelli che davano adito a ruberie ed estorsioni, di alleviare il carico daziario che paralizzava il commercio e frenava le esportazioni. Lo strumento fiscale a cui per secoli si era fatto ricorso, la creazione di nuove gabelle e la loro immediata alienazione ai privati per ricavarne il capitale, costituì il rimedio che si fu costretti ad adoperare ancora. Il sistema economico rimase pertanto nella sua struttura immutato, e i ceti, i gruppi, i personaggi che ne avevano acquisito le chiavi e che dal meccanismo parassitario e involutivo traevano vantaggio le conservarono nelle loro mani; ad essi si aggiunsero alcuni cortigiani del seguito di C., che si affrettarono ad acquistare uffici e rendite proprie del sistema tardofeudale e favorirono così la piena integrazione della nuova corte nell'ordine tradizionale.
Il clima di euforia per l'indipendenza ritrovata e l'iniziale sbandamento delle forze privilegiate impedirono si avvertisse subito il peso determinante, anche dal punto di vista politico, di questo fallimento. Contribuì al perdurare delle speranze il forte e prolungato rilancio dell'economia, dovuto sia alle grandi spese pubbliche, militari, civili e della corte, sia all'interesse assai spiccato che il governo e lo stesso C. mostrarono per l'espansione del commercio con l'estero, per l'incremento delle manifatture locali in ogni campo, per la creazione e introduzione di nuove lavorazioni, mediante il richiamo, con vari allettamenti, di tecnici ed artigiani da ogni parte d'Europa. Tale impulso fu dovuto specialmente al segretario di Stato José di Montealegre, marchese (e poi duca) di Salas e perciò si rinnovò e accrebbe quando, fra il 1738 e il 1739, egli assunse i pieni poteri del governo. Tuttavia la mancata riforma del sistema fiscale, nella misura in cui lasciò nelle mani di chi aveva interesse alla conservazione dello status quo la formidabile arma della gestione privata di gran parte del sistema amministrativo, e finanziario dello Stato, riprodusse il rapporto di sostanziale dipendenza dell'autorità centrale dagli antichi centri di potere; dipendenza che la energica politica del primo decennio nascose e in parte attenuò, ma che riapparve evidente quando, fra il 1742 e il 1745, gravi avvenimenti internazionali e interni indebolirono il governo e nello stesso tempo gli imposero di chiedere al paese eccezionali e onerosissime contribuzioni.
La felice stagione del riformismo carolino fu pertanto di breve durata; pur costituendo un'occasione mancata rispetto alle speranze che l'avevano vista nascere, realizzò tuttavia risultati molto significativi e non tutti effimeri. I collaboratori di C. mostrarono subito di voler seguire metodi di governo diversi da quelli del viceregno, ossia diretti a imporre una gestione centralizzata e relativamente indifferente alle spinte e agli equilibri tradizionali. In primo luogo la nobiltà, che aveva richiesto a gran voce una generale epurazione del ministero togato, non l'ottenne: vari provvedimenti diretti a limitare gli abusi della giurisdizione feudale colpirono il baronaggio fra il 1738 e il 1744. D'altra parte, se i quadri dell'amministrazione furono ripristinati con moderate varianti, essa nel complesso perdette molte delle sue funzioni, dei suoi poteri, della sua autonomia rispetto agli organi di governo istituiti da C. (le segreterie di Stato e di Giustizia, la sopraintendenza di Azienda, il Consiglio di Stato), in grado; ora di seguire direttamente e da vicino i pubblici affari. Più tardi, nel 1737, le segreterie furono portate da due a quattro (Esteri e Casa reale, Giustizia, Azienda, Ecclesiastico) e anche più chiaramente si delineò il tentativo di sottrarre il potere politico agli organi giurisdizionali. Vero è che la Regia Camera di S. Chiara, sostituendo l'abolito Collaterale, ne ereditò funzioni e prestigio: ma durante il primo decennio del regno di C. ai consiglieri furono tolte le molte delegazioni che avevano i reggenti, e che non solo fornivano loro lauti proventi, ma costituivano un istituzionale, diretto collegamento fra potere economico, giurisdizionale e amministrativo.
