Carlo di Valois
Figlio di Filippo III di Francia e della sua prima moglie Isabella d'Aragona, nacque nel 1270. Aveva solo quattordici anni quando venne a trovarsi al centro dei contrasti emersi in Europa, al momento della guerra del Vespro e per la realizzazione della svolta politica, resa necessaria per l'azione dí Carlo d'Angiò nel Mezzogiorno d'Italia. Il papa Martino IV, infatti, quando ebbe deposto Pietro III d'Aragona il 21 marzo 1283, in seguito all'appoggio dato ai ribelli siciliani, designò a sostituirlo, in virtù dell'alta sovranità che la Chiesa aveva sull'Aragona, appunto C.; e, dopo che suo padre ebbe accettato nel parlamento di Parigi del 22 febbraio 1284, predicò addirittura in suo favore una crociata. Ma la spedizione preparata con grandiosità, dopo alcuni successi iniziali in Catalogna culminati nella conquista di Gerona (5 sett. 1285), si risolse in un autentico disastro.
Colto e simpatico, di aspetto bello pur nella figura fisica robusta, ambizioso, fece un matrimonio che in qualche modo lo compensava della precedente delusione spagnola, sposando la figlia di Carlo II d'Angiò, Margherita, che gli portò in dote l'Anjou e il Maine. Egli, che nel 1287-1288 aveva preso parte alle trattative per la liberazione di Carlo II d'Angiò dalla prigionia aragonese, potè così rinunciare al suo trono nominale col trattato d'Anagni del 1295. Poiché per questo trattato Giacomo II d'Aragona aveva rinunciato al trono di Sicilia, C. fu allora incaricato da Filippo il Bello di provvedere alle operazioni militari contro i Siciliani che avevano rifiutato, insieme col fratello di Giacomo, Federico, l'accettazione del trattato stesso.
Durante questi preparativi C. perse la moglie (31 dicembre 1299); rivolse allora la sua attenzione a Caterina di Courtenay, che aveva diritti sul trono imperiale di Oriente, sposandola nel gennaio col gradimento del re Filippo e di Bonifacio VIII, che pensò di giovarsi di C. sia per orientare le vicende italiane in senso favorevole agl'interessi del Papato, sia per compiere un'eventuale spedizione a Costantinopoli.
Nella primavera del 1301 C. veniva in Italia con cinquecento uomini d'arme sotto la guida di alcuni signori francesi, mentre il fiorentino Musciatto Franzesi, apprezzato consigliere, curava anche la parte finanziaria dell'impresa.
Bonifacio VIII ne approfittò subito, cercando di affermare l'autorità della Chiesa in Toscana e in particolare in Firenze. La città era al culmine della lotta fra magnati e popolani: mentre questi ultimi venivano realizzando le loro aspirazioni politiche con gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella in un travaglio che è, a un tempo, costituzionale, economico e sociale, nuovi contrasti affiorano nello scontro fra le due famiglie dei Cerchi e dei Donati, che assunsero, com'è noto, coi loro seguaci le denominazioni di Bianchi e Neri. Questi riuscirono a ottenere l'appoggio del papa, assicurandogli ogni aiuto politico e finanziario; e Bonifacio VIII mandò sotto veste di paciere il cardinale Matteo d'Acquasparta, che non ebbe tuttavia il coraggio di prendere in mano la situazione, fallendo così in realtà la sua missione. E quando dopo i tumulti di s. Giovanni del 1300, la signoria - si ricordi che ne faceva parte D. - decise di esiliare i capi delle due parti, il capo dei Neri, Corso Donati, rotto il confino, si recò dal papa per chiederne l'aiuto. E il papa mandò C., che oltre ai suoi soldati ebbe l'appoggio di altre città guelfe, come Perugia e Lucca, desiderose di mantenere buoni rapporti col pontefice. C. entrò il 1 novembre del 1301, accolto tra la timorosa speranza dei Bianchi, che ancora non avevano perso la fiducia in chi aveva giurato sul suo onore di principe francese, e una qualche preoccupazione dei Neri, che il Valois volesse intender sul serio le sue funzioni di paciere. Ma dopo pochi giorni non furono possibili più dubbi, come racconta Dino Compagni, esprimendo in appassionate invettive l'amarezza della sua delusione.
