GADDA, Carlo Emilio
Nacque a Milano il 14 nov. 1893 da una famiglia originaria di Fagnano Olona, presso Varese.
Il padre, Francesco Ippolito, fratello di un ministro dei Lavori pubblici nel governo Lanza - Sella, aveva lavorato a Milano in una azienda tessile, la Ronchetti & C., e nel 1866 aveva sposato la figlia del titolare della ditta, Emilia Ronchetti, morta di parto alla nascita di una bambina; si risposò nel '93, con l'insegnante di francese Adele Lehr, di famiglia ungherese, da cui ebbe tre figli, Carlo Emilio, Clara ed Enrico. Francesco Ippolito si trovò poi ad affrontare ingenti difficoltà economiche in seguito al fallimento del tentativo di avviare un allevamento del baco da seta, in un momento di crisi della seticoltura italiana causata dalla concorrenza giapponese.
Di questo padre, "industriale e idealista", il G. ricorderà, in tante occasioni, le speculazioni avventate e l'assurdo impegno economico per costruire una casa a Longone, in Brianza: quella villa dispendiosissima che assurgerà nelle pagine gaddiane - soprattutto nella Cognizione del dolore - a simbolo della dissennatezza e della irrazionalità dei comportamenti familiari.
Quando Francesco Ippolito morì, nel 1909, toccò ad Adele affrontare sacrifici per mantenere i figli agli studi: il G. conseguì la licenza liceale nel 1912, con 10 in italiano. Si iscrisse quindi alla facoltà di ingegneria presso l'Istituto tecnico superiore di Milano; questa carriera di studi - cui era spinto, insieme con il fratello Enrico, di tre anni più giovane, dalle aspettative della famiglia che la considerava quasi una scelta obbligata, dati i problemi economici - si scontrava in realtà con i suoi interessi letterari: se "a quattordici anni avevo preso il malvezzo di scriver versi", dirà di sé in una pagina autobiografica, intense sono per il G. le letture di classici della poesia e del romanzo (da Dante ad Ariosto, da Cervantes a Salgari, a Verne), che vanno a formare una cultura da un lato tradizionale, ma pure curiosa e sensibile a ogni novità.
Convinto interventista, dopo aver fatto domanda di arruolamento, nel giugno 1915 Gadda finalmente ricevette la chiamata: combatté sul Tonale, sull'Adamello, sul Carso, sull'Isonzo, con la brigata Cuneo, con il 3° e poi con il 5° reggimento alpini. È un momento decisivo della sua vita interiore: guarda alla guerra come a una "dolorosa necessità razionale", in cui mettere alla prova il suo senso morale e civile. Ma ciò che incontra sul fronte non è l'occasione di "trovare nell'autodisciplina una dignità individuale e nazionale", piuttosto - come il G. testimonia nel fondamentale Giornale di guerra e di prigionia - quella miscela di cialtroneria e irresponsabilità, di stupidità e di cinismo che caratterizza la guida militare e che inficia ogni comportamento sul campo: la consapevolezza di tutto ciò lo getta nella rabbia e nella depressione, tanto da spingerlo a scrivere che il proprio nemico non è tanto l'esercito austriaco, quanto "la sensibilità e l'eccitabilità che atterrisce ad ogni ostacolo".
Appartiene a questo periodo il primo degli epistolari, così preziosi per ricostruire le vicende biografiche e la maturazione stilistica del G.: si tratta di un corpus di 20 lettere inviate a tre colleghi del corso di ingegneria tra il 1915 e il '17, dunque testimonianze dirette dagli scenari della guerra (Lettere agli amici milanesi, Milano 1983). Ma ciò che rende più interessanti questi testi è la possibilità di cogliervi il momento iniziale dell'espressionismo gaddiano, quel modo rocambolesco e magistrale di lavorare sui significanti (neologismi, neoformazioni, arcaismi, ecc.) che diventerà fondamentale nel G. maggiore.
Nell'ottobre del '17, la depressione che accompagna le giornate di guerra sembra fargli toccare il fondo: in seguito alla disfatta di Caporetto, G. è fatto prigioniero e deportato, prima a Rastatt nel Baden, quindi a Celle, nello Hannover. La permanenza nel campo di prigionia è in parte mitigata dall'incontro con due letterati quali B. Tecchi e U. Betti, con cui dividerà la baracca di internamento: la sofferenza psicologica, la visione angosciante di una lunga serie di scacchi esistenziali (scrive: "ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l'umiliazione della malattia […]. Non ho avuto amore, né niente. L'intelligenza mi vale soltanto per considerare e soffrire") segnano profondamente l'animo del G., ribaltando completamente le aspettative per l'impegno bellico come prova etica.
Tutte queste sofferte esperienze si ricostruiscono nel Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato per la prima volta in volume a cura di A. Bonsanti (Firenze 1955; ma il testo va integrato con il Taccuino di Caporetto, ottobre 1917 - aprile 1918, Milano 1991). Contenuto in sei quaderni o block-notes, il diario riguarda il periodo tra il 24 agosto del 1915 e il 31 dicembre del 1919 e narra gli eventi della guerra di trincea; quindi la reclusione prima nel campo di Rastatt, poi di Celle.
Sono pagine indispensabili per comprendere le motivazioni più profonde, intellettuali e psicologiche, del futuro scrittore. Il ventiduenne G. si scontra con un mondo militare segnato dal disordine e dall'approssimazione, dalla furbizia e dalla cialtroneria, tutto molto lontano da quei valori di ordine e di impegno morale che avrebbe voluto informassero la prova della guerra: la sfasatura, continuamente registrata, tra lo sforzo di darsi una disciplina interiore rigorosa e l'osservazione della bassezza intellettuale e morale di coloro a cui sono affidati ruoli di responsabilità. Tra la confessione della propria depressione, indignazione, risentimento, la partecipazione ai dolori di quanti dividono con lui i disagi derivati dall'irrazionalità dei comandi, il sarcasmo sui continui, grotteschi, piccoli o grandi drammi della vita di trincea, l'amarezza per la sconfitta e per le miserie della prigionia, la narrazione gaddiana disegna un mondo di ideali e risentimenti, di euforie e di malinconie: la timidezza, l'"eccitabilità che atterrisce ad ogni ostacolo, ad ogni prova", l'invidia per colui che "non pensa troppo, che non si macera in mille considerazioni, che non pondera i suoi atti col bilancino", già delineano quello che sarà l'universo psicologico della narrativa gaddiana, tra nevrosi, acuto senso etico, partecipazione sofferta, "manzoniana", alle vicende degli umili, sarcasmo aggressivo verso l'irrazionalità e l'insensatezza dei comportamenti dominanti. Per descrivere e giudicare tutto questo, il G. intuisce che gli è indispensabile forgiarsi una lingua propria, diversa da quella comune, costruita con i materiali più vari, ma tesa a mettere in scena le dinamiche degli umori, dei giudizi, delle riflessioni; è così che, accanto al registro piano, quotidiano, appena increspato dall'invettiva della maggior parte delle pagine, troviamo l'accensione improvvisa di una lingua in cui si mescolano la deformazione ludica, l'arcaismo parodico, il neologismo sintetico, l'espressivismo popolareggiante, con quell'effetto di abbassamento del piano drammatico che P.P. Pasolini definì efficacemente uno "schermo pudico". Insomma comincia a delinearsi quella vocazione "maccheronica" - secondo la definizione di G. Contini - che costituisce la prospettiva più innovativa e dirompente della scrittura gaddiana.