Quanto agli ecclesiastici, che si fondavano anche sull'atteggiamento personale inequivocabilmente pio del re, la loro delusione fu ancora più dura. Il segretario di Giustizia Tanucci, dotato di una preparazione assai simile a quella dei giurisdizionalisti meridionali che avevano orientato la politica del viceregno asburgico, fece subito sentire di voler proseguire, in maniera anche più coraggiosa e conseguente, nella stessa direzione. I primi anni del regno di C. furono caratterizzati perciò da durissimi contrasti fra Stato e Chiesa, dovuti innanzi tutto a motivi di politica interna (questioni di inimunità e di giurisdizione), complicati però da una vertenza internazionale che indeboliva le posizioni napoletane e offriva al partito romano un efficace strumento: il rifiuto del papa di dare, con l'investitura, il riconoscimento ufficiale della nuova dinastia. Nella primavera del 1736 una serie di gravi abusi commessi a Roma dagli arruolatori napoletani e la violenta reazione popolare portarono la tensione fra i due Stati a un punto di rottura: ne seguirono l'espulsione del nunzio da Napoli e duri provvedimenti militari presi contro le popolazioni laziali dalle truppe spagnole di stanza nello Stato pontificio. I problemi internazionali fra i due Stati furono risolti nell'inverno del 1738, quando si conclusero le trattative sull'investitura e il papa dette alla promessa sposa di C., Maria Amalia di Sassonia, figlia non ancora quattordicenne del re di Polonia Augusto III, la dispensa per il matrimonio: ma il contrasto sugli aspetti politici e giurisdizionali rimase vivo, e i tentativi di concordato, nonostante il forte impegno del governo di C., non conseguirono alcun risultato fino alla morte di Clemente XII: ebbero successo nel 1741, per effetto del nuovo clima creato dal pontificato di Benedetto XIV.
A questa intensa e complessa attività di governo, non si può dire che C. abbia dato un contributo decisivo durante il primo decennio. Fin dall'inizio del suo regno la vita politica della corte fu infatti dominata dalla sorda contesa fra il conte di Santisteban, aio e maggiordomo maggiore, e il segretario di Stato Montealegre, un uomo intellettualmente molto dotato, intraprendente, ambizioso, spregiudicato. L'aspetto più interessante della vicenda personale di C., quale re, in questo periodo è nei suoi tentativi - all'inizio appena percettibili, poi via via meno timidi - di affermare la propria volontà di fronte ai suoi più diretti collaboratori. Essi, interpreti delle direttive del governo di Madrid, che li nominava e orientava attraverso la corrispondenza politica ufficiale, si avvalevano dell'autorità del re di Spagna per tenere C. in una posizione di sostanziale tutela. Ciò fu, all'inizio, conseguenza naturale della presenza presso di lui del suo aio, ed ebbe l'effetto d'instaurare nella corte napoletana un sistema di governo accentrato e personale, che si protrasse anche dopo il ritorno in Spagna (estate 1738) del conte di Santisteban. Montealegre si trovò, tuttavia, in una situazione assai meno favorevole del predecessore: da un lato, infatti, C., divenuto più maturo e cosciente della responsabilità di marito e di padre, e appoggiato dalla regina, si mostrava sempre più deciso a far prevalere la propria volontà; dall'altro, una forte opposizione interna, mossa specialmente dagli ecclesiastici e dai nobili, era diretta inparticolare contro il segretario di Stato, ritenuto responsabile delle riforme; egli non poteva contare, in definitiva, che sull'appoggio spagnolo.
Di questi contrasti nella direzione del governo si avvalsero le forze tradizionali per imporre l'abbandono delle iniziative montealegrine: ma contemporaneamente altre ben più gravi difficoltà portarono a quel fallimento. Alla morte di Carlo VI (20 ott. 1740) i re di Spagna, già in guerra contro l'Inghilterra, videro la possibilità di partecipare alla spartizione dell'Impero riconquistando per Filippo, fratello minore di C., lo Stato di Milano o almeno la Toscana, che il trattato di Vienna, seguito alla guerra di successione polacca, aveva assegnato a Francesco di Lorena, sposo di Maria Teresa d'Asburgo. In Spagna si sperava cheFilippo, avendo sposato una figlia di Luigi XV, potesse contare su un attivo intervento francese: si sottovalutarono la vocazione pacifistica di Fleury e la sua influenza sul re cristianissimo.
Un appoggio pieno e generoso venne invece da C. che, fedele alla sua linea di lealtà e di assoluta devozione verso i padres, si mostrò fin dall'inizio dispostissimo a partecipare a un conflitto, da cui non avrebbe potuto trarre alcun personale vantaggio, e di cui fece subito le spese. La guerra, e già prima l'esigenza di guadagnare la Francia alla causa spagnola e di mantenersi in pace con gli Inglesi, imposero al governo napoletano di sacrificare la sua politica di espansione del commercio internazionale. A partire dalla primavera del 1741 le spese militari travolsero ogni programma di sana gestione economica: i due regni meridionali si trovarono a dover nello stesso tempo sovvenzionare un loro esercito, posto in Abruzzo e nello Stato dei Presidi di Toscana, e fornire il vettovagliamento a un corpo di spedizione spagnolo, sbarcato a Orbetello nel dicembre di quell'anno e mancante di tutto il necessario per avviarsi alle conquiste indicate dalla regina di Spagna. La flotta inglese, infatti, impediva ogni rifornimento via mare e sorvegliava minacciosamente i movimenti dell'infante Filippo, che aspettava (prima ad Antibes, poi in Provenza, poi nella Savoia), l'intervento francese per attraversare le Alpi verso il Piemonte.
