Borbone, Carlo di
Nato il 17 febbraio 1490 dal matrimonio di Chiara Gonzaga, figlia del marchese di Mantova, con Gilbert de Montpensier, Carlo di Borbone è passato alla storia come uno degli ultimi grandi feudatari del regno di Francia. In seguito alla morte del padre e del fratello maggiore e dopo il matrimonio con Susanna di Borbone, Carlo ereditò vastissimi domini nel centro della Francia, assumendo il titolo di duca di Borbone nel 1505 e, infine, a soli venticinque anni, di connestabile di Francia nel 1515. Durante le guerre d’Italia, prima con Luigi XII e poi all’inizio del regno di Francesco I, divenne uno dei maggiori capitani dell’esercito francese e venne nominato luogotenente del re in Italia, nel 1515, incarico che, per sua scelta, tenne per poco tempo. Un conflitto con la madre di Francesco I, Luisa di Savoia, per l’eredità dei beni di sua moglie, lo portò a passare nel 1523 al servizio dell’imperatore Carlo V. I suoi feudi francesi furono allora confiscati e integrati nel dominio reale. Negli anni successivi fu uno dei migliori capitani dell’esercito imperiale che invase la Provenza fino a Marsiglia; vinse quindi la battaglia di Pavia, durante la quale venne fatto prigioniero Francesco I. In seguito a tale episodio Carlo di Borbone diventò definitivamente, agli occhi dei francesi, l’emblema del traditore del proprio re (mentre egli rivendicava – secondo una logica prettamente feudale – il rispetto dei diritti dei vassalli).
Come per altri protagonisti delle guerre d’Italia, il ‘momento-Pavia’ costituì uno spartiacque: tra il 1524 e il 1527, l’ex connestabile pensò di poter ottenere uno Stato nuovo o di poter recuperare i beni confiscatigli nel turbine della guerra, grazie al favore imperiale, avendogli Carlo V promesso la mano di sua sorella Eleonora. Tuttavia, dopo il trattato di Madrid all’inizio del 1526, sfumarono sia il matrimonio sia l’attribuzione del ducato di Milano e il recupero dei propri beni in Francia. Contropartita minima: Carlo venne rimandato in Italia con il titolo di luogotenente; partì per l’Italia nel luglio del 1526 e congiunse le proprie truppe con l’esercito di lanzi guidato da Georg Frundsberg nel febbraio del 1527.
Alla testa di truppe imperiali mal pagate, che sognavano di conseguenza saccheggi per rifarsi, approfittò della tregua conclusa all’inizio del 1527 per preparare l’ultima offensiva e, dopo avere rifiutato, in aprile, i patti proposti dal papa, non esitò a lanciare il proprio esercito all’assalto della Roma pontificia, con stupore dell’intera Europa cattolica. Durante la prima fase dell’assedio sotto le mura romane, all’alba del 6 maggio 1527, Carlo di Borbone venne ucciso.
Le uniche occorrenze del suo nome nell’opera machiavelliana si trovano nel carteggio di M. relativo ai due anni della lega di Cognac. Al Borbone non viene però mai conferito un ruolo importante nel racconto e nel pensiero machiavelliani della guerra. M. non fa mai allusione al «tradimento» del connestabile, né al suo passato di grande feudatario francese. Egli è nominato per la prima volta in una lettera agli Otto di pratica scritta in un momento cruciale in cui M. si trovava al campo presso Francesco Guicciardini, allora luogotenente del papa: la lettera dimostra che i due fiorentini condividono l’idea che non si può sperare molto nella pace, che tedeschi e spagnoli non possono essere divisi, ma anche che, ciò nondimeno, una trattativa va intavolata a ogni costo o con il viceré imperiale, don Hugo de Moncada, o con Charles de Lannoy, ma non con «il Borbone» giacché «conviene dunque che questa pace si tratti con quelli che ne hanno autorità da lo Imperadore» (M. agli Otto di pratica, 2 dic. 1526, LCSG, 7° t., p. 186). Sempre agli Otto M. segnala in febbraio la visita di Carlo di Borbone al campo dei lanzichenecchi (ma M. non sa – e quindi non dice – che il capitano imperiale deve affrontare in quell’occasione una forma di ammutinamento dei lanzi non pagati, episodio che bene si sarebbe prestato a una sua analisi sui mercenari). Ma soprattutto, all’inizio di marzo, M. informa gli Otto dei movimenti di Carlo verso sud nonostante la tregua (e avverte del pericolo imminente per lo Stato fiorentino). Il 18 marzo, il maltempo e la malattia di Frundsberg consentono a M. di nutrire qualche speranza giacché tutto sembra più difficile per i nemici.