La crisi psicologica del G. si acuisce all'atto della liberazione, avvenuta nel gennaio del 1919: tornato a Milano, apprende la notizia della morte del fratello Enrico, aviatore, precipitato con il suo aereo (dal Giornale: "Enrico, tu non eri mio fratello, ma la parte migliore e più cara di me stesso").
Nel '20 consegue la laurea in ingegneria elettrotecnica; nel '22 andrà a lavorare in Argentina per la Compañia general de phosphoros. Nel '24 è di nuovo a Milano e lavora a un testo che diverrà il Racconto italiano del Novecento: prima, significativa testimonianza dell'approccio del G. alla forma-romanzo, che nasce proprio dal confronto con una nozione ottocentesca del genere ormai in crisi. La stesura di questo primo abbozzo - per ammissione dello stesso autore - sarebbe stata sollecitata da un concorso indetto, nel '24 appunto, dalla Mondadori.
Il G. agisce su due piani, uno progettuale e teorico, l'altro esecutivo, "il primo costituito da "note compositive" e "note critiche" (distinzione tra i problemi della forma del contenuto, personaggi, intreccio, ecc., e i problemi di forma della scrittura), il secondo dagli "studi", cioè i veri e propri "tentativi di composizione", "pezzi di composizione" da inserire nel romanzo" (D. Isella). Il racconto è ambientato nell'Italia del primo dopoguerra, alle soglie dell'avvento del fascismo: ma il progetto gaddiano non è quello di comporre un romanzo storico, piuttosto di rappresentare drammaticamente - narrando le spedizioni punitive contro i circoli dei lavoratori - "l'istituto delle combinazioni", l'"oscura" rete delle relazioni causali, che è impossibile indagare esaustivamente e che conduce dunque a una accezione novecentesca di romanzo come disegno inevitabilmente parziale della realtà. Altro problema di tecnica narrativa, qui affrontato dal G., è quello del "punto di vista" da cui condurre la rappresentazione, o quello del narratore ("ab exteriore", come egli lo definisce), o quello del personaggio ("ab interiore"). In relazione a questo problema, il G. analizza gli stili da lui sperimentati, sempre scelti secondo l'intuizione-passione del momento: la "maniera" logico-razionalistica, l'umoristico-ironica, manzoniana, l'enfatica, tragica, "meravigliosa 600"; infine la maniera cretina, con stupefazione- innocenza-ingenuità. Le note teoriche e critiche convivono, nella medesima pagina, con la stesura frammentaria del racconto stesso: l'esito è quello di un work in progress, in cui si modificano via via gli schemi narrativi, sotto la costante "correzione" suggerita dalla riflessione teorica. Alcune categorie attive nella riflessione gaddiana (ad esempio il momento lirico-intuitivo) sembrano rimandare senz'altro al pensiero crociano, e non è difficile pensare che l'approccio letterario del neoingegnere lo spingesse a riferirsi alla koiné critica dominante, appunto quella derivata dal pensiero di B. Croce, pur all'interno di una calibrata architettura della macchina narrativa che parrebbe attestare una precisa consapevolezza formalistica. Starà proprio alla cultura non umanistica e all'empirismo conoscitivo del G. correggere il percorso in direzione di una ricerca metanarrativa e metalinguistica, di segno radicalmente opposto all'idealismo crociano.
L'insegnamento di matematica e fisica presso il liceo Parini di Milano permette al G. di riprendere gli studi filosofici universitari che concluderà nel '25, senza però discutere la tesi di laurea dedicata a Lateoria della conoscenza nei "Nouveaux Essais" di G.G. Leibniz, uno dei filosofi che, insieme con B. Spinoza e con I. Kant, maggiormente inciderà sulle sue riflessioni estetiche, etiche e gnoseologiche.
Risale all'agosto del '24 il celebre saggio Apologia manzoniana, dieci pagine scritte di getto e pubblicate su Solaria. Siamo ancora in un momento di intensa riflessione teorica sul ruolo dello scrittore e della letteratura: se nel Racconto aveva individuato nella maniera ironico-seria del Manzoni il suo stile più congeniale, nell'Apologia il G. presenta un tentativo di identificazione pressoché totale. Guarderà infatti al Manzoni per la contaminazione grottesca che nasce dalla "mescolanza degli apporti storici e teoretici più disparati", per la capacità di prendere le distanze dalla "vacua magniloquenza" dell'accademia, ma soprattutto per quell'imprescindibile istanza etica che lo spinge a parlare di umili con il loro linguaggio e con le loro consapevolezze.
Dal 1925 al '31 è alle dipendenze della Società Ammonia Casale di Roma, per conto della quale viaggerà in Italia e in Europa. Sono questi gli anni in cui stringe amicizia con i letterati e artisti che frequentavano i caffè letterari fiorentini (oltre ai citati Tecchi e Betti, E. Montale, U. Saba, G. Debenedetti).
Nel 1928 scrive il saggio filosofico Meditazione milanese: frutto dei corsi di filosofia a Milano, sarà pubblicato postumo a cura di G. Roscioni (Torino 1974).
