Carlo Dionisotti
Tra i maggiori maestri del Novecento letterario italiano, Carlo Dionisotti, formatosi alla scuola di Vittorio Cian nella facoltà di Lettere di Torino degli anni Venti del Novecento, dove ancora bruciavano gli ultimi fuochi della scuola storica, ha coniugato l’istanza etico-politica della storia, peculiarmente crociana, con l’attenzione rivolta ai diversi sviluppi di lingue e culture nei vari ambienti italiani. La sua sfera d’indagine è stata prevalentemente la letteratura italiana antica e, in particolare, la temperie rinascimentale con le sue complesse trasformazioni linguistiche.
Carlo Dionisotti nacque a Torino il 9 giugno 1908 da famiglia borghese, originaria del vercellese: il nonno (1824-1899), omonimo, fu magistrato e storico. Dopo le scuole secondarie nell’Istituto sociale di Torino con i gesuiti, si laureò con Vittorio Cian (1862-1951) discutendo un Saggio di studi sulle Rime di Pietro Bembo (1929), ma sulla sua formazione influirono da prospettive diverse Santorre Debenedetti (1878-1948) e Ferdinando Neri (1880-1954). Tra il 1932 e il 1943 fu insegnante di latino e storia in istituti magistrali di Vercelli e Torino e dal 1939 in licei di Roma. Dopo aver conseguito la libera docenza in letteratura italiana nel 1937, fu assistente di Enrico Carrara (1871-1958) al Magistero di Torino e supplente a Lettere del poeta Francesco Pastonchi (1874-1953). Nel 1941-43, mentre insegnava al liceo Virgilio di Roma, iniziò a collaborare con l’Istituto della Enciclopedia Italiana per il Dizionario biografico degli Italiani. Comandato nel 1943 presso l’Istituto di studi germanici, fu negli anni 1944-46 assistente all’Università di Roma di Natalino Sapegno, al posto di Mario Alicata (1918-1966) chiamato a più urgenti e gravosi impegni politici. Fu nello stesso tempo attivo sui giornali della Resistenza, collaborò con Giustizia e libertà e con il Partito d’azione.
Tutto questo periodo, a parte la piccola edizione in due volumi delle opere di Pietro Bembo degli anni 1932-1933, fu caratterizzato, come l’esaustiva bibliografia di Mirella Ferrari documenta (in Un maestro della letteratura, 2008, pp. 32-39), da una ricca serie di recensioni e annunci bibliografici che comparvero soprattutto sul «Giornale storico della letteratura italiana», con pochi interventi di letteratura umanistica; l’opera che assorbì le sue maggiori energie fu quella degli Indici del «Giornale storico» affidatigli da Cian. Sotterraneamente procedeva la ricerca su Bembo e, in particolare, il lavoro sull’epistolario. Nel 1947 concorse a un posto di lecturer di italiano presso l’Università di Oxford, con una reference letter di Benedetto Croce, e a Oxford rimase fino al 1949, quando diventò professor di italiano al Bedford College di London, dove insegnò sino al pensionamento nel 1970.
La prolusione, Geografia e storia della letteratura italiana, pronunciata il 22 novembre 1949 («Italian studies», 1951), segnerà profondamente l’italianistica. L’episodio certamente più significativo in quegli anni fu la fondazione e la direzione con altri, tra cui Giuseppe Billanovich (1913-2000) e Augusto Campana (1906- 1995), a partire dal 1958, di un periodico di grandissimo impatto, «Italia medioevale e umanistica». Il trasferimento in Inghilterra significò per Dionisotti l’esplorazione sistematica dei fondi italiani della Bodleian Library di Oxford e, soprattutto, della British Library. Dalla specola inglese lo studioso percorreva i sentieri della letteratura italiana allargando le conoscenze e rinnovandone i metodi. Nel 1974 gli fu dedicata una miscellanea dagli allievi della Svizzera italiana, uno dei principali luoghi in cui si è esercitato il magistero dello studioso. Numerosi i riconoscimenti. Dal 1964 fu accademico dei Lincei e dal 1972 fellow della British Academy. Si spense a Londra il 22 febbraio del 1998. Volle essere sepolto a Romagnano Sesia (Novara).
