DORIA, Carlo
Nacque a Genova tra il 1575 e il 1576. Il padre, Giovanni Andrea principe di Melfi, era a sua volta figlio di Giannettino, adottato dal grande Andrea e ucciso nel 1547 nella congiura dei Fieschi; la madre era Zenobia Del Carretto, figlia di Marcantonio, che era stato luogotenente di Andrea Doria e poi suo avversario.
Giovanni Andrea aveva sposato giovanissimo, nel 1558, Zenobia; solo alcuni anni dopo nacquero i tre figli maschi, poì ascritti nel 1604 alla nobiltà di Genova: Andrea, nel 1570, erede in quanto primogenito del titolo di principe di Melfi; il D., erede della contea di Tursi (poi eretta in ducato); Giannettino, poi vescovo di Palermo, cardinale e viceré di Sicilia. Due femmine, Vittoria e Artemisia, andarono spose rispettivamente a Ferrante Gonzaga e a Carlo Borgia, duca di Candia.
La carriera e le scelte politiche del D. furono ovviamente segnate dall'importanza politica del padre che, dopo la morte di Giannettino, era diventato l'erede di Andrea Doria e della sua politica, sia nello stretto legame della Repubblica di Genova con la corte di Spagna sia nel ruolo di assentista di galee.
La Corona di Spagna considerava la famiglia del D. come il proprio saldo puntello in Genova, e il D. fu abituato fin dalla prima giovinezza a considerare la corte di Madrid come il reale fulcro della propria carriera. A quella corte il D. venne inviato ancora giovanissimo dal padre, il 12 dic. 1594, per ottenere la conferma di vari privilegi della famiglia Doria.
L'affermazione, autografa, di Giovanni Andrea, di aver inviato il D. "sull'esempio che in pari età egli ebbe dal principe Andrea per interessi più gravi nel 1558" è importante poiché consente sia di determinare la data di nascita del D. sia di confermare i criteri di precocità nell'assunzione di responsabilità, cui fu improntata l'educazione del D. per volere dei padre. Secondo questo princìpio (più volte ribadito in una interessante Vita scritta da lui medesimo, conservata manoscritta a Genova, nella Bibl. civica Berio, m.r. XIV, 3, 13, e purtroppo limitata al periodo 1556-62) Giovanni Andrea faceva chiedere al D., nella sua missione a Madrid, l'affidamento temporaneo delle galee, quando per ragioni di salute il padre non avesse potuto provvedere al comando. Doveva anche sottolineare il carico ormai eccessivo che il generalato del mare comportava per il padre e come don Garcia di Toledo fosse stato, in proporzione, molto meglio remunerato di lui. inoltre doveva chiedere redditi vitalizi per coloro che presso il padre avevano sempre servito, in particolare per Ambrogio Doria e per Leonardo Spinola. Il giovane D. doveva ottenere la conferma anche dell'importante privilegio della Zecca: prìvilegio che Andrea Doria aveva ereditato coi feudi confiscatì ai Fieschi dopo la congiura e aveva trasmesso a Giovanni Andrea, che sembra essere stato il primo ad usarne: il D. doveva chiedere che le monete d'oro e d'argento avessero libero corso non solo nei feudi dei Doria, ma anche nei regni di sua maestà. Al D., per tutte le questioni di cui era incaricato, il padre raccomandava di attenersi totalmente ai consigli di don Giovanni Idaquez, il ministro spagnolo la cui piena solidarietà col Doria risaliva all'epoca della guerra civile del 1575.
Fu probabilmente al ritorno dalla missione spagnola che Giovanni Andrea assegnò come abitazione al D. lo splendido palazzo in strada Nuova che era stato di Nicolò Grimaldi detto il Monarca e che, dopo essere stato oggetto di una lunga contesa giudiziaria con Ambrogio Spinola che ne reclamava l'eredità, era poi stato assegnato al principe Doria (il palazzo, dal titolo feudale del D., viene ancor oggi chiamato palazzo Tursi ed è sede del Comune di Genova).
Nelle prime fasi della sua carriera il D. sembra ripetere alcuni aspetti discutibìli della personalità del padre, spesso incapace della prudenza del vecchio Andrea Doria, come confermerebbe la prima impresa marinara di cui le cronache ebbero modo di occuparsi. Nel 1596, a capo di una squadra spagnola di dieci galee, il D. catturò nelle acque di Marsiglia due vascelli francesi, e ne condusse uno a Loano e l'altro nel porto di Genova. Il gesto era tanto più grave in quanto il console di Marsiglia, Carlo Cassaut, e il suo luogotenente avevano fatto atto di deffizione alla Spagna. Il re di Francia, Enrico IV, protestò perciò energicamente con la Repubblica per quello che, date le circostanze, considerava un vero atto di guerra di Genova, poiché le galee erano comandate dal D. e condotte da patroni genovesi, per quanto allo stipendio degli Spagnoli.