Muovendo da un'impostazione derivata dal pensiero di Leibniz, Kant e Spinoza (meno evidenti e dichiarati sono i debiti con i pensatori contemporanei, soprattutto P. Martinetti di cui seguì i corsi universitari), il G. va configurando la realtà come un sistema complesso di relazioni causali, e l'atto di conoscenza come un processo di deformazione che coinvolge non solo l'oggetto, ma lo stesso soggetto conoscitore, privo di un solido e omogeneo metodo gnoseologico, ma capace di elaborare emotivamente un grado di autocoscienza tale da consentirgli una visione unitaria del reale. La posizione gaddiana è essenzialmente "costruttivistica": l'analisi di un sistema va integrata tenendo conto della molteplicità dei sistemi e delle relazioni che si stabiliscono tra loro; ma le matrici di questa posizione sono biologiche e vitalistiche, e ciò sposta la lettura del reale verso le problematiche dell'esperienza e dei processi organici. La visione del mondo che emerge dalla Meditazione informerà tutta l'attività letteraria dell'Ingegnere (come la critica ha in uso definirlo, sottolineandone la formazione non letteraria; scrive Roscioni nella Introduzione alla Meditazione milanese: "per chi in Gadda studi la "letteratura", la presenza accanto ad essa della "filosofia" non indica un prima o un al di là della "letteratura", quanto piuttosto l'estrema consapevolezza dei problemi conoscitivi sottesi alla "deformazione" espressiva dello scrivere […]. Gadda è forse l'unico scrittore italiano di questo secolo, le cui opere, i cui sistemi di motivi, di rapporti, di temi debbano il proprio statuto teorico a una ricerca fondamentalmente autonoma").
Comincia a collaborare alla rivista Solaria, pubblicando le prose narrative: Cinema (marzo '28), S. Giorgio in casa Brocchi (giugno '31), La meccanica: Le novissime armi - Papà e mamma - L'armata se ne va (luglio-agosto '32), La Madonna dei filosofi (settembre-ottobre '32), Il castello di Udine ('34) vincitore del premio Bagutta nel 1935; brevi saggi critici come I viaggi la morte (aprile '27) e numerose recensioni. Nel '31 inizia la collaborazione - che durerà circa un decennio - con L'Ambrosiano, dove pubblica prevalentemente scritti di carattere tecnico e ingegneristico e interventi a favore del programma autarchico e della politica economica del regime fascista, pur se mai cede alla tentazione del facile ottimismo tipico della cultura scientifica ufficiale di quel periodo. Dal mese di ottobre del '32 fino all'agosto del '33, il G. collabora con l'Italia letteraria; nel '34 col quotidiano torinese Gazzetta del popolo; la sua firma appare inoltre su Letteratura, Campo di Marte, Tesoretto, Il Giornale d'Italia.
Alla fine del decennio si collocano le prime prove narrative: il romanzo incompiuto La meccanica, la prima, complessa organizzazione romanzesca affrontata dal G. nel '28, si presenta con i tratti che saranno caratteristici dei romanzi gaddiani più importanti, in particolare la mescidanza linguistica - dal dialetto al gergo tecnico, al linguaggio filosofico.
La vicenda - un intreccio sentimentale sullo sfondo della Milano popolare del primo dopoguerra - offre il pretesto per efficacissimi scorci d'ambiente, vividi ritratti, soprattutto femminili, come quello della protagonista Zoraide, prototipo delle popolane che troviamo in tante altre pagine del G., aggressive eppure come pacificate nella serena carnalità del loro corpo. Accanto agli scorci di una società ambrosiana sullo sfondo della Grande Guerra, tra la Società umanitaria (cui il G. dedica un'ironica cronistoria) e l'Avanti!, passioni per la tecnica e la "meccanica" e aspirazioni a un miglioramento di classe, emerge, in tutto il romanzo, quel forte senso della fisicità che affiora nelle amorose descrizioni di oggetti isolati (la bicicletta, il formaggio), nel gusto per il catalogo e per la caratterizzazione materiale dei personaggi: mentre l'intreccio di registri linguistici diversi si realizza tanto nella costruzione di eufemismi beffardi, sarcastici, quanto nel plurilinguismo mimetico (i dialetti, i gerghi, i linguaggi tecnici, gli stereotipi della cultura popolare).
In questo primo tentativo di romanzo, il G. scopre la definitiva impossibilità di racchiudere la propria prosa nelle forme chiuse tradizionali, con la necessità dello scioglimento dell'intreccio e l'ambiguità delle sintesi narrative; al contrario va maturando una scelta in direzione dell'analisi minuziosa, dell'accumulo di particolari, della passione per le cose e per le persone che si traduce poi nell'istanza costante del giudizio etico, da enunciare anche attraverso la deformazione linguistica.
Nel 1931 il G. lascia l'Ammonia Casale per un impiego presso i Servizi tecnici del Vaticano, come reggente della sezione tecnologica dell'Ufficio centrale: in tale veste allestì la centrale elettrica voluta da Pio XI; si dimetterà da tale incarico nel '34, "per ragioni di salute".
Ancora nel '31 il G. pubblica - grazie alla mediazione di Tecchi, allora direttore del Gabinetto Vieusseux - nelle edizioni fiorentine di Solaria, rivista che pure aveva anticipato, tra il '21 e il '28, molte di queste pagine, il suo primo volume, la raccolta di racconti La Madonna dei filosofi.
Forti sono le componenti autobiografiche nel testo che dà il titolo alla raccolta (i riferimenti espliciti ai dissesti finanziari e alla villa di Longone, il personaggio dell'ingegner Baronio, appassionato di filosofia e nevroticamente indignato perché "il mondo del dopoguerra gli pareva troppo sciatto, troppo volgare, troppo dominato dal caffè-concerto"); un intreccio sentimentale si offre da pretesto per mettere in campo molteplici piani narrativi, mimetici di quella complessità del reale in cui si inscrivono le vicende tragicomiche della borghesia lombarda. In relazione a tali vicende domina la passione per le genealogie, per i cataloghi, pur all'interno di un impianto linguistico più compatto, con minori escursioni deformanti rispetto a quanto in seguito ci abituerà il G.: è il registro più disteso, giocato su una più pacata ironia o su una solenne drammaticità che ritroveremo nella Cognizione del dolore. Importanti anche altri racconti del volume come Teatro e Cinema (che il G. definisce, in una lettera a Tecchi, "esametri e pentametri di un unico distico"), apparsi nel '28 in rivista, medaglioni complementari di due riti sociali dedicati allo spettacolo, messa in scena grottesca del kitsch borghese che accompagna un'opera lirica il primo, divertita avventura di un ragazzo "perbene" nel mondo popolaresco di un cinema, con l'applicazione magistrale dell'osservazione minuziosa dei materiali più "bassi" (i detriti che ingombrano il marciapiede prospiciente il cinema), il secondo. Tecnica questa che è quasi una provocazione rispetto ai preziosismi di quella prosa d'arte, soprattutto d'ambiente fiorentino, su cui Gadda si era formato e di cui sono esercizi esemplari gli Studi imperfetti, pure raccolti nel volume.