Dionisotti fu segretario di redazione del «Giornale storico» dal 1937 al 1941, ma era venuto a contatto con la metodologia del «Giornale» già negli anni universitari per i suoi rapporti con Cian, dal 1918 direttore della rivista. Quando il giovane arrivò all’Università aveva al suo attivo letture decisive, quali La letteratura della nuova Italia e il Breviario di estetica di Croce. La Prefazione alla tesi (Università di Torino, novembre 1929) chiarisce l’ordito del lavoro:
uno studio sulle rime del Bembo non mi fu consigliato da preoccupazioni psicologiche o estetiche né tanto meno biografiche, ma da un solo problema che io ritengo tuttora insoluto e tale da non poter essere risolto se non attraverso l’opera del Bembo: il problema del petrarchismo lirico cinquecentesco e più propriamente del primo Cinquecento. […] Non mancano studi sulla lirica del sec. XVI e il recente volume del Rizzi tutti li riassume. Due sono i fondamentali difetti di questa critica: metodologico il primo, di non avere cioè distinto; e conoscere senza distinguere non si può, né giudicare quel che è confuso e disordinato. Così vediamo in quelle rassegne di poesia cinquecentesca il Bembo e il Tansillo, il Molza e il Groto, l’Ariosto e il Tasso, il Della Casa e il Buonarroti, in un sol branco ove non mancano Giordano Bruno e il Campanella.
Notevole in questa apertura programmatica la dichiarazione di avere scelto come campo di lavoro la dinamica critico-filologica delle Rime per la definizione di un fenomeno letterario come il petrarchismo. La statura di Bembo era tale che da sola bastava a giustificare la scelta, ma la motivazione è conseguente alla nuova temperie crociana nella quale il giovane è immerso: un cauto atteggiamento verso la pratica filologica, funzionalizzata nell’ambito di un movimento dalle idee verso i testi. Sarà un habitus proprio anche del Dionisotti maturo, ma sorprende che già allora egli applicasse con piena consapevolezza il principio del distingue frequenter, che sarebbe diventato un indicatore metodologico onnipresente nella sua futura ricerca. Nella tesi di laurea c’è già il suo lessico critico, diverso da quello di Cian, sul quale comunque si modella. È un’erudizione che non è più quella della scuola storica, ma è proiettata a trovare la sua piena giustificazione lungo i rivoli dell’estetica crociana.
Dal 1930 era iniziata la sua collaborazione con il «Giornale storico». Molto presto dovette assumere il compito di ‘architetto’ dell’indice analitico della rivista. La perlustrazione accurata della struttura della maggiore rivista di letteratura italiana ha certamente lasciato un’impronta nei suoi studi. La storia di Dionisotti critico e filologo si dipana proprio lungo l’arco evolutivo della linea erudita, che a poco a poco acquisisce tratti inconfondibili. Il cortocircuito nella ricerca dello studioso si verifica sul piano dell’intersezione tra letteratura e lingua nei periodi e nelle zone dei grandi cambiamenti. Proprio l’indagine su Bembo raffinò il suo approccio a quella zona grigia del tardo Umanesimo fitta di testi anche effimeri e spesso dallo statuto ambiguo. È un percorso che si può seguire negli anni Cinquanta e Sessanta, che muove dalla prolusione del 1949, passa attraverso interventi che incidono a vario livello nella costruzione di una metodologia – emblematica la prefazione al volume bembesco di Prose e rime del 1960 –, per giungere al culmine nel 1968 con Gli umanisti e il volgare. Qui sono messi a fuoco i processi che hanno determinato la codificazione della lingua letteraria italiana da parte di Bembo, con lo sguardo teso soprattutto ai documenti di ‘confine’ linguistico, quali l’Hypnerotomachia Poliphili o le parodie del linguaggio latino obsoleto e ricercato, nei quali maggiormente si rispecchia la crisi della lingua di Roma.