Il 1742 e il 1743 furono gli anni più difficili del regno napoletano di C., così come furono uno dei periodi più tristi per la politica francese e, di riflesso, per quella spagnola. Le incertezze e l'inerzia dell'ormai decrepito cardinal Fleury davano coraggio ai nemici dei tre regni borbonici. Il più debole di essi corse il rischio di essere travolto da quegli errori: una flotta inglese venne il 19 ag. 1742 nel golfo di Napoli e impose a C. di ritirare le sue truppe dallo Stato pontificio e di mantenersi neutrale. Il concreto pericolo che il bombardamento della capitale, minacciato dagli Inglesi, preludesse a una sollevazione popolare, preparata dagli agenti austriaci, e la considerazione che l'esercito napoletano stava in effetti già ripiegando verso i confini convinsero il re a cedere: ma l'onta di esservi stato costretto fece nascere in lui un odio contro gli Inglesi che durò anche dopo il suo ritorno in Spagna.
L'armata, decimata dalle diserzioni e ridotta in pietose condizioni dopo la sfortunata campagna, servì ben presto a difendere il Regno da un pericolo anche più serio: la peste, che, scoppiata a Messina nel marzo 1743, e diffusasi in Calabria, impose l'istituzione di un duplice cordone sanitario, rovinò quanto sopravviveva del commercio internazionale, assorbì le ultime risorse finanziarie del paese.
Agli inizi del 1743, la morte del cardinal Fleury preluse a una schiarita dal punto di vista internazionale: il 25 ottobre, a Fontainebleau, i plenipotenziari di Filippo V e di Luigi XV sottoscrissero un "Patto di famiglia", che sanciva il tanto atteso intervento francese in Italia, per aiutare l'infante Filippo a conquistarsi un regno. L'articolo 14 del trattato prevedeva la neutralità di C.: ma egli il 25 marzo 1744 si pose alla testa del suo esercito, dispendiosamente e faticosamente ricostruito, e avanzò oltre i confini, per unirsi al corpo di spedizione spagnolo, che ripiegava verso il Regno. Poiché si temeva una incursione inglese dal mare, la regina fu inviata nella ben munita piazzaforte di Gaeta. In Velletri i Napoli-ispani di C. rimasero a lungo di fronte agli Austriaci, in attesa che i Gallo-ispani di Filippo risolvessero la campagna. Un tentativo di sorprendere e catturare il re nella cittadina laziale determinò lo scontro decisivo (11 ag. 1744), che si concluse a favore dei borbonici, ma con gravi perdite di materiali e cavalli, e perciò con un'altra dura scossa al più che dissestato bilancio del Regno.
La battaglia di Velletri, la ritirata degli Austriaci verso il nord, i successi militari conseguiti in Italia dagli Spagnoli nel 1745 allontanarono per il momento il pericolo dai confini napoletani, delusero profondamente i sostenitori del partito asburgico, rafforzarono la nuova dinastia nel Meridione d'Italia; ma i dissesti della guerra e della peste cancellarono o insabbiarono tutte le iniziative montealegrine, uno dei più intelligenti e organici tentativi di rinnovamento e di riforma che la storia del Regno abbia conosciuto, e in cui si espressero le migliori energie della cultura preilluministica meridionale è della generazione giannoniana: il catasto, la codificazione carolina, i nuovi limiti e controlli sulla giurisdizione feudale, la riforma delle delegazioni, l'istituzione di una magistratura a rito rapido per il commercio specialmente con l'estero, gli accordi compiuti o in via di perfezionamento con le reigenze nordafricane per impedire la pirateria, tutto fu travolto dalla crisi. Suo ultimo segno fu, alla fine del 1746, l'espulsione degli ebrei, che sette anni prima, per incrementare il commercio, erano stati invitati a venire nei due regni con molte private lusinghe e numerose pubbliche promesse, solennemente garantite dalla parola del re. Dominavano a Napoli il partito dell'arcivescovo e della regina, e nella corte i confessori e i bigotti. I loro poveri argomenti assurgevano a ragioni di Stato. Accusa decisiva contro gli ebrei e contro Montealegre fu il fatto che Maria Amalia non riusciva ad aver figli né sani né maschi; il 24 nov. 1745 nacque la quinta figlia femmina.