È del 1928 Manovre di artiglieria di campagna che riprende i temi bellici annunciati nel Giornale per trasfigurarli in un registro lirico-espressionista, che oscilla tra l'immagine da sintesi futurista ("spring-granata, saltimbanco del rosso demonio"), l'eufemismo ironico, la descrizione liricizzante.
Per le stesse edizioni di Solaria, il G. pubblicava un'altra raccolta di prose narrative, Il castello di Udine (Firenze 1934), anche in questo caso ampiamente anticipate (sulla stessa Solaria, l'Italia letteraria, L'Ambrosiano). Nuclei omogenei sono costituiti da prose di guerra (la Parte prima), derivabili da quel Giornale di guerra e di prigionia che rimarrà sconosciuto fino al '55; e da scritti di reportage crocieristico (la Parte seconda), in cui il G. può mettere alla prova le doti virtuosistiche di narratore-descrittore di paesaggi umani e naturali. Nelle altre due sezioni, più disomogenee, il G. raccoglie quasi tutta la propria produzione tra il 1931 e il '33.
Sia negli itinerari della crociera (raccontati con una epicità dissonante rispetto all'ottuso conformismo dei viaggiatori), sia nei racconti di tema sentimentale o nelle descrizioni d'ambiente, è da cogliere - come ha scritto Contini - "quanto di risentimento, di passione e di nevrastenia covi dentro al fatto del pastiche". Premesse al volume sono le pagine programmatiche di Tendo al mio fine, ironica affermazione di una volontà di ottimismo ad oltranza, malgrado la condizione di "umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla", tesissimo esempio di un pastiche di drammatico parodismo.
Il 4 apr. 1936 la madre Adele muore a Milano: il G. può così vendere la villa di Longone e inizia a scrivere il romanzo La cognizione del dolore, di cui le prime sette sezioni appaiono su Letteratura tra il 1938 e il '41 (nei numeri 7-17). Nel '40 si trasferisce a Firenze ("manzonianamente… e anche un po' come un inglese senza quattrini del '700") dove porta a termine la stesura dei "disegni milanesi" dell'Adalgisa (Firenze 1944), ironico "ritratto di famiglia" della borghesia lombarda dei primi decenni del secolo. Sotto questo titolo si raccolgono dieci racconti - pubblicati separatamente, a partire dal '38, su diversi periodici e passati poi all'edizione in volume con varianti significative - che presentano collegamenti, rimandi, ricorsi di personaggi: probabilmente il G. aveva progettato un testo narrativo più complesso, ma si arrestò alla composizione di numerosi tratti, che preferì poi presentare come una raccolta di "disegni", uniti da analogie e corrispondenze tematiche: sottesa alla narrazione è la prospettiva di un grande affresco storico, dedicato a una società còlta in una fase di crisi imminente, costruito sulla successione delle generazioni in cui individuare - secondo una tipica prospettiva gaddiana - la matrice delle delusioni e dei fallimenti che lo scrittore ha sofferto. Lo stile mostra la raggiunta maturità della straordinaria vena creativa del G., capace di orchestrare il plurilinguismo (dialetto, linguaggi tecnici e letterari), sia in senso mimetico sia nella dimensione di una messa in scena caricaturale.
Esce quindi Le meraviglie d'Italia (ibid. 1939), raccolta di elzeviri, scritti saggistici e giornalistici, in precedenza apparsi soprattutto su L'Ambrosiano e sulla Gazzetta del popolo tra il 1938 e il '39. Il titolo che, tra ammirazione enfatica e ironia, evoca i Mirabilia medievali, allude ai luoghi dove il G. ha vissuto e lavorato, da Milano (i macelli, la Borsa, il parco, la Fiera, il mercato di frutta e verdura di Porta Ludovica) all'Abruzzo (il Gran Sasso, Collemaggio a L'Aquila, la Marsica), dalla Brianza alle Alpi apuane, al Carso, e ancora l'Argentina e la Francia.
Anche in queste pagine, l'amara affermazione di costanti autobiografiche - il sentirsi disperso e precario, il male di vivere - dinanzi alla contemplazione delle bellezze naturali o delle vestigia storiche, si placa nella "passione per la perforante urgenza dell'analisi, che si traduce in icasticità di segno e violenza di immagini emblematiche" (Ferrero). Sembra trovare conforto nella riflessione su un disegno razionale che presiede alla vita animale e vegetale, disegno che si scontra con il dissesto provocato dagli uomini: è così che la sua attenzione di osservatore e di "storico" si ferma sulle prospettive millenarie in cui sono maturate le forme recenti degli organismi naturali e dei paesaggi.
Nei primi anni Quaranta il G. collaborò con Panorama, La Nazione, Primato delle lettere e delle arti, Il Tempo, La Fiera letteraria e Beltempo. Tra il 1939 e il '45 pubblicò in rivista alcuni brevi testi che andranno a comporre - insieme con altre prose scritte per l'occasione nel 1951 - Il primo libro delle favole (Venezia 1952): raccolta di incisivi apologhi in un divertito fiorentino antico, edita dopo un lavoro di revisione dei primi testi mercé uniformazione linguistica con il secondo blocco più recente. Racconti compositi, riscritture di favole esopiche, scherzi, facezie, boutades, sarcasmi contro i miti storiografici, l'ignoranza borghese, la retorica nazionalista, memorie autobiografiche, bozzetti coloriti. È del '43 una nuova silloge di prose giornalistiche, Gli anni, ristampata insieme con Le meraviglie d'Italia (Torino 1964). Nel '44 è temporaneamente a Roma, portatovi dal Comando inglese con un gruppo di profughi sfuggito ai bombardamenti di Firenze. Dal 1945 al '47 numerosi suoi articoli appaiono su Il Mondo e sul Mondo europeo, giornale letterario ideato da A. Bonsanti, con la collaborazione, oltre che del G., di Montale: compaiono qui le prime recensioni teatrali gaddiane, cui seguiranno quelle del Giovedì (1952-53). Una raccolta di saggi critici, recensioni, discussioni, interviste, affermazioni di poetica sarà pubblicata con il titolo I viaggi la morte (Milano 1958), sull'onda del successo del Pasticciaccio, presentato in volume l'anno prima: ma il progetto della raccolta risaliva al '45, anche se prevedeva una silloge di scritti più ampia dei ventiquattro dell'edizione garzantiana.