Il caso provocò molto allarme in Senato, dove si formarono due opposti partiti: quello antispagnolo, e comunque antidoriano, che giustificava col timore delle minacciate rappresaglie francesi la necessità di rispondere immediatamente al re per distinguere le responsabilità, senza interpellare né il Doria né i ministri spagnolì; quello filospagnolo che riteneva indispensabile consultare il principe e l'ambasciatore di Spagna. Ebbe la meglio il secondo e si replicò quindi ai Francesi che la Repubblica non poteva rispondere del comportamento di propri cittaffini, allo stipendio degli Spagnoli, fuori del dominio.
Il Senato genovese giustificava così il D., il quale - si disse per ordine dello stesso padre, sollecitato in tal senso dalla Spagna - tornò a Marsiglia con le galee per fomentare la ribellione della città. Ma il duca di Guisa con abile strategia seppe ridurre all'obbedienza la città e costrinse il D. ad abbandonare il porto con la flotta sotto il fuoco delle artiglierie. Giovanni Andrea evidentemente spingeva il D. a prendere decisioni personali che, per quanto criticate, non potevano essere impedite dal governo genovese, in quegli anni di prevalenza della componente filospagnola. E Giovanni Andrea poteva permettersi atteggiamenti pubblicamente sprezzanti nei confronti delle più alte autorità del governo, e proporli come modello di comportamento al figlio, abituati come essi erano ad ospitare nella spendida villa di Fassolo i monarchi d'Europa.
Cosi nel febbraio 1599, in occasione del passaggio a Genova della neo regina di Spagna, Margherita d'Austria, dell'arciduca d'Austria e del governatore di Milano (incontro ai quali il D. venne inviato a Novi per risolvere prima del loro ingresso in città problemi di precedenza dal significato politico), Giovanni Andrea li ospitò nel suo palazzo. E poiché il doge Lazzaro Grimaldi Cebà, alla testa dei senatori, non seppe rispettare le tanto discusse precedenze, Giovanni Andrea, alla presenza di tutti, lo rimproverò di inettitudine alla carica e sollecitò il D. a sostituire il doge negli incarichi previsti dall'etichetta.
Quando poi, alla fine di febbraio, il corteo reale salpò per la Spagna, al D. fu assegnato il comando dello stuolo delle galee, alcune proprie, altre spagnole, altre dell'armamento pubblico; anche queste ultime, tranne la capitana, che portava in Spagna gli ambasciatori Giovan Battista Doria e Bartolomeo De Fornari, avevano l'ordine di ubbidire al Doria.
Il cambio delle consegne tra Giovanni Andrea e il D. sembra essere stato preparato nel 1601, quando al D. fu affidata una spedizione di 17 galee contro Algeri, mentre Giovanni Andrea si congedava dal servizio del re di Spagna. Ma fu con la morte di Giovanni Andrea nel 1606 che il D. ereditò lo stuolo delle galee, circa una dozzina. Pochi mesi dopo, nel luglio, Filippo III, per garantirsi la continuità dei servigi del D. e dei fratelli, conferì l'ordine del Toson d'oro al maggiore, Andrea, e 2.000 scudi annui ciascuno al D. e al cardinale Giannettino, rispettivamente sotto forma di commenda e di pensione.
Dal 1606 il D., al comando della sua flotta, svolse servizi al soldo della Corona spagnola e della Repubblica di Genova, a volte congiuntamente a volte separatamente, proprio negli stessi anni in cui il governo genovese, ormai morto Giovanni Andrea, aveva riaperto la discussione sul potenziamento dell'armamento pubblico, per rendere Genova più autonoma dalla Spagna. Nello stesso 1606, al comando di ii galee della Repubblica, il D. partecipò ad una spedizione di 49 galee cristiane collegate contro i Turchi; quindi, nel 1609, ricevette da Filippo III l'incarico di un trasporto di 100.000 mori in Africa (e un nuovo feudo: il principato di Avella); nel 1619, come luogotenente del principe Emanuele Filiberto di Savoia, era a capo di una nuova flotta collegata (comprendente vascelli spagnoli, maltesi, pontifici, toscani, genovesi), incaricata di una spedizione contro Tunisi. Nel porto di Tunisi il D. riuscì a penetrare a capo delle sue navi nel corso di una seconda spedizione nel 1623, compiendo una impresa clamorosa e infliggendo gravi perdite all'armata nemica: in quello stesso porto in cui, in analoga impresa, nel 1574, era morto ancor giovanissimo lo zio Pagano.