La svolta decisiva del regno italiano di C. si verificò nella seconda metà del 1746. La battaglia di Piacenza (15 giugno) determinò la sconfitta dell'esercito gallo-ispano, che si ritirò in Provenza, lasciando il Regno di nuovo in pericolo. La morte di Filippo V, avvenuta improvvisamente il 9 luglio, estromise dagli affari Elisabetta Farnese e portò al trono di Spagna il debole, ipocondriaco Ferdinando VI, in quei mesi abbastanza sano, ma che si sapeva esser malato come il padre e tanto pacifico quanto l'avo era amante della guerra. Cresceva a Madrid, tramite la regina Barbara di Braganza, figlia del re del Portogallo, l'influenza inglese, mentre l'accordo franco-ispano vacillava. A Napoli Montealegre - i cui rapporti con il re e specialmente con la regina erano divenuti, a partire dal 1741, sempre più tesi - fu deposto agli inizi di giugno del 1746, ma in base a una decisione presa circa un anno prima: fu sostituito dal modestissimo Giovanni Fogliani d'Aragona, sostenuto dal partito della regina, e amico dell'arcivescovo di Napoli, Giuseppe Spinelli.
Questi ritenne fosse arrivato il momento di cogliere i frutti della sua politica personale, manifestando in pieno il suo potere: alla fine dell'anno fece celebrare pubblicamente e con audace solennità l'abiura di alcuni inquisiti, secondo il rito del S. Uffizio. Fu una mossa sbagliata, che fornì l'arma vincente ai suoi avversari: l'Inquisizione era infatti odiatissima a Napoli da quello stesso clero che, potendo muovere le passioni del popolino, aveva sempre costituito l'ultimo e decisivo strumento della politica romana. Ma quella volta esso agì in senso opposto. La rivolta popolare mise in pericolo il governo, spaventò C., e costituì per lui un severo insegnamento. Cessò allora il potere dell'arcivescovo, che mai più ottenne la fiducia del re.
Nello stesso tempo C. imparò a resistere alla volontà di Maria Amalia, che conservò un forte ascendente sul marito, ma, nonostante l'apparenza remissiva di lui, non prevalse più nelle cose d'importanza.
La seconda metà del regno di C. non ebbe lo stesso risalto della prima, lo stesso andamento ricco di colpi di scena: fu tempo di pace, dedicato ad opere di pace. Dall'interno la monarchia, ormai consolidata, non temeva scosse, ma non sapeva darne, inserita com'era in un sistema che l'aveva assimilata, inglobata e, almeno in parte, dal punto di vista ideale, spenta. Il governo di C. dopo il 1746 appare una gestione d'ordinaria amministrazione, realizza una politica prammatica, del caso per caso, senza grandi idee, o ispirata a idee tradizionali, di vecchio stampo: troppo poco per un paese che aveva recentemente dimostrato e dimostrava di saper esprimere, con la nascente cultura illuministica, istanze intellettuali molto vive. Una politica, quella di C., tuttavia fedele agli ideali della giustizia, dell'onestà, della generosità, che mai prima di allora erano stati osservati a Napoli dai governi con altrettanto impegno e rigore. Vero è che il giovane re si trovò a dover affrontare, dopo il 1746, un compito estremamente difficile: ricostruire il regno, mentre ormai era stato speso e dissipato l'intero, patrimonio di speranze, di forze morali, che una generazione aveva posto a disposizione della monarchia e che una felice congiuntura aveva all'inizio esaltato.
Esaurite quelle energie, e in attesa che nel clima dell'illuminismo si formassero le nuove, il governo non era in grado di riacquistare lo slancio necessario per superare gli antichi e gravi problemi: la sua debolezza si era accentuata sia per la fine del regime "personale" il "visirato" (come lo si era chiamato), sia per l'interruzione del cordone ombelicale con la Spagna (e con le prepotenze della sua regina), sia per il progressivo inserimento delle forze e strutture locali in una corte che non era più quella scelta selezionata da Elisabetta Farnese, ma era quale si raccoglieva intorno ad un re, e specialmente a una regina, giovanissimi, del tutto inesperti e incapaci di guardarsi dalle piaggerie dei cortigiani corrotti e infedeli.