Prima di Dionisotti questo variegato apparato di testi era additato come un campionario di curiosità letterarie, corollario goliardico tipico dei sodalizi accademici; ora l’acuta introspezione dei testi e l’analisi dei contesti fanno affiorare dai documenti i segni di dirompenti crisi linguistiche. Già negli anni Cinquanta non siamo più nella sfera dell’occasionale trouvaille, bensì in un dinamico mondo di erudizione che mira a trovare un orientamento esplorando le zone nevralgiche della letteratura italiana. I maggiori risultati riguardano Bembo e la letteratura a cavallo dei due secoli, in particolare il mondo fino allora quasi inesplorato delle prime stampe: dalla poesia cortigiana alle Regole di Giovan Francesco Fortunio, da Marcantonio Sabellico ad Aldo Manuzio, da Iacopo Sannazaro a tutto l’entourage letterario di Leone X. Siamo all’interno di un sistema e più che gli eventi Dionisotti è interessato a interpretare i punti di trasformazione, l’eziologia dei fenomeni, i retroscena culturali.
La sua vocazione erudita si era incanalata lungo queste coordinate nella Roma dei primi anni Quaranta, dove tra l’Enciclopedia Italiana e la Biblioteca Vaticana era venuto a contatto con personaggi destinati a interagire con lui per il resto della vita. Erano ricercatori che perseguivano il regime dell’erudizione da prospettive diverse. Don Giuseppe De Luca (1898-1962), il ‘timoniere’ di «Storia e letteratura», si poneva sulla scia di André Wilmart, di Louis Duchesne e di Giovanni Mercati, e mirava a ricostruire la lunga catena della tradizione ecclesiastica dalla specola della storia della pietà, tentando con grande impegno di far convivere nella sua progettualità editoriale la cultura religiosa e quella laica. Don Giuseppe era riuscito a coinvolgere nei suoi programmi, oltre a Dionisotti, Campana e Billanovich. Il primo si riagganciava alla grande tradizione settecentesca dei bibliotecari di Romagna e aveva trovato la sua naturale collocazione in Vaticana accanto a Mercati: tutti i testimonia antiquitatis destavano il suo interesse, ma privilegiava nell’indagine ciò che riconduceva più o meno direttamente a luoghi, uomini e istituzioni della sua Romagna. Tutto proteso a gettare luce sui contesti umanistici, con attenzione suprema per le figure di minori e minimi, Billanovich lavorava sui frastagliati percorsi dei classici latini in età tardoantica e medievale, mettendo a fuoco le tradizioni di Francesco Petrarca e degli altri grandi del Trecento.