E il 20 marzo comunica il desiderio di Carlo di concludere la pace, ma a patto che si paghino le sue truppe, che non vogliono accettare la tregua conclusa. Quest’ultima lettera, nella quale il Borbone viene presentato come colui che cerca di stabilire un contatto con l’avversario, segna paradossalmente nel discorso di M. la fine di qualsiasi speranza di contrattazione: M. comprende che l’esercito imperiale, in pessime condizioni, non può accontentarsi della tregua né di un qualsiasi accordo: «onde Magnifici Signori miei, e’ pare ad ognuno qui che la tregua sia spacciata e che si abbia a pensare alla guerra» (M. agli Otto di pratica, 29 marzo 1527, LCSG, 7° t., p 218). Tutto deve quindi essere fatto pensando solo alla guerra e l’8 aprile 1527, nonché nei giorni successivi, M. non smette di chiedere ai Signori di prendere tutti i provvedimenti per l’imminente scontro con l’esercito di Carlo. Il 16 aprile M. scrive una lettera, questa volta privata, a Francesco Vettori, nella quale proclama il suo amore per Guicciardini e per la patria, ma, soprattutto, ribadisce che conviene «pensare alla guerra affatto, senza havere un pelo che pensi più alla pace» e che «non bisogna più claudicare ma farla alla impazzata», giacché «spesso la disperazione trova dei rimedii che la electione non ha saputi trovare». M. si dichiara addirittura convinto della possibilità di vincere se si accetta di non cedere, pur trovandosi in una situazione di gran pericolo, anzi di pericolo mai visto:
vi dico questo per quella esperienza che mi hanno data sessanta anni, che io non credo che mai si travagliassino i più difficili articuli che questi, dove la pace è necessaria e la guerra non si puote abbandonare, et avere alle mani un principe che con fatica può supplire o alla pace sola o alla guerra sola (M. a Francesco Vettori, 16 apr. 1527, in Lettere, p. 459).
La calata di Carlo verso la Toscana è la concreta rappresentazione di una situazione in cui non ci sono più scelte razionali che valgano: resta solo da lottare fino all’ultimo sangue, per salvare lo Stato, sperando nel caso (M. agli Otto di pratica, 13 apr. 1527, LCSG, 7° t., pp. 225-27). In un’altra lettera a Vettori, in cui critica il duca d’Urbino e il conte Guido Rangoni, i due maggiori capitani dell’esercito della lega, M. riprende quindi le stesse raccomandazioni di troncare subito «la pratica dell’accordo» (M. a Francesco Vettori, 18 apr. 1527, in Lettere, pp. 461-62).
A differenza di Luigi XII, Giulio II o Cesare Borgia, Carlo di Borbone non diventa mai per M. un protagonista sufficientemente esemplare da portare a una creazione concettuale e testuale. Ciò dipende forse soltanto da una questione di tempi: M. e Carlo muoiono ambedue nel 1527 e nell’ultimo anno di vita M. non scrive alcun testo di riflessione importante.
Guicciardini, invece, riserva un ampio spazio alla figura di Carlo di Borbone nella Storia d’Italia e propone un giudizio implicito di condanna morale del ‘tradimento’ del vassallo del re francese: significativa a questo riguardo è la citazione dell’aneddoto del nobile spagnolo al quale Carlo V chiese di ospitare il Borbone e che
rispose, con grandezza di animo castigliana: non potere dinegare a Cesare quanto voleva, ma che sapesse che, come Borbone se ne fusse partito, l’abbrucierebbe, come palazzo infetto dalla infamia di Borbone e indegno di essere abitato da uomini d’onore (Storia d’Italia, XVI 11, a cura di S. Seidel-Menchi, 1971, p. 1661).
D’altronde, già nel libro XV Guicciardini preannunciava il «tradimento» non ancora avvenuto, sottolineando che, prima ancora della chiusura del processo sull’eredità della moglie, Carlo di Borbone era già «congiunto occultissimamente contro al re» e «desiderava che i viniziani si unissino con Cesare» (Storia d’Italia, XV 2, cit., p. 1497).
Soldato brutale che mira a un tornaconto personale o cristiano fervente che si fa guerriero di Dio contro Roma-Babilonia (secondo la lettura di Denis Crouzet 2003)? Figura tradizionale di traditore e di ribelle (nella storiografia francese dell’Ottocento) o uomo d’onore e nobile vittima di un sopruso del nascente assolutismo? Alfiere della superata tradizione feudale o moderno capitano imperiale in grado di pensare la propria azione oltre confini fragili che non sono ancora ‘nazionali’? Oppure, addirittura, sempre secondo Crouzet (2003), «un héros dérobé des songes nobiliaires, un des mythes masqués de la France moderne, le symbole lointain d’une mystérieuse tentation de la liberté»? Niente di tutto ciò per Machiavelli. Tutto sommato, per lui Carlo di Borbone rimase un semplice capitano, come tanti altri; nei suoi testi non c’è nulla di quell’immagine ambivalente e ambigua, ma forte, che si può trovare nei suoi biografi moderni.
Bibliografia: C. Hare, Charles de Bourbon, high constable of France, ‘the great condottiere’, London 1911; V.J. Pitts, The man who sacked Rome, New York 1993; D. Crouzet, Charles de Bourbon, connétable de France, Paris 2003.