Divisi in tre sezioni, la prima presenta scritti di immediato riferimento al lavoro dello scrittore, riflessioni sul metalinguaggio: testi fondamentali per mettere a fuoco la poetica gaddiana quali Come lavoro, del '50, Meditazione breve circa il dire e il fare, del '37, Psicanalisi e letteratura, del '49, Lingua letteraria e lingua d'uso, del '42, Fatto personale… o quasi, del '47. La seconda raccoglie recensioni o interventi più specificamente attenti a problemi testuali: Arte del Belli pone l'importante problema della matrice popolare dell'espressività belliana. Infine la terza sezione presenta due scritti, datati 1950 e '54, Emilio e Narcisso e L'egoista, d'argomento psicanalitico, che testimoniano la forte attenzione, sia pure espressa talora in modo approssimativo, mostrata dal G. per gli esiti creativi delle dinamiche del profondo.
Il dopoguerra coincide con una stagione di intensa attività creativa: inizia la stesura di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, che esce in cinque puntate su Letteratura, dal gennaio al novembre 1946, con "ulteriori soprassalti applicativi" nel '48 e nel '49. Tra la fine del '44 e il '45 (dunque tra Roma e Firenze) scrive Eros e Priapo, feroce pamphlet antimussoliniano, improntato alle categorie e al lessico della psicanalisi (pubblicato a Milano solo nel 1967).
In queste pagine di esasperata espressività, il G. intende disegnare i processi psicologici che furono alla base del consenso ottenuto dal fascismo e soprattutto dal duce: scoprire "il sostrato "erotico" del dramma ventennale testé chiuso" con un testo "a carattere irruente, e redatto con estrema libertà di linguaggio": nelle forme di un trattato cinquecentesco, in una lingua arcaizzante infarcita di dialettalismi, neologismi, tecnicismi, il G. descrive le pulsioni erotiche sottese al culto degli Italiani - e naturalmente soprattutto delle donne, con un aspro accento misogino - per il duce e le trombonesche esibizioni di virilità da questo praticate, entrate a far parte di quell'ideologia di regime che faceva leva sugli istinti più bassi, animaleschi, della folla. Con un taglio di grande originalità, contaminando la riflessione saggistica con inserti narrativi e descrittivi di evidenza icastica, il G. ripercorre i meccanismi che sono andati imponendo alla passività femminea, stuzzicata dal vitalismo paraerotico dei miti fascisti, il culto per un Priapo che diviene così una sorta di maschera demoniaca del potere, l'autorità cui sacrificare i figli, mandati dissennatamente alla guerra, il denaro, sperperato per spie e clienti, la tradizione culturale, ridotta a messinscena da operetta. Agli occhi dello scrittore, il fascismo rappresenta il punto più basso a cui si è ridotta la società italiana dopo la fase di maturazione colta nell'età del positivismo; il quadro spietato dei meccanismi del consenso si traduce in un'invettiva interminabile, con immagini di derisione esasperata ("con que' du' grappoloni di banane delle du' mani che gli dependevano a' fianchi, rattenute da du' braccini corti corti…"). Una prova magistrale d'invenzione linguistica, anche di là da un'analisi sicuramente approssimativa, che rivela costantemente un'istanza d'ordine e di efficienza delusa dal fascismo come molla principale del risentimento.
Attraverso la mediazione di G.B. Angioletti, dall'ottobre del 1950, il G. è assunto alla Rai - Radio Audizioni Italia (dal 1954 Radiotelevisione italiana): fino al '53 è responsabile delle rubriche settimanali d'informazione culturale del terzo programma, scegliendosi collaboratori come R. Longhi, S. D'Amico, G. Devoto, B. Migliorini, V. Branca. Finalmente il G. può assaporare una certa stabilità economica e il piacere di poter gestire autonomamente il proprio lavoro, con scrupolo e competenza: testimoniano tale attenzione le Norme per la redazione di un testo radiofonico, stese nel '53, le cui osservazioni derivano da considerazioni di carattere pratico, prima fra tutte l'esigenza che l'ascoltatore possa fruire di un servizio serio e di facile accesso. Si lega di rapporti affettuosi - a dispetto della sua fama di nevrotico e umorale - con i colleghi P. Stella, G. Cattaneo, L. Piccioni. Ma nel '55, avendo ottenuto una retribuzione mensile da Garzanti per la revisione del Pasticciaccio, decide di lasciare la Rai, motivando le dimissione con l'eccessivo impegno di lavoro e gli scarsi riconoscimenti ottenuti. Coglie l'occasione per dedicarsi totalmente alla letteratura che, da questo momento, lo assorbirà totalmente. Strettamente collegati al lavoro radiofonico sono I Luigi di Francia, composto nel 1950 (Milano 1964): medaglioni dedicati a tre re francesi - Luigi XIII, XIV e XV - destinati agli ascoltatori della radio e perciò scritti in una lingua piana, scevra di ironie, allusioni, impennate satiriche; domina invece una narrativa attenta a restituire con vivacità e precisione, sulla scorta della documentazione fornita dagli storici e dai memorialisti (da Michelet a Lefebvre, da Saint-Simon a Mme de Sévigné), caratteri ed eventi di una storia sempre sul filo del romanzesco: intrighi, eroismi, scontri sociali, corruzioni. Qui il G. mostra il suo volto di narratore puro, sia pure "minore", abile nel disegnare scorci e ritratti, questa volta non alla ricerca dell'effetto barocco, ma del tratto secco e sintetico. Allo stesso periodo appartiene il radiodramma satirico Il guerriero, l'amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (composto nel 1958 e trasmesso il 5 dicembre di quell'anno sul terzo programma della Rai; portato in teatro a Roma, sarà in quello stesso anno pubblicato, Milano 1967).
Le tre voci dialoganti (una virile baritonale, un'altra maschile, acuta e sguaiata, una femminile gentile) mettono in scena una parodica diatriba intorno al personaggio di Ugo Foscolo, uno fra i letterati italiani più odiati dal G., preso ad esempio di una letteratura che tende allo "spettacolo", alla seduzione più esteriore, alla retorica più vuota. In Foscolo è colpito il mito del poeta-vate, l'eroe della patria che approfitta della sua fama per sedurre donne; "il Basetta" (così il G. lo sbeffeggia) preso a simbolo del narcisismo, dell'esibizionismo, del culto retorico per una classicità vuota e puramente ornamentale; diviene oggetto dell'ira gaddiana, ancora una volta espressa da una macchina verbale dai molteplici registri, che mette in scena anche la parodia della discussione letteraria da salotto, degno contraltare, per vuotaggine e presunzione, del mito foscoliano.