Dionisotti, Billanovich e Campana maturarono lentamente la decisione di dar vita a una rivista nuova. Dopo una lunghissima preparazione (l’inizio è da porre già alla fine degli anni Quaranta), nel 1958 apparve il primo numero di «Italia medioevale e umanistica». Ai tre si era unito lo storico medievale Paolo Sambin (1913-2003). La rivista voleva essere erudita, diversa dal «Giornale storico» al quale tuttavia ammiccava, ma la peculiare caratura dell’erudizione di ognuno dei direttori conferì un significato speciale all’insieme. Fu Billanovich l’animatore primo del periodico, ma la nuova proposta poggiava sui presupposti teorici fissati da Dionisotti. La rivista nasceva dopo il distacco, a diversi livelli traumatico, dei tre studiosi da De Luca e da «Storia e letteratura», e mirava a trovare un’altra forma di aggregazione. Il problema sembra riconducibile a una crisi di identità culturale. È quello che nelle molte lettere dei protagonisti, in gran parte ancora inedite, non è mai detto esplicitamente, ma si coglie tra le righe. Il programma di don Giuseppe era assoluto, non lasciava libertà nella visione della storia, esigeva interpreti più che artefici, esecutori entusiasti più che ideatori di ricerche che non fossero in armonia con le linee direttrici. Per chi partecipava al progetto era necessaria insomma una piena condivisione. La tradizione culturale cui i tre studiosi si richiamavano era quella (Dionisotti lo dice a chiare lettere) del «Giornale storico» e di Croce. Lo sviluppo degli avvenimenti rivela che il mentore ideologico del gruppo fu proprio Dionisotti, che dopo la prolusione londinese aveva acquisito auctoritas indiscussa. Il titolo «Italia medioevale e umanistica» non è onnicomprensivo, ma sostanzialmente ritaglia i territori della letteratura italiana antica. Ed è un titolo che può trovare adeguata spiegazione solo in quella particolare stagione socioculturale in cui la rivista nasceva. Aveva scritto Dionisotti nella sua prolusione:
Certo è che mai come all’indomani di una disfatta militare e nel decorso di una crisi politica che hanno insidiato l’unità e l’esistenza stessa, come nazione e come stato, dell’Italia, si è sentito forte il bisogno di vedere con chiarezza in che modo e fino a che punto l’Italia sia stata a tutt’oggi fatta.
Se si può allargare il senso di questa affermazione, il titolo del nuovo periodico è l’indicazione di un perimetro critico, il disegno di una scienza imperfetta su cui si vuole intervenire, un invito alla verifica della tenuta ideologica e culturale di quella che fu la più alta carta d’identità della cultura italiana in Europa, il Rinascimento. Essenziale era poi l’introduzione nel titolo di quell’aggettivo, medioevale, chiaramente un’indicazione programmatica sulla necessità di abbandonare l’idolatria del Rinascimento come sacro recinto per ragionare in termini di culture stratificate e integrate. Sulle macerie della guerra, tra fratture e incrinature di ogni sorta, si avvertiva ora la necessità di mettere ordine in un passato certo glorioso, ma ancora oscuro. Un ripartire quindi da lontano con le coscienze profondamente radicate nell’età contemporanea.
Il programma della nuova rivista era stato in certo qual modo tracciato da Dionisotti nel 1956 con il Discorso sull’Umanesimo italiano (Geografia e storia della letteratura italiana, 1967, rist. 1971, pp. 179-99). Un quadro d’insieme piegato forse anche a costituire un momento di verifica della prolusione Geografia e storia, che faceva vedere, sia pure un po’ ellitticamente, i pieni e i vuoti della ricerca sull’Umanesimo: doveva indicare una rotta, disegnare la mappa dei grandi autori che attendevano un’edizione moderna, da Biondo Flavio a Giovanni Tortelli ad Angelo Poliziano a Ermolao Barbaro, chiarire i pericoli di una periodizzazione dell’Umanesimo troppo rigida o troppo estensiva, che non tenesse conto della varietà di stili di vita e di ricerca che in quell’età si riscontrano, perché «la linea dell’umanesimo letterario non può essere che una tra le molte che la realtà politica e religiosa, le arti, le scienze, il diritto e il costume propongono alla comparazione e interpretazione storica» (Geografia e storia, cit., 1971, p. 199).
È nel binomio critico Geografia e storia che universalmente si riconosce il poziore segno distintivo della metodologia di Dionisotti: non si tratta di una regola euristica, di una tecnica applicativa, è in realtà la focalizzazione di un rapporto, riconosciuto costante e quasi normativo, nei contesti letterari della penisola. Un’analisi che ha messo in crisi il carattere di sviluppo coerente e unitario con cui l’estetica idealistica aveva ricostruito la storia letteraria italiana.