C., infatti, non vide e non volle vedere le violenze dei Neri contro i Bianchi, tanto più che questi non ebbero il coraggio o la forza per reagire: nulla fece quando la signoria fu costretta a dimettersi il 7 novembre; anzi l'indomani consentì che nuovo podestà fosse uno di coloro che lo avevano accompagnato a Firenze, Cante de' Gabrielli di Gubbio.
Il papa, soddisfatto di questi risultati, mandava di nuovo a Firenze Matteo d'Acquasparta, mentre se ne partiva C., non senza avere dai Neri circa 200.000 fiorini per la spedizione siciliana, mentre altro danaro gli fu consegnato a titolo personale.
Il 2 marzo 1302 C., entrato ormai al servizio del re di Sicilia, si recò a Roma, ove il pontefice accordò, a lui e a coloro che lo avevano accompagnato contro i ribelli siciliani, il privilegio della crociata.
Nominato capitano generale in Sicilia con pieni poteri per intavolar negoziati col re Federico e con i ribelli, C. sbarcò con le sue truppe a Termini, allargando l'occupazione a tutto il territorio di Polizzi fino a Catania, poi si spinse fino a Sciacca.
Ma la città resistette, e l'esercito s'andò gradatamente assottigliando per il caldo dell'estate e per le malattie: prevedendo, allora, la necessità di una ritirata - il principe francese s'era in realtà reso conto sul terreno delle difficoltà concrete della conquista dell'isola - iniziò le trattative che nel giro di pochi giorni, dopo un incontro tra Federico d'Aragona e Roberto d'Angiò, in quel momento vicario generale del regno, si conclusero con la pace di Caltabellotta (29 agosto 1302, giurata il 31 agosto).
Rientrato in Francia, C. riappare in primo piano dopo la morte di Alberto d'Asburgo (1 maggio 1308), quando, con l'appoggio politico e finanziario, pose la sua candidatura alla corona imperiale, cercando di procurarsi anche col denaro i voti degli elettori. Ma questi, anche perché incoraggiati da Clemente V, che non volle in nessun modo impegnarsi per C., pur elogiandolo a parole, finirono con l'eleggere all'unanimità Enrico VII di Lussemburgo. Morto nel 1313 l'imperatore, C. pose ancora una volta la sua candidatura all'impero, ma di nuovo gli elettori preferirono far convergere i loro voti su di un principe tedesco, Ludovico il Bavaro. Tenace nelle sue ambizioni egli sperò, ancora vanamente, di diventare re di Arles verso il 1322-23, mentre altre sollecitazioni all'impero gli vennero da Giovanni XXII nel momento acuto dei suoi contrasti con Ludovico, intorno al 1324.
In realtà, tra un progetto e l'altro C. svolse soprattutto una vivace attività militare e politica per il re di Francia - in specie per il nipote Luigi X - ora contro gl'Inglesi, ora in Fiandra. Morì a Nogent il 16 dicembre 1325.
C. è ricordato due volte nell'opera di D.; compare infatti sotto il nome di secondo Totila, come distruttore di Firenze, nel De vulg. Eloq. (II VI 5), ove attraverso un esempio di " ars dictandi " si ricordano con un artificio letterario raffinato la grave colpa di C. nell'esiliare dalla città i migliori cittadini (Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia) e la sua incapacità nel condurre a termine l'impresa siciliana (nequicquam Trinacriam Totila secundus adivit).