A Firenze nel '53 era frattanto apparsa la raccolta di racconti Novelle dal Ducato in fiamme (ripresa e ampliata fino a comprendere 19 testi scritti tra il 1924 e il '58, con il titolo di Accoppiamenti giudiziosi, Milano 1963). La forma narrativa breve si presenta come la misura più naturale per la scrittura gaddiana che, come si è detto, nasce nel contesto del frammentismo della prosa d'arte e dunque è maggiormente efficace sul ritmo meno esteso e più concentrato; accanto a racconti esemplari di questa costruzione narrativa come L'incendio di via Keplero (del '40) o S. Giorgio in casa Brocchi (del '31), molte altre pagine rimandano a situazioni e personaggi destinati a organizzarsi in architetture narrative più complesse, nell'Adalgisa o nella Cognizione del dolore: dunque il racconto si presenta come un banco di prova, di sperimentazione, per le tecniche stilistiche e linguistiche da cui nasceranno le strutture più complesse dei romanzi gaddiani. Pubblica, nel corso dell'intera sua carriera creativa, 7 poesie - in un arco di tempo che va dal 1912 al '52 - in cui sono stati riconosciuti echi leopardiani, pascoliani ma anche di W. Whitman, come lo stesso autore sottolinea per le sue prove più antiche. È anche autore di traduzioni dallo spagnolo: Il viaggio di saggezza, traduzione de La peregrinación sabia di Alonso J. de Salas Barbadillo, e Il mondo com'è, traduzione di El mundo por de dentro di F. Gómez de Quevedo, entrambe pubblicate in Narratori spagnoli, a cura di C. Bo (Milano 1941); nonché La verità sospetta, traduzione de La verdad sospechosa di J. Ruiz de Alarcón, pubblicata in Teatro spagnolo del secolo d'oro (Torino 1957).
Nel 1957 il G. completa la raccolta in volume dei capitoli di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, eliminando quei tratti che potevano rendere meno efficace il "giallo" al centro della narrazione. La pubblicazione del volume (Milano 1957) porta il nome del G. al grande pubblico, lo segnala come un caso letterario, su una scena culturale che assisteva al tramonto delle problematiche del realismo e all'avvento di teorie e prospettive aperte verso la ricerca e la sperimentazione linguistica.
Nel '47 il G. aveva preparato anche un trattamento per una versione cinematografica del romanzo, che non sarà tuttavia utilizzato, col titolo Il palazzo degli ori (apparso postumo, Torino 1983). Celebre resta, comunque, la trasposizione cinematografica del Pasticciaccio diretta da P. Germi (Un maledetto imbroglio, 1960).
Le inchieste per un duplice fatto criminoso - un furto di gioielli e l'assassinio di Liliana Balducci, una ricca borghese ossessionata dal problema di una maternità mancata - avvenuto in un palazzo di neo-ricchi, nella romana via Merulana, conducono il commissario Ingravallo, alter-ego dell'autore, votato alla ricerca delle "cause" (delle molteplici "causalità convergenti", non di una causa al singolare) di ogni fatto, ad addentrarsi nei meandri dell'umanità che gremisce una Roma che il pugno di ferro del regime tenta di ridurre a un fittizio ordine di facciata. Costui si imbatte in personaggi ambigui, in piccoli criminali, nell'universo suburbano di Zamira, una maga-ruffiana che organizza vari traffici illegali, servendosi di uno stuolo di giovani apprendiste. Affidate anche ai carabinieri, nella persona del brigadiere Pestalozzi, le indagini danno buon esito per quanto riguarda il recupero dei gioielli, ma la ricerca dell'assassinio si arresta, nel corso degli interrogatori di alcune ragazze legate a Zamira e presenti in casa Balducci come cameriere, dinanzi al drammatico diniego di una delle sospettate. La trama del "giallo" che fa da supporto all'architettura complessa della narrazione, si chiude con un effetto di "non finito" che è uno dei caratteri più evidenti dell'originale impostazione del romanzo. Tutto in realtà va ricondotto alla messa in crisi della logica del romanzo naturalista, fondata sul rapporto univoco e lineare di causa-effetto. Qui, come si è detto, tutto si svolge sul filo della coscienza esasperata della complessità dell'universo naturale come di quello umano, per cui, da un lato è impossibile fermarsi a un'unica motivazione dei fatti, ma dall'altro ogni relazione causale individuata rimanda ad altre, in una infinita rete di connessioni che rendono ogni cosa deposito delle tracce di altre cose e ogni individuo responsabile di quanto riguarda altri individui, magari lontani e diversi. Indagare allora su un delitto, vuol dire, eticamente, ricercare le cause profonde del Male ("muta forza di un pandemonismo della campagna e della terra"), trovarne le cause nella storia biologica di un'umanità fatta di un groviglio di umori e di sentimenti, un "pasticciaccio", un groviglio, uno "gliuommero", come dice Ingravallo, impossibile a sciogliere e difficile da descrivere. Sul piano narrativo, della forma del romanzo, il modello dell'indagine, teso a recuperare i piani molteplici della realtà, si struttura su un'infinita serie di digressioni che allargano costantemente la prospettiva del racconto a una serie di eventi, personaggi, voci che s'intrecciano e rimandano l'un l'altro. I dettagli fisici di alcuni dei protagonisti, ma anche i particolari amplificati di oggetti o di atti colti quasi al rallentatore, come per enfatizzarne la fisicità, testimoniano continuamente la materialità di un universo scandito da una geologia - e una genealogia - che illustra le stratificazioni delle cose e delle coscienze. Come per i gioielli ritrovati in una povera baracca dal Pestalozzi, tutto, gli oggetti e gli individui, porta dentro di sé le tracce della storia che lo ha preceduto, le memorie di età pregresse che, in una lunga vicenda di evoluzione o di involuzione, legano il presente al passato, con una concezione della storia in cui l'osservazione delle vicende degli umili, più "vere", più autentiche di quelle dei potenti, conduce a una scoperta progressiva e mai definitivamente conseguita della verità.
Come per altre opere gaddiane, questa materia composita e magmatica, oggetto dell'appassionato studio dell'Ingegnere, necessita di una lingua particolare, composita e mescidata, nata dal contributo dei più diversi linguaggi specifici: così il mondo del Pasticciaccio trova la propria voce nei dialetti parlati dai vari personaggi (romano, napoletano, molisano, veneto) come nel gergo della burocrazia o della tecnica, nei luoghi comuni o negli arcaismi dell'espressione letteraria, nei neologismi o nelle deformazioni dell'espressività d'autore. Il pastiche, fondato su un'idea di rappresentatività popolare cui il G. spesso allude, acquista in questo romanzo lo spessore e la motivazione profonda di un dato strutturale dell'organizzazione espressiva e semantica del mondo: dietro al disordine, al caos, all'inestricabilità delle cause, urge un'umanità sofferente, su cui si proietta costantemente l'acuta e ferita sensibilità dello scrittore. Se è possibile difenderne le ragioni dalle violenze della Storia - come nelle violente tirate antifasciste che costellano ricorrentemente la narrazione - non sempre è possibile comprenderne le motivazioni più intime, rivelate solo da una fisicità, una biologicità prepotente e ribelle a schemi sociali e a costruzioni soggettive.