La storia dell'ultimo decennio del governo italiano di C. registra perciò, all'interno, pochi episodi significativi dal punto di vista politico e culturale (la condanna dei liberi muratori, la creazione della giunta per le ricompre, lo scavo delle antichità di Ercolano e l'inizio delle grandi pubblicazioni ad esse relative), e il proseguimento di un'intensa attività edilizia, diretta più alla costruzione di palazzi e siti reali (Capodimonte, Caserta) che a realizzazioni d'interesse generale (albergo dei poveri, strade, ampliamento dei porti, caserme); ma, innanzi tutto, il governo sviluppò un'assidua, minuta attività legislativa volta a contenere i privilegi ecclesiastici e a disciplinare la vita giudiziaria (negli ultimi anni anche contro il baronaggio), pur senza tentare riforme di rilievo. I caratteri e i contenuti di quest'opera posero in luce, già durante la gestione di Fogliani, lo statista che possedeva una specifica competenza giuridica e una più antica esperienza della corte napoletana: B. Tanucci.
Egli si rivelò, fra tutti i collaboratori che C. aveva avuto in Italia, il più vicino al modo di sentire del re, e rimase dall'inizio degli anni Cinquanta, per oltre due decenni, suo ascoltatissimo e fedelissimo consigliere e amico. Il rigore, l'intransigenza del segretario di Giustizia trovarono un riconoscimento piuttosto tardo nella solida moralità di C., ma ne ebbero un intimo, profondo e duraturo appoggio. La semplice arte del governatore del principe spagnolo si accompagnava facilmente a quella molto più colta, problematica e complessa dell'intellettuale toscano, che in definitiva, per antico scetticismo, rafforzato dalla conoscenza della società meridionale, preferiva, machiavellianamente, la politica dei fatti modesti, ma concreti, a quella delle grandi idee. Di qui le ambizioni limitate che ebbe la loro attività di governo. Da quell'incontro spirituale derivò che, opportunamente, al giurista fosse affidata, durante gli ultimi anni del regno italiano di C., la cura degli affari per lui più gelosi, delicati e inquietanti: la politica estera. Ciò avvenne, di fatto, già prima che Tanucci fosse chiamato a sostituire Fogliani (10 giugno 1755).
Dal trattato di Aquisgrana (3 ott. 1748), che aveva stabilito i termini della pace e sancito la nuova situazione di equilibrio in Europa, il re di Napoli era uscito non solo - secondo le previsioni - senza nulla guadagnare, ma con una grave ipoteca sul suo diritto di trasmettere i due regni alla propria discendenza. Il settimo articolo stabiliva infatti che, qualora C. fosse stato chiamato al trono di Spagna, al suo posto, su quello di Napoli e Sicilia, sarebbe subentrato il fratello Filippo, mentre i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, ossia tutto quanto questi aveva guadagnato dalla guerra, sarebbero stati divisi fra l'Austria e la Sardegna. In tal modo la Francia, che proteggeva Filippo, avrebbe ottenuto per lui un regno di maggior prestigio, l'Austria e la Sardegna avrebbero esteso i loro possedimenti e confini, e si sarebbe evitato che i legami fra le Sicilie e la Spagna, recentemente indeboliti, riacquistassero, in un futuro presumibilmente non lontano, l'antica solidità. Programma, dunque, su cui convergevano fortissimi interessi, e che il governo spagnolo non seppe contrastare. C. venne a trovarsi in una situazione di grave isolamento sia in politica estera sia all'interno, dove il partito spagnolo, attenuatisi decisamente i rapporti con la madrepatria, si reggeva su di lui e su pochi altri, contro la francofilia imperante nella corte. Ma le condizioni mentali di Ferdinando VI non fecero che peggiorare e le potenze europee, innanzi tutte l'Inghilterra e l'Austria, coinvolte in nuove e complesse vicende belliche, compresero quanto fosse inopportuno procurarsi l'ostilità del futuro re di Spagna, per conseguire modesti vantaggi. Si ebbe allora quel riavvicinamento fra i governi di Napoli e di Vienna, che caratterizzò per molti decenni la politica italiana. In seguito alla perdita della moglie (27 ag. 1758) Ferdinando VI uscì definitivamente di senno e morì un anno dopo (10 agosto). Gli successe C., che fu solo allora, e come re di Spagna, terzo, mentre non ebbe mai numero d'ordine come re di Napoli. Dei sei maschi che aveva avuto fra tredici figli, il primo, Filippo, fu dichiarato incapace a succedergli; il secondo divenne, dopo la sua morte, Carlo IV; al terzo, Ferdinando, di otto anni, C. trasmise, il 6 ott. 1759, poco prima d'imbarcarsi per la Spagna, il trono di Napoli e di Sicilia.