La prolusione del 1949 non aveva avuto molta diffusione: la tesi entrò in circolo solo a partire dal 1967, da quando cioè fu pubblicata da Einaudi una silloge di Dionisotti che recava appunto il titolo Geografia e storia della letteratura italiana. La Premessa e dedica al volume, permeata da forte coscienza autobiografica, chiarisce come il saggio sia stato elaborato in un momento di grave crisi civile ed esistenziale:
compito nostro era di mettere, per quanto potessimo, un qualche riparo alla rovina di ogni cosa intorno a noi e in noi. Sempre avevamo creduto all’unità, e però a una storia d’Italia e a una storia della letteratura italiana. Ma sempre anche avevamo dubitato della struttura unitaria, che nell’età nostra era giunta a fare così trista prova di sé, e però anche di quella corrispondente storia d’Italia e della letteratura italiana, che era stata prodotta nell’età risorgimentale (Geografia e storia, cit., 1971, p. 9).
Sul piano critico la prolusione si configurava come un corollario al problema storiografico posto da Croce nel 1936, nei «Proceedings of the British Academy», se e fino a qual segno la storia d’Italia potesse dirsi unitaria. La conclusione di Croce «che di una storia d’Italia anteriore al processo del Risorgimento non fosse il caso di parlare, risolvendosi essa nella varia storia delle singole unità politiche, regionali o municipali o altramente costituite, in cui l’Italia per secoli era stata divisa» (Geografia e storia, cit., 1971, p. 25) è certamente all’origine della ricerca di Dionisotti. Analoga la conclusione che di letteratura italiana vera e propria prima dell’Umanesimo non si potesse parlare, fino a quando cioè con le Prose della volgar lingua non si innescò un processo di lunga e complessa gestazione.
Va subito detto, comunque, che le linee storiche e geografiche lungo cui Dionisotti coordina gli eventi non sono riconducibili tout court al bagaglio teoretico crociano; ma è innegabile che proprio quello schema di lavoro abbia sollecitato un’acuta riflessione sullo status della storia letteraria verificata nei punti nodali del suo sviluppo. In re e da tempo si era raccontata la letteratura italiana secondo la prospettiva mista del sistema storico-geografico e di quello storico-letterario. È il telaio che distribuisce, per es., la materia trattata da Vittorio Rossi nel suo Quattrocento (1933): alcuni capitoli si richiamano a partizioni geografiche (Roma e Firenze ai tempi di Lorenzo il Magnifico, Napoli al tempo di Ferdinando I d’Aragona ecc.), altri recano titoli tematici (il pensiero critico, la prosa oratoria ecc.). Ed è lo schema operativo in parte anche del vecchio e glorioso Die Wiederbelebung des classischen Alterthums (2 voll., 1880-1881) di Georg Voigt, disponibile in traduzione italiana fin dal 1888, dove tuttavia spiccava, in armonia con l’ideologia eroica dei tempi della sua elaborazione, una vibrata scansione degli elementi individuali.
Del tutto nuova era invece nelle pagine di Dionisotti la riflessione d’insieme sulla genesi e gli sviluppi della letteratura italiana dal Duecento all’età contemporanea. Il problema non è costituito dalla storia letteraria in sé, bensì dal modo o dai modi di ricostruirla e raccontarla; se e come sia possibile e legittimo concatenare tutti gli eventi dalla scuola poetica siciliana al Romanticismo; in che misura tra Due e Trecento si possa parlare di storia letteraria italiana; e poi, a partire dall’Umanesimo, fino a qual punto le linee di progressione della storia letteraria abbiano subito condizionamenti dai vari ambienti geografici o abbiano avuto sviluppi univoci e omogenei; quale sia l’incidenza della specificità nei vari territori. Per la soluzione del problema il ritorno al Settecento è decisivo, «fra il Gravina e il Tiraboschi», come precisava nella Premessa del volume del 1967; e nei fatti l’erudizione della scuola storica si saldava a quella settecentesca, tuttavia con un lievito culturale innovativo: l’attenzione marcata verso le dinamiche dei processi linguistici e verso i cambiamenti di rotta. Dionisotti muoveva dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, una grande epopea nella quale le varietà erano viste come una drammatica trasformazione degli avvenimenti, «un inquadramento, cioè, entro uno schema storico-geografico unitario dei rari e indipendenti ‘mondi’ poetici che la critica romantica era venuta scoprendo e colonizzando» (Geografia e storia, cit., 1971, pp. 30-31). Ma è chiaro che qui la discussione va molto al di là. Probabilmente anche in questo Dionisotti sviluppava la linea di Croce: quella degli Aneddoti di varia letteratura e, soprattutto, dello straordinario affresco dei Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento apparso pochi anni prima, nel 1945; in una recensione rimasta incompiuta (da me edita nel volume Carlo Dionisotti. Geografia e storia di uno studioso, 2001, pp. 29-30), Dionisotti sottolineava la radicale portata dell’operazione di Croce, il quale
aveva fin qui preferibilmente e sistematicamente ritrovato autori e pagine del Seicento e della Nuova Italia. Erano le due zone aperte in quella storia alla bonifica: terre di nessuno, coltivabili senza mettere in discussione preesistenti confini. Ma ora la zona prescelta è il Rinascimento: qui è la roccaforte della tradizione e nulla si tocca senza un immediato riflesso sulla compagine tutta di quella storia. Trecento e Cinquecento sono i corpi dell’edificio; così com’è, come cioè fu costruito in Arcadia ed è rimasto.
E si noti l’inciso finale, «così com’è, come cioè fu costruito in Arcadia», che naturalmente esprime una consapevolezza che va al di là dell’occasione concreta della recensione. La storia della letteratura italiana, così come era stata consegnata dalla vecchia tradizione, era una storia compatta e senza chiaroscuri, considerata organica nella diversità, di una organicità nella quale tutto si giustificava. Con le sue pagine Croce veniva ad arricchire il quadro; per lui il coordinamento di singoli fatti slegati in un grande organico affresco letterario non esplicitava obiettivi unitari; per questo egli scriveva su poeti e ricostruiva aneddoti. Con le sue minute ricostruzioni Croce forniva nuovi segmenti di storia e, implicitamente, anche di geografia. Il discorso finiva nella prolusione con lo slittare dalla specola italiana verso una dimensione più generale, e l’osservazione sul tessuto di una penisola linguisticamente e culturalmente varia veniva a trasformarsi in un principio quasi di carattere universale, l’indiscutibile peso che la geografia possa e debba avere in qualsiasi ricostruzione storico-letteraria (Geografia e storia, cit., 1971, p. 54). Non sorprende perciò come questo ideale di ricerca sia stato poi applicato anche ad altre letterature, dalla Grecia e dalle antiche province romane alla realtà del Medioevo latino europeo. Occorre infine dire che nella speculazione di Dionisotti il concetto si è ulteriormente arricchito con la riflessione sulla «cultura regionale», discussa in un convegno a Bari del 1970. Assente dalla prolusione londinese, la riflessione caratterizza assai bene la situazione dell’Italia nel momento in cui si comincia a imporre una linea dominante di letteratura.
G. Guidiccioni, Orazione ai nobili di Lucca, a cura di C. Dionisotti, Roma 1945, rist. Milano 1994.
Indici del «Giornale storico della letteratura italiana». Volumi 1-100 (1883-1932), a cura di C. Dionisotti, Torino 1948.
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M. Savorgnan, P. Bembo, Carteggio d’amore (1500-1501), a cura di C. Dionisotti, Firenze 1950.
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Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, nuova ed. a cura di V. Fera, Milano 2003.
Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna 1988.
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Carlo Dionisotti. Geografia e storia di uno studioso, a cura di E. Fumagalli, Roma 2001.
C. Vela, Introduzione a C. Dionisotti, Scritti sul Bembo, Torino 2002.
Un maestro della letteratura: Carlo Dionisotti tra storia e filologia (1908-1998), a cura di R. Cicala, M. Ferrari, Novara 2008.