A Torino, nel 1963, quando il nome del G. è ormai celebrato dalla critica, esce, con la fondamentale prefazione di Contini, La cognizione del dolore, di cui vari tratti erano già usciti su Letteratura fra il 1938 e il '41, e altri fra i racconti dell'Adalgisa, nel '44 e quelli delle Novelle dal Ducato in fiamme, del '53. Nel 1970 il G. pubblicherà la 4ª ed. del romanzo con l'aggiunta di due capitoli destinati a chiarire maggiormente la conclusione della narrazione.
Profondamente autobiografico, meno "spettacolare" linguisticamente del Pasticciaccio, ma non meno complesso come costruzione stilistica, per l'intreccio di registri e di lessici, la Cognizione è un "teatrino familiare" - proprio in senso freudiano - in cui il contrasto tra il Figlio e la Madre diviene il centro drammatico di un vortice di ire e di frustrazioni, di depressioni e di incerte speranze. Ambientato in una villa della Brianza, che riporta in scena fantasmi ben noti all'autore - velata da una "spolveratura creola", secondo la definizione di Contini, che traveste i toponimi familiari in quelli ironicamente esotici di un immaginario paese sudamericano -, il romanzo racconta lo scontro quotidiano tra la Signora insensatamente prodiga di aiuti ed elemosine per la folla di questuanti che ogni giorno l'assedia e il figlio Gonzalo, insofferente di questa generosità devastante, del degrado, non solo economico, della vita familiare, dell'opportunismo di quanti frequentano quell'ormai povera casa. Sullo sfondo di una natura che sembra esaltare vitalisticamente l'asprezza dei contrasti, il protagonista, altra figura dolorante dell'autore, ripercorre i luoghi e i tempi delle proprie nevrosi, si abbandona a ire improvvise, al risentimento per un'umanità circostante, vuota e stolida, che sembra proporsi come modello di successo sociale. L'imbecillità dei neo-ricchi e degli arrampicatori, la loro volgarità cialtronesca - immortalata in pagine celebri, grotteschi disegnati magistralmente come quello del pranzo nel ristorante alla moda - fa risaltare ancor più la dimessa rassegnazione della Madre e l'incapacità del Figlio di accettare una quotidianità penosa, agitato da una "perturbazione dolorosa […] che pareva uscire da uno strazio […] senza confessione", un "male oscuro" come disagio esistenziale che accompagna un'intera esistenza. Gonzalo rifiuta di pagare la vigilanza notturna della villa da parte delle guardie del "Nistitúo de vigilancía para la noche" - in cui è simboleggiato l'autoritarismo oppressivo del regime - e poco dopo il corpo della Madre è ritrovato, nel proprio letto, vittima di una violenta aggressione. Sulla visione del cadavere inerme, ridotto "all'orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia; solitudine di visceri e di volti senza pensiero", la narrazione si chiude, priva di accenni a possibili responsabili dell'assassinio. Il G. in realtà - come risulta da abbozzi inediti, studiati dal Roscioni - aveva preparato diverse soluzioni, che indicavano l'autore del delitto nelle guardie del Nistitúo, nello stesso Gonzalo, in un peone, ma rinunciò sempre a simili spiegazioni dei fatti, in fondo riduttive dell'assunto dell'opera che vuole inutile la ricerca di un'unica responsabilità per eventi concernenti complessivamente sistemi di vita e di rapporti umani. La "cognizione del dolore" si configura allora come l'unica scienza umana possibile, la sola che, di là dalle spiegazioni contingenti, restituisca la natura delle cose e la verità delle anime. Nel personaggio del Figlio il G. mette spietatamente in scena se stesso, le proprie nevrosi, le proprie frustrazioni, le speranze deluse e le illusioni rinnovate, la polemica costante contro il mondo esterno e contro le sue "vane parvenze". E così, ancora una volta - come ha scritto H.M. Enzensberger - la tempesta interiore può trasformarsi "in una selvaggia e poco rassicurante allegria, in un arrischiato e bivalente umorismo"; pur nell'assunto drammatico del romanzo, il G. non rinuncia alla cifra comica, parodica, deformante, anche se ora essa è, per lo più, deputata a smascherare le mitologie quotidiane: in queste pagine di acre polemica contro una borghesia ricca e presuntuosa, la lingua della Cognizione ritrova le impennate, le molteplici risorse espressive, la creatività esasperata che caratterizzano la più matura scrittura gaddiana. Altrove il romanzo esibisce una prosa più piana, che mantiene l'intreccio di arcaismi, lessemi colti o rari, l'uso particolarmente felice di inserti latini o reminescenze classiche, di un periodare retoricamente "ornato" e solenne nello scandire - anche attraverso una serie di simboli di tradizione letteraria: il temporale, gli insetti, il paesaggio naturale - il lento ma progressivo montare della tragedia. Ne deriva una partitura complessa ma abilmente costruita e di straordinaria efficacia drammatica, dove si compongono "tensione lirica e satira scatenata, scandaglio psicanalitico e rappresentazione oggettiva, misantropia e pietà, risentimento viscerale e riflessione filosofica" (Ferrero).
Ad aiutare il successo di un testo difficile come la Cognizione fu certamente la prefazione del Contini alla prima edizione einaudiana del romanzo (Torino 1963): esaltando l'originalità linguistica e strutturale del testo, il critico riconduceva l'esperienza del G., certo isolata nella prima metà di questo secolo, a una tradizione secolare di "espressionismo" o "espressivismo" (come si preferì dire in un secondo tempo, per evitare confusioni tra categorie specifiche e movimenti storici) da far risalire fino al macaronico di Folengo e al Rabelais: una tradizione che, in epoche più recenti, trovava vitalissime testimonianze nelle esperienze degli scapigliati, nel plurilinguismo programmatico, antagonista rispetto a una letteratura ufficiale classicheggiante e toscanocentrica, da essi praticato.
La Cognizione del dolore vale al G. l'importante riconoscimento del Premio internazionale di letteratura che ne sancisce un prestigio e una fama non limitata all'Italia; nonostante le difficoltà comincia a essere tradotto in Francia e in Germania; diviene oggetto di analisi tanto per la critica militante quanto per quella accademica. I critici e gli scrittori della neoavanguardia (da A. Guglielmi ad A. Arbasino, da E. Sanguineti a G. Manganelli) - attenti alle valenze metalinguistiche e polemicamente metaletterarie della sua opera - lo assumono come modello pratico e teorico di sperimentazione. Ma lo scrittore conduce l'ultimo decennio della sua esistenza sempre più appartato e timoroso di misurarsi con una fama crescente e con i fastidi che ne potevano derivare.