In Spagna, di fronte ai nuovi compiti, C. si confermò - nelle sue qualità e nei suoi limiti - l'uomo probo e severo che la realtà italiana, contraddittoria, ma viva e stimolante, aveva formato. Metodico, insofferente dei cambiamenti e costante negli affetti, il re, pur affermando subito e con nuova energia, anche nei confronti della madre, la sua volontà di decidere personalmente su tutto, conservò sostanzialmente inunutate la struttura e la composizione del governo e della corte, vi introdusse in alcuni punti chiave vecchi amici e collaboratori, e li sostenne e difese contro l'ambiente locale, ad essi ostile. Condusse con sé dall'Italia ed ebbe a lungo come consigliere personale il duca di Losada, José Fernández de Miranda, suo amico fin dall'infanzia; affidò l'amministrazione finanziaria al messinese Leopoldo de Gregorio, che aveva a Napoli creato dal nulla segretario d'Azienda e duca di Squillace; nel febbraio del 1764 chiamò il genovese Girolamo Grimaldi, marchese di Grimaldi, a sostituire Riccardo Wall nella direzione della politica estera. Ma più di C., fu Maria Amalia a mostrarsi anche troppo legata alla sua corte napoletana, e specialmente alla duchessa di Castropignano, che trovò il modo di far sentire anche a Madrid la sua negativa influenza sul governo, ed offrì seri motivi all'esterofobia degli Spagnoli. Perciò la morte della regina, avvenuta appena un anno dopo la sua partenza da Napoli, rese più cupo, ma anche più coerente e produttivo, l'impegno morale e politico del re.
Impegno che si rivelò molto presto estremamente oneroso e travagliatissimo. Nei rapporti fra Stato e Chiesa C. aveva imparato dall'ambiente culturale napoletano e dalla lunga collaborazione con Tanucci a distinguere nettamente le questioni di fede da quelle di giurisdizione e di diritto. Non fu certo un caso che il "partito" degl'Italiani venisse a confluire con quello dei golillas, ossia dei robins, ministero e gente di toga: costoro, raccolti intorno al Consiglio di Castiglia, esprimevano l'ideologia regalistica, giurisdizionalistica, giansenisteggiante e antigesuitica, comune ai robins di tutta l'Europa. Squillace infatti obbligò subito gli ecclesiastici a pagare le imposte, ridusse il potere della loro giurisdizione, proibi la residenza in Madrid dei chierici che non potessero dimostrare di avere una precisa occupazione; contemporaneamente dette un forte impulso alle opere pubbliche dirette a migliorare l'aspetto della capitale. Tali iniziative di spesa ed il tratto d'indulgenza e di doviziosa e non sempre oculata generosità verso postulanti e creditori che caratterizzava il comportamento di C. richiesero di badare con particolare attenzione agli affari d'Azienda, punto dolente di tutte le gestioni statuali del tempo, e imposero alla popolazione imprevisti sacrifici. A ciò si aggiunse l'idea di Squillace di poter realizzare, secondo i canoni recenti del dispotismo illuminato e dello Stato di benessere, una regolamentazione e disciplina giuridica minuziosa delle operazioni economiche. L'insofferenza popolare per norme che venivano a sconvolgere antiche tradizioni e le voci sul malcostume degli Italiani (e specialmente delle Italiane) offrirono al partito avverso alle riforme solidi punti di appoggio per bloccare quella politica: si fece leva sul sentimento e sui costumi nazionali, feriti da un governo dominato da stranieri corrotti. La carestia, che colpì tra il 1764 e il 1766 tutta l'Europa, favorì l'insorgere di una sommossa che, scoppiata il 2-3 marzo 1766 a Madrid, si diffuse in gran parte della Spagna. Ma al nascere "spontaneo" di quella reazione non fu estraneo il denaro dei gesuiti. Essi avevano perduto, durante il regno di Ferdinando VI, con il tramonto di Elisabetta Farnese e con l'allontanamento del marchese de l'Ensenada dal governo, tutta la loro influenza politica sulla corte, e speravano riacquistarla con l'avvento del nuovo re, che conoscevano piissimo: il successo del "partito" degli Italiani e dei golillas fece cadere ogni loro illusione e li costrinse a passi che favorirono, poco più tardi, la loro radicale rovina.
La personalità di C. uscì lesa dal "motin d'Esquilache": il re prima cedette alla rivolta popolare promettendo di accoglierne le richieste; poi si allontanò nottetempo da Madrid per mettersi in salvo ad Aranjuez e fece pensare volesse usare la maniera forte; infine si adattò a compiere ciò che Elisabetta Farnese definì "una vigliaccheria": ordinò l'allontanamento del suo fedele ministro e amico dal governo e dalla Spagna. In sostanza, tuttavia, con la nomina dell'energico conte di Aranda, Pedro Pablo de Abarca y Bolea, a presidente del Consiglio di Castiglia, la politica intrapresa dal marchese di Squillace fu mantenuta e proseguita; si preparò, inoltre (mediante l'opera del fiscale del Consiglio Pedro Ruiz Campomanes) il processo segreto contro i gesuiti, che portò, il 2 aprile del 1767, alla loro espulsione dalla Spagna, e in seguito da Napoli e da Parma.