È, tuttavia, interessante notare, anche per un giudizio dell'atteggiamento di D. verso i personaggi del suo tempo, che egli, nella Commedia, si sforza di tenere ben distinto il suo risentimento individuale verso coloro che lo hanno danneggiato e fatto soffrire, e il suo giudizio su uomini e cose, come espressione del giudizio divino. Così tace del tutto su Cante de' Gabrielli da Gubbio, il podestà che lo condannò all'esilio; mentre a C. dedica solo nove versi nel canto XX del Purgatorio (70-78), presentandolo, nell'amara rassegna di Ugo Capeto, come colui che venne fuor di Francia, / per far conoscer meglio e sé e ' suoi. Vi si coglie l'eco viva della delusione profonda dei Bianchi, che avevano fidato nell'onore e nella lealtà della casa di Francia; vi si trova una consonanza viva e dolente con le parole di Dino Compagni, anch'egli Bianco, nella sua Cronica, sia quando riferisce le parole dell' " avvocato di Volterra ", perché il papa mandava C., " siccome signore che se ne potea ben fidare, però che il sangue della casa di Francia mai non tradì né amico né nemico " (II 6), sia quando, dopo le prime gravi violenze, sottolinea invece il tradimento fatto a Firenze: " ...ov'è la fede della real casa di Francia, caduta per mal consiglio, non temendo vergognarsi? O malvagi consiglieri, che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato ma assassino, imprigionando i cittadini a torto, e mancando della sua fede, e falsando il nome della real casa di Francia ! " (II 18). Proprio questo tradimento sottolinea anche D., quando ricorda che C. venne a Firenze solo con la lancia con la qual giostrò Giuda, cioè col tradimento e con l'inganno, e si pensi quanto, presso i contemporanei, questo accoppiamento C. - Giuda doveva gettare un alone sinistro di perfidia su chi lo aveva mandato: Bonifacio VIII. E questa lancia puntata contro Firenze le fa scoppiar la pancia. Espressione cruda, questa, per una certa violenta forza popolaresca, ma, in realtà, richiamo preciso a un passo degli Atti degli apostoli (1, 18), ove Pietro, parlando, e appunto di Giuda, ai suoi confratelli, dice che questi " suspensus crepuit medius et diffusa sunt omnia viscera eius ". C. dunque, con la sua azione, fece scoppiare in Firenze il marciume e la putredine di cui era piena.
Né il poeta manca sarcasticamente di sottolineare che il principe francese non riuscirà a ottenere terra, cioè un possedimento, uno stato da governare, come voleva nella sua insaziata ambizione, ma solo si procurerà danno morale per la sua colpa e vergogna per la sua azione; e tutto ciò sarà tanto più grave quanto meno egli, nella sua inerzia e fiacchezza morale, se ne accorgerà. E si pensa di nuovo alle pagine del Compagni (II 18-19), in cui con vari episodi ricorda l'indifferenza del principe francese e la sua incapacità, voluta, di frenare la violenza e le sopraffazioni dei Neri.
D. tuttavia, nella nuova dimensione della realtà storica, maturatagli durante l'esilio e per la dolente consapevolezza della crisi sociale e umana del suo tempo, non giudica più C. come responsabile individuale del tradimento fatto a Firenze, ma lo considera una delle espressioni particolari di un fatto politico e di una colpa morale, dell'affermazione frodolenta cioè della casa di Francia e del suo ramo angioino in Italia, a causa della sua smisurata cupidigia di danaro e di potere.
Il fatto personale della condanna e dell'esilio si è così innalzato al di sopra e al di là di ogni proprio sentimento, collocandosi su di un piano di giudizio universale: in tal modo il florentinus e l'exul immeritus può davvero, allora, sentirsi voce di Dio.
Bibl. - J. Petit, Charles de Valois, Parigi 1900, grossa opera erudita, alla quale va affiancato il saggio di J. Favier, Un conseiller de Philippe le Bel, Enguerran de Marigny, ibid. 1963, ove si narrano le vicende del grande antagonista di C. alla corte di Francia. Per C. a Firenze si veda I. Del Lungo, I Bianchi e i Neri in Firenze. Pagine di storia fiorentina per la vita di D., Milano 1921, 110-281; né si può trascurare Davidsohn, Storia III 84-311.
Per C. in D. si vedano i commentatori antichi e moderni e la ‛ lectura ' del canto XX del Purgatorio. Va citato a parte, proprio per la sua attenzione alle vicende francesi e a C., la lettura di P. Gauthiez, Le chant XX du Purgatoire, Firenze s.a [ma 1909].