Oltre che come ammiraglio, Genova si serviva del D. come mediatore, utilizzando i personali legami che egli aveva con la Corona di Spagna e i suoi alti funzionari (tra l'altro era nel frattempo diventato consuocero di Alvaro de Bazán, marchese di Santacroce, generale spagnolo in Italia, poi governatore di Milano nel 1630-31 e membro del Consiglio di Stato).
In occasione della spedizione contro Tunisi del 1619, ad esempio, la Repubblica era ricorsa al D. per cercare di modificare l'atteggiamento ostile di Emanuele Filiberto di Savoia nei confronti di Giovan Vincenzo Imperiale e della flotta genovese di 5 galee che il governo aveva inviato a Messina ad unirsi agli alleati. Per ragioni non chiarite dal carteggio ufficiale, Emanuele Filiberto, ai primi d'agosto del 1619, dopo aver a lungo tergiversato, aveva preferito consentire l'ingresso nel porto di Messina per i rifornimenti necessari alle galee dell'Ordine di Malta, negandolo invece a quelle genovesi. Il D. andò di sua iniziativa a consigliare all'Imperiale di ritirare le navi genovesi a Porta Reale con il pretesto di spalmarle; poi riuscì a ottenergli un'udienza da Emanuele Filiberto, il quale tuttavia non modificò il suo atteggiamento sprezzante nei confronti dell'Imperiale; anzi, alcuni giorni dopo trasformò in ordine categorico il divieto di approdo per le navi genovesi, con pena capitale per chi, contravvenendo agli ordini, le avesse rifornite. L'Imperiale, cui non rimase che veleggiare per Napoli, riconobbe che solo l'intervento del D. e del Santacroce aveva evitato più gravi conseguenze. Alla autorevole mediazione del D. la Repubblica era gia ricorsa precedentemente, tra il 1611 e il 1612, per risolvere un'altra questione: l'evacuazione del Sassello da parte dei soldati spagnoli, dopo che la località era stata definitivamente acquistata da Genova. Il D. fu fatto più volte intervenire, per iscritto e di persona, presso il governatore di Milano, che procrastinava ingiustificatamente l'ordine di sgombero.
La morte di Filippo III nel 1621 e la successione di Filippo IV sembrano aver inciso positivamente sulla carriera del D., che probabilmente fu subito apprezzato anche dal duca di Olivares. E mentre Genova era preoccupata delle iniziative politiche spagnole che ne limitavano i privilegi, le galee del D. mantenevano i diritti di franchigia e di precedenza che erano negati a quelle della Repubblica. La disparità di trattamento (anche se nei carteggi ufficiali si fa riferimento ai prìvilegi mantenuti alle galee dell'Ordine di Malta piuttosto che a quelle del D.) costituirà motivo di lagnanze diplomatiche in tutti gli anni successivi.
Nonostante il prevalere degli impegni con la Spagna (le galee del D. erano sempre più spesso ancorate a Maiorca) e quello che appare un crescente disinteresse rispetto alle questioni politiche interne di Genova, il D. venne utilizzato dalla Repubblica in uno dei momenti più delicati della sua storia politico-militare: la guerra di Savoia del 1625.
Carlo Emanuele di Savoia, indispettito dalla vendita di Zuccarello alla Repubblica (che gli impediva l'agognato passaggio al mare), approfittando della impegnativa fase della guerra dei Trent'anni, che teneva occupati in Valtellina gli opposti eserciti europei, concordò con la Francia l'assalto a Genova.
Impreparata a difendersi dalle forze congiunte del Savoia e del conestabile di Francia, F. de Bonne, duca di Lesdiguières, disorganizzata anche politicamente, nel tentativo di assicurare delibere pronte ed efficaci, la Repubblica aveva affidato l'autorità di governo ad una deputazione di cinque membri, i quali però, intimiditi dalla grave responsabilità, tendevano ad eludere ogni decisione importante. Dopo aver affidato il comando militare supremo a Giovanni Gerolamo Doria, che aveva acquistato esperienza nelle Fiandre ma era molto avanti nell'età, i cinque nominarono il D. governatore della città e comandante delle milizie cittadine. L'elezione del D. sollevò molte proteste, poiché, essendo anche a capo delle galee spagnole che avevano base in Genova ed essendo consuocero del Santacroce, altro ammiraglio del re di Spagna, in lui si veniva ad accentrare un potere incontrollabile, simile a quello di un governo militare d'occupazione. Comunque il D. fu onnipresente. Convinto della necessità di difendere Savona e di fortificare i passi di Gavi e di Rossiglione, che la Repubblica voleva abbandonare per concentrare tutte le difese attorno a Genova, riuscì a costringere Carlo Felice, figlio di Carlo Emanuele, a rinchiudersi nel castello di Savignone; quindi riuscì a conservare Savona e a riconquistare il Sassello.