L'umiliazione per l'esilio forzato di Squillace non fa né la prima, né l'ultima che C. ebbe a subire dopo il suo arrivo in Spagna: la politica estera gli riservò le più dolorose delusioni. L'alleanza anglo-prussiana già trionfava sulla Francia quando, sul cadere del 1761, la Spagna, temendo di venirsi a trovare più tardi isolata contro l'Inghilterra, si lasciò coinvolgere nel conflitto. Il patto franco-ispano di famiglia - visto da Tanucci, per antica diffidenza verso la Francia, con sospetto - impose l'invasione del Portogallo, che aveva rifiutato chiudere i suoi porti agl'Inglesi. Fu una campagna né decisiva, né fortunata: ma sul mare il nemico, disponendo di una forza almeno tripla rispetto a quella spagnola, vinse ancora una volta. La Spagna perdette alcune delle sue colonie d'oltre oceano e si salvò da una maggior rovina con la pace di Parigi (10 febbr. 1763), che pose termine alla guerra dei Sette anni.
Sorte altrettanto infelice ebbe, qualche anno più tardi, e contro lo stesso nemico, la controversia per il possesso delle isole Falkland o, secondo gli Spagnoli, Malvine. Il patto di famiglia questa volta non agì, e C., abbandonato dai suoi alleati, fu costretto di nuovo (1771) a cedere di fronte all'Inghilterra. Anche meno brillante fu la terza impresa bellica di quegli anni: la spedizione contro Algeri, il nido di pirati che già a Napoli C. aveva imparato a considerare un'offesa non solo al commercio spagnolo e italiano, ma alla Cristianità. Il corpo di spedizione, sbarcato presso Algeri l'8 luglio 1775, fu ricacciato in mare e non poté far altro che reimbarcarsi e ritirarsi in Spagna. Solo dopo altri due analoghi fallimenti C. riuscì, nel 11785, a imporre la pace all'agguerrita piazzaforte mediterranea.
La rivolta antinglese dei coloni nordamericani e l'appoggio ad essi subito fornito dalla Francia offrirono a C. l'occasione per una seconda guerra contro la grande potenza marittima. La Spagna, interessata a non indebolire i suoi possedimenti coloniali in America, si trovava, rispetto al suo alleato francese, in una posizione più difficile; perciò si limi ad offrire ai ribelli, fin dal 1775, generosi aiuti economici. Tuttavia, con l'ultimatum del 12 apr. 1779, anche gli Spagnoli passarono dai soccorsi segreti al conflitto armato. Non è possibile riassumere in breve la complessa vicenda bellica, che fu combattuta su molti e lontanissimi fronti: in Europa C. non riuscì a conseguire, nonostante il forte e lungo impegno militare, l'obiettivo a cui principalmente aspirava: la conquista di Gibilterra. Ebbe invece esito felice, nell'estate del 1781, lo sbarco franco-ispano a Minorca, e anche perciò non fu fallimentare per C. il bilancio di quest'ultimo scontro con il suo tradizionale nemico.
C. morì nel monastero dell'Escorial il 14 dic. 1788.
La sua personale, costante presenza negli affari di Stato, l'alto e indiscutibile rigore morale che caratterizzò la sua figura dettero a C. una fama che spesso i risultati della sua gestione politica sembrerebbero contraddire: certo è ch'egli contribuì a rinnovare e a rafforzare durevolmente il prestigio della monarchia nel suo paese, tanto quanto i Borboni di Francia contribuirono negli stessi decenni a screditarla; perciò non a torto egli è passato alla storia come uno dei grandi sovrani di Spagna.