Il G. morì a Roma il 21 maggio 1973.
Nel variegato panorama del nostro Novecento il G. è uno fra gli scrittori di maggior respiro europeo, uno degli autori che partecipa alla grande rivoluzione del genere romanzo che, dai primi decenni del secolo, è avviata da M. Proust, R. Musil, J. Joyce, L. Pirandello, F. Kafka. Le scelte linguistiche e stilistiche del G., se da un lato possono, almeno inizialmente, ricondursi alla cultura del frammentismo tanto diffusa in questi anni, in realtà giungono a risultati creativi e teorici di estrema originalità, che caratterizzano uno specifico approccio alla letteratura che potrebbe definirsi uno "sternismo novecentesco", in riferimento alla metanarrativa di Sterne, ma con l'innesto di quella drammatica tensione euristica che caratterizza la letteratura del Moderno: con le prospettive aperte dalla sua scrittura, il G. porta la letteratura italiana definitivamente fuori dalla tradizione ottocentesca del naturalismo e da quella più recente della prosa d'arte, verso una letteratura di conoscenza e di riflessione, di messa in scena ludica e di inesausta ricerca espressiva.
Opere: L'opera omnia del G. è stata finalmente raccolta, tra il 1988 e il '93, per l'editore Garzanti in un'edizione critica - in cinque volumi più gli indici - corredata di un ricco apparato di note, diretta da D. Isella e curata, oltre che dallo stesso Isella, da Liliana Orlando, Clelia Martignoni, C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni, Maria Antonietta Terzoli, Raffaella Rodondi, G. Lucchini, E. Manzotti, Paola Italia, A. Silvestri: un'impresa che finalmente mette ordine nelle complicate vicende testuali delle opere gaddiane. Ad essa vanno aggiunte le Poesie, a cura di M.A. Terzoli, Torino 1993; il volume "Per favore, mi lasci nell'ombra". Interviste 1950-1972, a cura di C. Vela, Milano 1993; nonché i numerosi epistolari via via pubblicati, tra cui vanno ricordati: A un amico fraterno. Lettere a Bonaventura Tecchi, a cura di M. Carlino, Milano 1984; Lettere agli amici milanesi, a cura di E. Sassi, Milano 1983; Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario 1934-1967, Milano 1988; Lettere alla sorella 1920-1924, a cura di G. Colombo, Milano 1987.
Fonti e Bibl.: Antologie della critica: G. e la critica, a cura di G. Patrizi, Bologna 1975; A. Ceccaroni, Leggere G., Bologna 1978. Importante rassegna della critica: A. Cortellessa, Il punto su G. Tentativo di ordinare la bibliografia gaddiana: 1993-1994, in Studi novecenteschi, XXIII (1996), 51, pp. 159-242. Tra le numerosissime voci critiche, da ricordare: G. Devoto, in Annali della R. Scuola normale superiore di Pisa, s. 2, V (1936), pp. 187-210 (poi, col titolo Dal "Castello di Udine" di C.E. G., in Id., Studi di stilistica, Firenze 1950, pp. 57-90); G. De Robertis, Scrittori del Novecento, Firenze 1940, pp. 325-344; C. Cases, Un ingegnere de letteratura, in Mondo operaio, n. 5, maggio 1958, pp. 7-17; P.P. Pasolini, G., in Passione e ideologia, Milano 1960, pp. 313-349; G. Barberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano 1961, pp. 147-157; P. Citati, Il male invisibile, in Il Menabò, VI (1963), pp. 12-41; P.P. Pasolini, Un passo di G., in L'Europa letteraria, IV (1963), 20-21, pp. 61-67 (ora in Id., Il portico della morte, Roma 1980); A. Guglielmi, G., in Letteratura italiana. I contemporanei, Milano 1963, pp. 1051-1069; Id., Avanguardia e sperimentalismo, Milano 1964, pp. 9-18, 36-44; R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano 1964, pp. 105-130; G. Guglielmi, Letteratura come sistema e come funzione, Torino 1967, pp. 128-137; W. Pedullà, La letteratura del benessere, Napoli 1968, pp. 357-372; G.C. Roscioni, La disarmonia prestabilita, Torino 1969; A. Arbasino, L'ingegnere e i poeti, in Sessanta posizioni, Milano 1971, pp. 181-193; G. Baldi, C.E. G., Milano 1972; E. Ferrero, Invito alla lettura di C.E. G., Milano 1972; G. Cattaneo, Il gran lombardo, Torino 1973; R.S. Dombrowski, Introduzione allo studio di C.E. G., s.l. [ma Firenze] 1974; L'alternativa letteraria del '900: G., Roma 1975; E. Gioanola, L'uomo dei topazi, Genova 1977; E. Manzotti, Note sulla sintassi della "Cognizione", in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, a cura di F. Alessio - A. Stella, Milano 1979, pp. 343-379; C. Benedetti, Una trappola di parole, Pisa 1980; A. Giuliani, La soluzione del "pasticciaccio", in Id., Autunno del Novecento, Milano 1984; G. Progettualità e scrittura. Atti del Convegno, Roma 1984, a cura di M. Carlino - F. Muzzioli - A. Mastropasqua, Roma 1987; G.C. Ferretti, Ritratto di G., Roma-Bari 1987; A. Andreini, Studi e testi gaddiani, Palermo 1988; G. Lucchini, L'istinto della combinazione: le origini del romanzo in C.E. G., Firenze 1988; G. Contini, Quarant'anni di amicizia, Torino 1989 (comprende tutti gli scritti dell'autore sul G.); M. De Benedictis, La piega nera. Groviglio stilistico ed enigma della femminilità in C.E. G., Anzio 1991; F.P. Botti, C.E. G. o la filologia dell'apocalissi, Napoli 1996; G. Patrizi, Il caso G., in Id., Prose contro il romanzo. Antiromanzi e metanarrativa nel Novecento italiano, Napoli 1996, pp. 81-130; D. Carmosino, Tra estetica ed etica: C.E. G. critico militante, in Italianistica, XXVI (1997), pp. 279-302; W. Pedulla, C.E. G.: lo scrittore come delinquente, Milano 1997, G.C. Roscioni, Il duca di Sant'Aquila. Infanzia e giovinezza di G., Milano 1997.