Su Natalino Sapegno:
Tra le proposte editoriali della Fondazione Centro di studi storico-letterari Natalino Sapegno di Aosta si segnala Natalino Sapegno e la cultura europea, a cura di G. Radin, Torino 2011.
Su Luigi Russo:
Importanti i carteggi Luigi Russo-Giovanni Gentile, 1913-1942, a cura di R. Pertici, A. Resta, Pisa 1997; Luigi Russo-Benedetto Croce, 1912-1948, 2 voll., Pisa 2006; Il paesaggio d’un presentista: corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze 2009.
Si veda anche:
Luigi Russo. Un’idea di letteratura a confronto, Atti del Convegno nazionale, Caltanissetta-Delia (15-18 ottobre 1992), a cura di N. Mineo, Caltanissetta-Roma 1997.
Fu il tirocinio universitario torinese, alla scuola di Vittorio Cian e nello stesso clima culturale in cui si era formato Carlo Dionisotti, a fornire a Natalino Sapegno (Aosta 1901-Roma 1990) un metodo storico-critico, così come la pronta ricezione del magistero di Benedetto Croce e l’esperienza accanto a Piero Gobetti (dal 1919 al 1924) forgiarono la sua prospettiva critica. Nell’insieme Sapegno seppe integrare l’analisi dei fatti letterari con l’individuazione delle correnti culturali sottese, nonché dei modelli di riferimento nella tradizione. Negli anni Quaranta, la sua ricerca si avvantaggiò della lezione di Antonio Gramsci e di un incisivo influsso del marxismo. Si impose nella sua scrittura una più forte sensibilità storico-sociale e una maggiore duttilità a cogliere nelle varie epoche della storia letteraria la presenza di strutture ricorrenti. L’ottica marxistica consolidò e arricchì il metodo storico acquisito in giovinezza. Professore di letteratura italiana prima all’Università di Palermo (1936-37) poi a quella di Roma (fino al 1976), la sua opera si distribuisce per tutta la letteratura italiana: alcuni suoi libri come Il Trecento della Vallardi (1933, da incrociare con la Storia letteraria del Trecento, 1963) o lo stesso Compendio di storia della letteratura italiana (1936-1947) sono ormai dei veri e propri classici. Negli anni Sessanta progettò e diresse con Emilio Cecchi la Storia della letteratura italiana della Garzanti, mentre l’opera che gettò un ponte con la ricerca di Dionisotti fu la Storia letteraria delle regioni d’Italia (1968), pubblicata in collaborazione con Walter Binni.
Anche Luigi Russo (Delia, Caltanissetta, 1892-Marina di Pietrasanta 1961), professore universitario dal 1927 e, dopo la Liberazione e fino al 1948, direttore della Scuola Normale di Pisa, fu influenzato dall’insegnamento crociano, rivissuto con estrema partecipazione e impegno morale. Nel 1946 fondò la rivista «Belfagor» e venne nominato socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tutta la sua opera critica fu caratterizzata dall’interrelazione tra esigenza di approfondimento del testo e spinte etiche e ideologiche. Un percorso iniziato con il Metastasio (1915) dove confluiva la sua tesi di laurea discussa a Pisa l’anno prima con Francesco Flamini. Le sue memorabili letture critiche suscitarono grandi e innovativi dibattiti, indirizzando in vario modo le generazioni più giovani. Dal Giovanni Verga, passato attraverso molte redazioni a partire dal 1919, al Carducci senza retorica (1957) e oltre, tutta la letteratura italiana è stata da Russo in vario modo ripercorsa e interpretata, anche attraverso i numerosi commenti. Un’attività altresì permeata da vene di riflessione morale e politica, a cominciare da quel Tramonto del letterato, apparso per la prima volta nel 1919, dove è enfatizzato l’obiettivo di rigenerare le coscienze attraverso il legame indissolubile tra arte ed etica. Di particolare importanza anche Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1928, riedito nel 1983 con l’introduzione di Ugo Carpi). Gli scritti critici sono stati riordinati in quattro volumi (1960-1965).