Fonti e Bibl.: Sugli avvenimenti internazionali che portarono C. in Italia e sul trono delle Sicilie resta fondamentale A. Baudrillart, Philippe V et la cour de France, Paris 1890-1903, a cui è da aggiungere specialmente G. Quazza, Il problema italiano e l'equilibrio europeo, 1720-1738, Torino 1965, che esamina criticamente l'amplissima bibliografia. Sui primi anni della vita, conserva un certo interesse M. Danvila y Collado, Reinado de Carlos III, I, Madrid 1892, che utilizza le lettere ai genitori, infra cit. La testimonianza di B. Tanucci sull'attesa nella corte toscana che Elisabetta partorisse un successore al trono granducale, è in una lettera dello statista a L. Viviani, 29 ag. 1758, in E. Viviani della Robbia, B. Tanucci ed il suo più importante carteggio, II, Le lettere, Firenze 1942, p. 57. Sul regno italiano di C., testimonianze di contemporanei, spesso viziate da intenti encomiastici, possono considerarsi F. D'Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di C. III, monarca delle Spagne e delle Indie.Napoli 1790; F. Becattini, Storia del Regno di C. III di Borbone, Re Cattolico delle Spagne e delle Indie, Venezia 1790; F. Nuñez, Vida de Carlos III, Madrid 1898, opera scritta però poco dopo la precedente, che in parte plagia. Ipercritico e antiborbonico il contemporaneo S. Spiriti, De borbonico in regno Neapolitano principatu, s. l.né d., di cui, dispersa l'unica copia a stampa esistente e conosciuta da Schipa, resta il ms. della Società napoletana di storia patria, XXIV. B. 2. Fra le varie storie contemporanee, emerge, per l'acume e l'equilibrio delle diagnosi, l'ined. e mai prima utilizzato ms. della Bibl. naz. di Napoli, I.C. 16, ff. 221-317; utile invece solo per particolari aspetti l'ined. Istoria di Napoli, ms. XV.B. 32-33 della stessa Biblioteca. La storiografia del sec. XIX ci ha dato con P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, Capolago 1834 (utilmente rivista e annotata da N. Cortese, Napoli 1951) una ricostruzione poco originale, e con Danvila, cit., l'unica op. complessiva che abbia utilizzato (ma con scarso acume) per il periodo italiano (prima di Aiello) i docc. degli archivi spagnoli. Agli inizi di questo secolo l'interpretazione encomiastica, fino ad allora prevalente, è stata troppo duramente combattuta da M. Schipa, IlRegno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli 1904 (e poi Milano-Roma-Napoli 1923), in un'opera che resta tuttora fondamentale per la mole di notizie fornite. L'interpretazione demolitrice schipiana, già criticata da B. Croce, a cui l'opera era stata dedicata (recensione ora in Pagine sparse, II, Napoli 1195, pp. 94-102), è stata in parte corretta sulla base di nuovi docc., specialmente spagnoli, da R. Aiello, La vita polit. napol. sotto C. di Borbone, "La fondazione ed il tempo eroico" della dinastia, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 459-717, 961-984, che dà un ampio esame della conquista militare e della situazione politico-sociale e culturale, specialmente durante la prima parte (1734-1746) del regno meridionale di Carlo. Ma per una ricostruzione generale della vita politica italiana di quei decenni e dei successivi è fondamentale F. Venturi, Settec. riformatore, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969. Sulla vita religiosa, R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna (1656-1799), Napoli 1971. Sulla vita politica e sulla cultura napoletana durante il regno di C. e su alcune iniziative di riforma, R. Aiello, Arcana iuris, diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976. L'indic. dei contributi minori su questa fase potrà trarsi dalle bibliografie riportate dalle op. cit. di Schipa e Aiello, e dai Boll. bibl. per la storia del Mezzogiorno d'Italia, pubbl. ogni dieci anni dalla Soc. nap. di storia patria. Sul regno di C. in Spagna, oltre a Danvila (voll. II-VI) e Nuñez, cfr. A. Ferrer del Rio, Historia del reinado de Carlos III en España, Madrid 1856; M. Lafuente, Historia general de España, XIII-XIV, Barcelona 1889; ma specialmente F. Rousseau, Règne de Charles III d'Espagne (1759-1788), Paris 1907; A. Ballesteros y Beretta, Historia de España y su influencia en la historia universal, V, Barcelona 1929 (che indica e discute criticamente la bibliogr. su ciascun argomento); E. de Tapia Ozcariz, Carlos III y su epoca, Madrid 1962; V. Rodriguez Casado, Lapolitica y los politicos en el reinado de Carlos III, Madrid 1962; J. Cepeda Adan, Sociedad y politica en la época de Carlos III, Madrid 1967.
Per l'approfondimento di singoli aspetti della vita e della politica di C. esiste un immenso materiale document. negli archivi di Napoli (specialmente i fondi Casa reale antica, Esteri, Farnesiano), di Firenze, Venezia, Torino, del Vaticano, Parigi, Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Londra, Public Record Office, per le notizie trasmesse dagli inviati diplomatici; Roma, Bibl. Corsiniana, per il fondo B.Corfini;e negli archivi spagnoli di Simancas (Valladolid) e Historico nacional di Madrid; questo ultimo conserva in molti fasci i docc. relativi ai più importanti avvenimenti esterni della vita di C. e molte centinaia di lettere ai genitori, fonte insostituibile per la conoscenza della sua formazione e maturazione psicologica.