E, al di là dei suoi personali meriti militari, proprio nel momento più critico della guerra (quando, dopo la caduta di Pieve di Teco, in cui anche il generale Giovanni Gerolamo Doria era stato fatto prigioniero, sembrava che la sorte di Genova fosse segnata e il Tesoro pubblico era portato a Portovenere), una galea del D., condotta da Stefano Chiappa, veniva ad inaugurare il felice capovolgimento della situazione per Genova. La galea, proveniente dalla Spagna, portava un milione di pezzi, raccolti da cittadini genovesi là residenti che sovvenivano alle esigenze della madrepatria. Subito dopo la galea del D. arrivava lo stuolo delle galee di Napoli, agli ordini del Santacroce: con quelle 23 galee arrivavano anche viveri e armamenti spediti dai genovesi di Napoli e 600 soldati scelti spagnoli arruolati a spese del fratello del D., il cardinale Giannettino, viceré (ad interim) di Sicilia.
Genova era salva, e l'intervento delle navi spagnole ricacciava le truppe francosabaude anche dalla occupata Riviera di Ponente. Ma, nonostante la conclusione della pace di Monzón nel marzo 1626 tra Francia e Spagna, che prevedeva tra le varie clausole la stipulazione di una tregua tra Genova e Savoia, la Repubblica sospettava l'intervento della Francia in Corsica, anche perché il duca di Guisa stava allestendo una numerosa flotta nei porti di Provenza. Perciò Genova allestì 12 galee e le affidò al D., nominato generale supremo di terra e di mare: egli salpò in aprile per la Corsica, mentre la flotta francese, incappata in una tempesta, era costretta a cercare riparo nel porto di Livorno. Venuto a conoscenza del fatto che il Guisa vi stava facendo riparare i danni alle navi, il D. drizzò le prore a quella volta e si ancorò a due miglia da Livorno. Subito il Guisa salpò direttamente per Marsiglia, seguito per tutta la navigazione dal D. a tiro di bombarda.
La Francia e il Guisa abbandonavano il temuto progetto corso; ma il compito di difesa della Repubblica che le armi spagnole avevano comunque assolto durante la guerra e la fragilità in cui essa aveva dimostrato di trovarsi senza l'aiuto spagnolo indussero Filippo IV (che nel frattempo, nel gioco internazionale della guerra dei Trent'anni, si era alleato ai Savoia, costringendo Genova a fare altrettanto) ad una decisione assai grave nei confronti della Repubblica. Con decreto 4 febbr. 1627, imitando esperienze dei suoi predecessori, sospendeva all'improvviso il pagamento dei crediti genovesi, assommanti a una stima di 9 milioni di scudi d'oro.
La Repubblica, oltre ai propri ambasciatori ufficiali, mobilitò subito il D. e il Santacroce per ottenere l'abolizione del decreto che, dato l'articolato sistema dei prestiti, minacciava di rovinare l'intera economia genovese, a tutti i livelli sociali. Il D., che riteneva l'editto reale "cosa molto prima masticata" e comportamento conveniente per Genova "procurar presto di rimediare col minor danno che si può", si incaricò di intervenire personalmente presso il re, il duca di Olivares e i suoi più autorevoli consiglieri (e l'elenco che egli stesso propone ci dà la misura delle sue relazioni politiche, economiche e diplomatiche: il confessore del re, il marchese della Puebla, il cardinal Zapata, il conte di Sernos, don Giovanni de Villela, il duca di Alcalà, il conte di Monterrey, il marchese della Hinojosa, il duca di Albuquerque). E se l'editto qualche tempo dopo faticosamente rientrò, indubbiamente anche per le difficoltà incontrate dall'Olivares nel trovare altrettanto validi finanziatori nei Portoghesi, come si riprometteva, forse qualche merito va pure riconosciuto al D., sebbene nella difesa delle "case di Spagna" egli difendesse certo anche i propri interessi.
L'episodio del '27 segnò comunque la crisi definitiva del rapporto tra Genova e la Spagna, e con essa la rapida scomparsa del partito filospagnolo che si riconosceva nei Doria. Da parte sua, il D. legò sempre più la propria carriera politica alla monarchia spagnola, tanto da essere inviato nel 1630 a Vienna come ambasciatore di Spagna. Già nell'autunno 1629 l'intervento presso la corte di Madrid di don Cesare di Guastalla, stretto parente del D., aveva ottenuto per lui il generalato a vita, trasmissibile al figlio Giannettino, mentre egli era impegnato, sul piano diplomatico-militare, per conto della Spagna, nella guerra di successione del Monferrato. Il 30 apr. 1630 il D. prese parte a Poirino alla riunione dell'alto comando delle forze spagnole insieme con Ambrogio Spinola e con il marchese di Santacroce; tra questi, in grave contrasto sul piano di guerra, il D. si offrì come mediatore.
Mentre l'assedio di Casale, contrariamente ai piani dello Spinola, si protraeva, il D. nel gennaio 1631 venne inviato a Ratisbona come ambasciatore straordinario del re di Spagna: a quella Dieta egli doveva favorire l'elezione del re dei Romani nella persona del re d'Ungheria, figlio dell'imperatore e marito della sorella del re di Spagna. Ma poiché tale questione non poté essere trattata (sia perché era estranea al programma di quella Dieta sia per la polemica assenza dell'elettore di Sassonia e di quello del Brandeburgo), dopo i provvedimenti attinenti la Germania e l'Impero le negoziazioni si ridussero alla causa della successione di Carlo di Nevers in Monferrato.
Il D., ritenendo che la pace che si stava negoziando riuscisse gravemente svantaggiosa per la Spagna e che la Francia godesse l'appoggio degli elettori che l'imperatore non contrastava, chiese insistentemente e ottenne che, non avendo egli mandato ufficiale per trattare la pace in nome del re, si scrivesse subito in Spagna e si informasse il re delle condizioni di pace, prima che questa venisse ratificata. L'ottenuta sospensione di due mesi non modificò la situazione già decisa tra Francia e Impero, ma consentì al D. di ottenere per la Spagna una serie di piccole soddisfazioni sia politiche, sia diplomatiche: gli ambasciatori degli Stati italiani, seguendo l'esempio del D., non sottoscrissero subito gli accordi, ma chiesero di recarsi in Spagna per conoscere direttamente la volontà del re, onde uniformarsi ad essa; poi, mentre a causa di questa dilazione proseguiva l'assedio di Casale, adducendo tentativi militari francesi in contrasto con i patti, il D. ottenne che l'imperatore ordinasse al Collalto di mettersi agli ordini del marchese di Santacroce, il quale, dopo la morte dello Spinola, aveva assunto il comando delle forze spagnole: capovolgendo la situazione precedente, le armi dell'imperatore apparivano cosi al servizio di quelle di Spagna, infine la dilazione del D. contribuì ad un'altra affermazione di prestigio per la Spagna: la concessione del decreto imperiale, pubblicato subito dopo la pace di Ratisbona, con cui si conferiva al re di Spagna tutta l'autorità dell'Impero contro sudditi e vassalli ribelli e contumaci.
L'intelligente fedeltà con cui il D. aveva difeso gli interessi spagnoli gli valsero, da parte di Filippo IV, la nomina a grande di Spagna, generalissimo delle squadre spagnole in Italia e presidente del Consiglio d'Italia. Nel 1647-48 il D. ebbe ancora occasione di servire la Spagna durante la rivolta di Napoli. Poiché la sollevazione del popolo napoletano era diretta non solo contro il re, ma anche contro i baroni e i feudatari, molti nobili genovesi che possedevano feudi nel Regno si armarono contemporaneamente per la causa del re e per la propria. Nel conflitto, il D. cercò di svolgere un ruolo di mediazione: ciò nonostante, fu fatto prigioniero dalle forze popolari fino all'aprile del 1648. Liberato, si adoperò nel successivo processo di pacificazione interna. Aggregato alla nobiltà del "seggio" di Nido U 19 maggio, entrò nel Consiglio del viceré; poi, giunta la flotta spagnola, fu impiegato nelle operazioni marittime contro il duca di Guisa e le forze ribelli superstiti. Rientrato a Genova tra la fine del 1648 e il 1649, vi morì il 9 genn. 1650.
Dal matrimonio con Placidia Spinola di Giannettino il D. aveva avuto otto figli: Giannettino (associato dal padre alla guida delle galee), Tomaso, Giovan Andrea, Nicolò, Domenico, Filippo, Francesco e Giovanna, poi sposa al duca di Almendroller. Giovan Andrea sposò la cugina Costanza Doria, figlia dell'omonimo Giovan Andrea [II] principe di Melfi e di Polissena Landi; premorì al padre nel 1628 per le ferite riportate combattendo contro i Turchi a Viñaroz e, unico, continuò la discendenza col figlio Carlo.
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